decesso anticipato - errori diagnostici - errata lettura radiografia - danno da perdita di chance

09/03/2018 n. 5641 - Cassazione civile, sez. III

xxxx convennero dinanzi al Tribunale di Roma la Casa di Cura Villa Mafalda ed i sanitari xxxxxx, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti a causa del decesso anticipato della propria congiunta, D.G.P., determinato da errori diagnostici – consistiti nella non corretta interpretazione di due radiografie toraciche – e dall’inutile intervento chirurgico di toracotomia eseguito presso la predetta clinica.

2. Il giudice di primo grado accolse la domanda nei confronti di T.L., di M.A. e della Casa di Cura, rigettandola nei confronti degli altri convenuti, e rigettò altresì la domanda di manleva proposta dalla struttura sanitaria nei confronti della propria compagnia assicuratrice, la Vittoria s.p.a., dichiarando la srl (OMISSIS) tenuta a manlevare Villa Mafalda dalle conseguenze delle pretese attoree.

2.1. Ritenne il primo giudice che tanto la prima quanto la seconda radiografia, eseguite, rispettivamente, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), dalla dottoressa M. e dal dott. T., non fossero state correttamente interpretate (dal primo esame era, difatti, visibile una radiopacità comprovante l’esistenza di un adenocarcinoma in fase iniziale, dal secondo risultava evidente la progressione della patologia), così causando un ritardo di due anni e mezzo nella diagnosi di tumore polmonare, mentre una tempestiva e corretta diagnosi avrebbe consentito di evitare l’aggravamento della patologia.

2.2. La responsabilità della terza chiamata (OMISSIS) traeva poi fondamento nell’avere la Casa di Cura messo a disposizione di quest’ultima i locali idonei allo svolgimento dell’attività radiologica, con organizzazione ed impianti suoi propri.

2.3. Nessun addebito poteva invece, a giudizio del Tribunale, essere mosso ai chirurghi V. e D.N., poichè l’intervento da essi eseguito risultava conforme alle linee guida, come da conclusioni del ctu.

2.4. Nessuna responsabilità a titolo di garanzia poteva, infine, essere ascritta alla compagnia assicurativa, volta che il contratto sottoscritto con la Villa Mafalda non copriva la responsabilità professionale dei medici non dipendenti, garantendo, di converso, unicamente le vicende direttamente imputabili all’assicurata.

3. Nel liquidare il danno, il Tribunale ritenne:

– Quanto al danno biologico richiesto iure heraeditatis, che questo andasse risarcito con riferimento alla sola invalidità temporanea (non essendo configurabile una invalidità permanente a seguito del verificarsi dell’evento morte); che tale risarcimento, da riferirsi temporalmente all’intervallo tra la lesione del bene-salute e la morte, avvenuta in via anticipata rispetto al prevedibile esito finale e comunque ricollegabile alla patologia, dovesse prescindere dai criteri tabellari previsti per ogni giorno di invalidità, atteso che la lesione della salute appariva di massima entità ed intensità; che i fattori di personalizzazione dovessero applicarsi in grado assai elevato, tenendo conto della maggiore intensità della sofferenza, con conseguente ricorso ad un criterio equitativo puro; che la peculiarità del danno biologico terminale consisteva nella irreversibile compromissione della capacità recuperatoria o stabilizzatrice della salute, degradando verso la morte; che equo risarcimento a titolo di danno biologico apparisse, pertanto, quello di 75 mila Euro;

– Quanto al danno morale richiesto iure heraeditatis, che questo potesse essere determinato in una misura pari ad una frazione del danno biologico, tenuto conto di tutte le peculiari circostanze del caso concreto, sì che equo risarcimento a tal titolo – inteso il danno quale sofferenza interiore patita dal de cuius – dovesse ritenersi la somma di 24 mila Euro;

– Quanto al danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, che il dolore patito dagli attori per la perdita, rispettivamente, della moglie e della madre convivente fosse stato particolarmente intenso a causa della prematurità del decesso, del tipo di legame affettivo con la congiunta e del venir meno della solidarietà ed unità del nucleo familiare; e che il danno risarcibile, nella specie, dovesse ritenersi la conseguenza dell’aggravamento della patologia, anticipatoria dell’evento letale che inevitabilmente ad essa sarebbe comunque conseguito; a A.R. venne, pertanto, liquidato, in via equitativa, la somma di 120 mila Euro, ed alle figlie F. e M.L. quella di 150 mila Euro ciascuna, così tenuto conto di entrambe le componenti, morale e relazionale, del danno da perdita del rapporto parentale;

– Quanto al danno patrimoniale, che potessero essere liquidate le spese funerarie (4000 Euro) e quelle per cure mediche (20.577 Euro), ma non anche quello da mancata contribuzione alle spese familiari, in asserita carenza della relativa prova.

4. Investita della impugnazione principale proposta da T.L., e di quelle incidentali introdotte dalle altre parti in causa, la Corte di appello di Roma, previa separazione e conseguente interruzione del giudizio nei confronti della fallita (OMISSIS) srl, e previa dichiarazione di inammissibilità della querela di falso proposta dagli A. in relazione alla copia della cartella clinica del (OMISSIS) e della copia del referto istopatologico sottoscritto (OMISSIS) dalla dottoressa F., accolse il primo e il quinto motivo dell’appello principale del T., ritenendo:

4.1. Quanto al primo motivo:

– Che gli A. avessero agito in giudizio attribuendo alla condotta dei medici la responsabilità dell’evento-morte della propria congiunta, sul presupposto che gli inadempimenti ad essi imputabili ne avessero cagionato il decesso – sostenendo, cioè, che, ove la diagnosi fosse stata tempestiva, ella non sarebbe morta di cancro ma sarebbe guarita dalla malattia;

– Che, in tal guisa, il risarcimento del danno così richiesto aveva avuto ad oggetto la perdita del rapporto parentale;

– Che, viceversa, il giudice di primo grado si era pronunciato non sul presupposto che i dedotti inadempimenti avessero causato la morte della donna, bensì che ne avessero ridotto le sue chance di sopravvivenza, essendo stata la morte determinata non dagli inadempimenti, ma dalla malattia, il cui esito avrebbe potuto solo ipoteticamente essere rallentato, ma non neutralizzato da una corretta condotta degli agenti, nè la malattia sconfitta;

– Che tale affermazione si fondava sulle conclusioni raggiunte dal CTU, secondo il quale, se, al momento della prima radiografia, fossero stati effettuati i necessari approfondimenti diagnostici, la paziente avrebbe avuto il 65% di probabilità di sopravvivenza a 5 anni, essendo invece deceduta due anni e mezzo dopo il compimento del primo esame;

– Che le obiezioni critiche sollevate dal consulente di parte – erroneamente il CTU si era limitato a considerare, nelle proprie valutazioni, il solo valore T (e cioè le dimensioni del tumore), ma non anche gli ulteriori parametri N (l’impegno linfonodale) ed M (l’impegno metastatico a distanza) – non potevano essere condivise alla luce della documentazione disponibile e delle cognizioni scientifiche del tempo, atteso che tali diversi parametri erano, in concreto, totalmente sconosciuti;

– Che pertanto, alla luce tanto del principio secondo il quale la prova del nesso causale grava sul creditore, quanto delle risultanze della CTU, appariva evidente l’insussistenza del nesso di causalità tra l’omessa tempestiva diagnosi e la morte (i.e. la mancata guarigione) della paziente;

– Che, conseguentemente, il Tribunale aveva errato nell’accogliere la domanda degli attori come se proposta sotto il profilo della riduzione delle chance di sopravvivenza, avendo essi richiesto invece il risarcimento del danno per avere i sanitari cagionato la morte della propria congiunta, non potendosi ritenere la domanda di risarcimento da perdita di chance ricompresa ipso facto in quella di condanna del convenuto al risarcimento di tutti i danni causati dalla morte della vittima;

– Che, nella specie, gli attori avevano “specificamente chiesto il danno da perdita del rapporto parentale”, il danno, cioè “subito per avere i convenuti cagionato la morte della D.G.” (così, testualmente, la sentenza impugnata al folio 22);

– Che gli stessi appellati, nella comparsa di costituzione avevano precisato di non aver mai chiesto giudizialmente il risarcimento del danno da perdita di chance.

4.2. Quanto al quinto motivo:

– Che gli attori non avessero espressamente richiesto il risarcimento per le spese mediche;

– Che il generico riferimento “a tutti i danni subiti, patrimoniali e non, nessuno escluso” avesse poi trovato specificazione, quanto alle spese sostenute, soltanto con riguardo a quelle funerarie.

4.3. Venne invece dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, il quarto motivo dell’appello principale, con la seguente motivazione:

– All’esito dell’accertamento tecnico, la vita della D.G. si era accorciata per effetto della ritardata diagnosi del tumore;

– Era evidente la diversità tra l’affrontare la malattia sapendo che essa è da addebitarsi a fattori incontrollabili o a stili di vita di cui lo stesso malato è responsabile, ovvero nella consapevolezza che la sua evoluzione è frutto dell’incapacità di leggere una radiografia da parte di un medico.

4.4. Negli stessi limiti venne accolto l’appello incidentale della dottoressa M. – previo rigetto della censura avente ad oggetto la sua pretesa assenza di colpa – e quello della Casa di Cura.

5. Venne invece rigettato il ricorso incidentale degli eredi di D.G.P..

6. Avverso la sentenza della Corte capitolina, M.L.F. e A.R. hanno proposto ricorso (da qualificarsi come principale, essendo le relative notificazioni partite il giorno 19.10.2015 dalle ore 9 in poi) sulla base di 7 motivi di censura.

6.1. La casa di Cura Villa Mafalda propone a sua volta ricorso (da qualificarsi come incidentale, essendo le relative notificazioni partite il giorno 19.10 dalle ore 17.57 in poi).

6.2. Resistono con controricorso M.A., T.L. e V.C.E..

LE RAGIONI DELLA DECISIONE
IL RICORSO PRINCIPALE ” A.”.

1. L’impugnazione è fondata, nei limiti di cui si dirà.

1.1. Con il primo motivo, si denuncia la nullità/annullabilità/illegittimità della sentenza impugnata per non individuabilità del giudice estensore.

Il motivo è del tutto privo di pregio, volta che, per costante giurisprudenza, la non intelligibilità della firma (comunque apposta) del giudice estensore risulta del tutto irrilevante se, come nella specie, questi sia chiaramente identificabile aliunde (nella specie, alla luce della stessa intestazione della sentenza).

1.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c. avendo la Corte di appello pronunciato in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, naturale corollario del principio della domanda ex art. 99 c.p.c. e art. 2907 c.c., del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., comma 2 e degli artt. 1218 e 1223 c.c..

1.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., avendo la Corte di appello posto a base della decisione una propria interpretazione dei fatti oltre a travisare quanto esposto nelle sentenza del tribunale e nella CTU, considerando ulteriori fatti non corrispondenti al vero ed erroneamente escludendo il nesso di causalità tra l’acclarato inadempimento delle controparti e il decesso di D.G.P., come invece confermato nella CTU espletata e statuito nella sentenza di primo grado, fornendo una valutazione ultra-petita extra-petita del fatto oggetto della domanda.

1.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112,101 e 345 c.p.c., avendo la Corte di appello compiuto una mutatio della domanda, dando nuova qualificazione alla causa petendi a seguito di nuova domanda implicita proposta in sede di appello, senza aver consentito alle parti di poter prendere posizione e così violando il principio del contraddittorio e di difesa.

2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente, devono essere accolti, nei limiti ed alla luce dei principi di cui si dirà.

2.1. Va premesso come il nucleo essenziale delle doglianze mosse alla sentenza impugnata si sostanzi nella contestazione di arbitrarietà e illegittimità della trasformazione, ad opera della Corte di appello, del danno richiesto e liquidato in primo grado (i.e., il danno da perdita del rapporto parentale) in una fattispecie di danno del tutto diversa, costituita “dalla riduzione delle chance di una più lunga sopravvivenza della signora D.G.” (così, testualmente, la pronuncia impugnata al folio 21, ove si evidenzia ancora, altrettanto testualmente, come “il Tribunale abbia correttamente ritenuto che l’inadempimento dei due sanitari non avesse cagionato la morte della paziente, non potendosi affermare che, se l’inadempimento non vi fosse stato, la D.G. non sarebbe morta di cancro al polmone, ma ne sarebbe guarita, secondo la regola del più probabile che non”).

2.2. Va altresì premesso che questo collegio condivide l’orientamento, già espresso in passato da questa Corte, che esclude la identità sostanziale del petitum nel caso in cui, chiesto il risarcimento per un evento di danno da lesione di un valore/interesse costituzionalmente tutelato (la salute; il rapporto parentale), la domanda muti, in corso di giudizio (e in spregio alle preclusioni di legge) – in istanza risarcitoria da perdita di chance (Cass. 13491/2004 e Cass. 21245/2012: in senso opposto, peraltro non condivisibilmente, Cass. 12961/2011), attesa la ontologica diversità del bene tutelato (i.e. dell’oggetto della lesione).

2.3. Non erra, peraltro, il ricorrente nel sostenere che la Corte di appello abbia, non legittimamente, trasformato una richiesta risarcitoria così come (correttamente) accolta in primo grado in una domanda da perdita di chance, dichiarandone conseguentemente la inammissibilità.

2.3.1. Nel’atto di citazione di primo grado, la domanda risarcitoria iure proprio lamentava, quale causa petendi, “la perdita della rispettiva moglie e madre con essi conviventi, da porsi in diretta relazione causale con gli errori diagnostici e terapeutici”.

2.4. Correttamente, in primo grado, il danno risarcibile (e in concreto liquidato) è stato pertanto identificato nella perdita anticipata del rapporto parentale, così (legittimamente) circoscritta la portata dell’originaria domanda (perdita del rapporto parentale tout court) in via d’interpretazione dell’atto di citazione – del tipo quanti minoris – fondata sul medesimo fatto storico e sui medesimi elementi costitutivi, senza che tale modificazione integrasse una inammissibile mutatio libelli (ciò che sarebbe stato, di converso, predicabile nel caso in cui oggetto del risarcimento fosse stato, in concreto, il riconoscimento di una chance perduta da parte del giudice di prime cure, come erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale).

3. Per meglio intendere il contenuto e la portata della decisione di appello (e della erroneità della riforma di quella del Tribunale) appare allora necessario premettere alcune più generali considerazioni sul tema della chance e dei suoi profili risarcitori.

3.1. La prima riflessione che si rende opportuna, con riferimento al caso di specie – e, conseguentemente, al tema che ne costituisce il presupposto decisionale, e cioè la morfologia e l’oggetto della chance – è quella per cui la (supposta) chance perduta ha ad oggetto (una lesione e) un danno non Patrimoniale.

3.2. Tanto è a dirsi poichè il modello teorico di riferimento della perdita di chance (la cui creazione giurisprudenziale è conseguenza della mancanza di una disposizione normativa ad hoc, fatte naturalmente salve le imponenti elaborazioni dottrinali sul tema) è stato e tuttora resta (come si legge nelle numerose pronunce di legittimità e di merito che affrontano la questione) IL DANNO PATRIMONIALE, dibattuta essendone la sola FORMA – e cioè quella di danno emergente piuttosto che di lucro cessante.

3.3. Storicamente, l’evoluzione giurisprudenziale sul tema della chance prerderà le mosse dalla pronuncia n. 6506/1985 della sezione lavoro di questa Corte, che si espresse (così cassando la sentenza di merito) a favore della risarcibilità del danno allegato da uno dei partecipanti ad un concorso al quale, dopo aver brillantemente superato la prova scritta, fu impedita la partecipazione ai successivi orali (sul medesimo piano storico, si rammenta che fu la decisione di una Corte inglese – Chaplin v. Hicks del 1911 – la prima ad affrontare funditus il tema della chance in una vicenda in cui si disse risarcibile il danno lamentato da una ragazza che, preso parte ad un concorso di bellezza, dopo essere stata selezionata tra le dodici finaliste, non ricevette mai l’avviso della celebrazione della finale).

3.4. I principi posti a fondamento della decisione del 1985 furono: a) ogni individuo ha diritto all’integrità del proprio patrimonio; b) la speranza di un guadagno futuro costituisce una entità risarcibile (testualmente, “una ricchezza”); c) la perdita della speranza di conseguire un risultato utile costituisce lesione dell’integrità del patrimonio, e quindi un danno risarcibile; d) il danneggiato ha l’onere di provare che la chance perduta presenti una percentuale di successo probabile, e cioè pari ad almeno il 50%, poichè, “in presenza di una possibilità sfavorevole superiore a quella favorevole, non vi è ragione alcuna che possa giustificare la prevalenza della seconda sulla prima, e quindi la sussistenza di un danno”.

4. La portata di quella decisione traeva sostanza, in realtà, non dalla individuazione di un nuovo “bene” oggetto di tutela, bensì dalla formulazione di un vero e proprio principio causale (al tempo in cui la causalità civile seguiva le orme di quella penale, i.e. la “certezza processuale”, poi divenuta, a seguito della storica sentenza 30328/2002 delle sezioni unite penali, “alto grado di probabilità logica/alto grado di credenza razionale”).

4.1. Il duplice paralogismo che ha accompagnato l’evoluzione storica della teoria della chance perduta si annida, pertanto, nel ricostruirne, da un canto (più o meno consapevolmente), i tratti caratterizzanti in termini di danno patrimoniale, e, dall’altro, nell’avere (inconsapevolmente) sostituito uno degli elementi essenziali della fattispecie dell’illecito – il nesso causale – con il suo oggetto – il bene tutelato oggetto della lesione -, tanto da indurre autorevole dottrina a definirne la relativa teorizzazione in termini di “stampella della zoppia causale”.

4.2. La prima precisazione che si rende necessaria, con riferimento all’odierna fattispecie, è quella secondo cui il modello “patrimonialistico” della chance mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire, per il soggetto che si dichiara danneggiato da una condotta commissiva (o più spesso omissiva) colpevole, un risultato migliore sul piano non patrimoniale.

3.6.1. Se la chance patrimoniale presenta le stimmate dell’interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa (il partecipante ad un concorso è portatore di conoscenze e preparazione che preesistono all’intervento “soppressivo” del preposto all’esame; l’azienda che prende parte ad una gara ad evidenza pubblica è portatrice di professionalità e strutture operative che preesistono all’intervento “eliminativo” della stazione appaltante), altrettanto non è a dirsi per la chance “non pretensiva”, rappresentata anch’essa (e segnatamente nel sottosistema della responsabilità sanitaria), sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, ma morfologicamente diversa rispetto alla prima: l’apparire del sanitario sulla scena della vicenda patologica lamentata dal paziente coincide, innanzitutto, con la creazione di una chance, prima ancora che con la sua (eventuale) cancellazione colpevole, e si innesta su di una preesistente situazione sfavorevole (e cioè patologica) rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un quid inteso come preesistenza “positiva”, e positivamente identificabile (il paziente è portatore di una condizione di salute che, prima dell’intervento del medico, rappresenta un pejus, e non un quid in positivo, sul piano della chance).

3.6. Tanto è a dirsi non soltanto su di un piano di diversità morfologica, ma anche con riferimento al profilo degli effetti (i.e., al momento risarcitorio) della fattispecie, dovendo il giudice di merito inevitabilmente tener conto, sia pur sul piano strettamente equitativo, di tale diversità nella liquidazione del danno. Se, difatti, in sede di accertamento del valore di una chance patrimoniale è spesso possibile il riferimento a valori oggettivi (il giudice amministrativo, in alcune sue decisioni, ha adottato il parametro del 10% del valore dell’appalto all’atto del riconoscimento di una perdita di chance di vittoria da parte dell’impresa illegittimamente esclusa), diverso sarà il criterio di liquidazione da adottare per la perdita di una chance a carattere non patrimoniale, rispetto alla quale il risarcimento non potrà essere proporzionale al risultato perduto, ma commisurato, in via equitativa, alla possibilità perduta di realizzarlo: possibilità che, per integrare gli estremi del danno risarcibile, dovrà necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà, consistenza, rispetto ai quali il valore statistico/percentuale – se in concreto accertabile – potrà costituire al più criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.

3.7. Il secondo paralogismo in cui talvolta incorre la giurisprudenza di legittimità e di merito, oltre che parte della dottrina specialistica, è costituito dalla “contrazione” (che si risolve in una vera e propria elisione in parte qua) dell’analisi degli elementi destinati ad integrare diacronicamente gli estremi della fattispecie dell’illecito, sovrapponendosi, da un canto, l’accertamento dell’elemento causale a quello dell’evento di danno (a cagione dell’equivocità del lessico usato per definire la chance), ed errandosi poi nell’identificazione stessa di quell’evento, sovente ricondotto al concetto di chance pur non avendone, di essa – specie in tema di responsabilità oncologica – carattere alcuno.

3.8. La connotazione della chance – intesa, al pari di ogni altra conseguenza della condotta illecita, come evento di danno – in termini di possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale non esclude nè elide, difatti, la necessaria e preliminare indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento (in senso contrario, non condivisibilmente, Cass. 21619/2007).

3.8.1. Appare, pertanto, fuorviante la distinzione tra chance cd. “ontologica” e chance “eziologica”, volta che la seconda delle predette definizioni sovrappone inammissibilmente la dimensione della causalità con quella dell’evento di danno, mentre la prima evoca una impredicabile fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall’esistenza e dalla prova di un danno risarcibile.

Indagine che andrà, come di consueto, condotta alla luce del criterio civilistico del “più probabile che non” (sulla cui portata, funditus, Cass. 15991/2011; 18392/2017).

3.9. L’attività del giudice dovrà, pertanto, muovere dalla previa disamina della condotta (e della sua colpevolezza) e dall’accertamento della relazione causale tra tale condotta e l’evento di danno (la possibilità perduta), senza che i concetti di probabilità causale e di possibilità (e cioè di incertezza) dell’evento sperato possano legittimamente sovrapporsi, elidersi o fondersi insieme.

3.9.1. Qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse.

4. Applicando tale criterio alla responsabilità sanitaria in ambito oncologico – quale quella di specie -, possono, pertanto, formularsi le seguenti ipotesi:

a) La condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell’accertamento della disposta CTU. In tal caso l’evento – conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole – sarà attribuibile al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.

b) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.

c) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l’aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l’evento di danno (e il danno risarcibile) sarà in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance.

d) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualità delle vita medio tempore e sull’esito finale. La mancanza, sul piano etiologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.

e) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) – sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta – se provato il nesso causale (certo ovvero “più probabile che non”), tra la condotta e l’evento incerto (la possibilità perduta) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza (supra, sub 3.6.).

5. Ne consegue che l’incertezza del risultato incide non sulla analisi del nesso causale, ma sulla identificazione del danno, poichè la possibilità perduta di un risultato sperato (nella quale si sostanzia la chance) è la qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante, e non della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta positivamente prima e a prescindere dall’analisi dell’evento lamentato come fonte di danno.

6. Pertanto, ove risulti provato, sul piano etiologico, che la mancata diagnosi di una patologia tumorale abbia cagionato la morte anticipata del paziente, che sarebbe (certamente o probabilmente) sopravvissuto significativamente più a lungo e in condizioni di vita (fisiche e spirituali) diverse e migliori, non di “maggiori chance di sopravvivenza” sarà lecito discorrere, bensì di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità (fisica e spirituale).

6.1. In tal modo, non vengono vulnerati i tradizionali criteri di accertamento dell’illecito, nè con riguardo alla relazione causale (e alle sue regole), nè alla natura dell’evento di danno da porre in relazione con la condotta dell’agente (vivere di meno e vivere peggio): l’indagine etiologica dovrà seguire sic et simpliciter l’ordinaria trama probatoria dettata in tema di causalità materiale, così fugandosi l’equivoco lessicale (che ridonderebbe inevitabilmente sullo stesso accertamento della causalità) per il quale la condotta avrebbe causato “la perdita della possibilità (i. e. della chance) di vivere più a lungo e di vivere meglio”.

6.1.1. In tal senso può convenirsi con quella attenta dottrina che qualifica la perdita di chance come un diminutivo astratto dell’illecito: diminutivo, peraltro (inevitabilmente astratto, poichè il suo risarcimento non potrà che avere fondamento equitativo, sia pur “in diminuzione”) del danno, e non del rapporto causale con la condotta colpevole.

6.2. Viene in tal guisa scongiurato il rischio, in cui pure sembrano incorrere a cune recenti sentenze di merito, di confondere il grado di incertezza della ciance perduta con il grado di incertezza sul nesso causale.

6.3. Il nesso di causalità sarà difatti escluso, al di là ed a prescindere dall’esistenza della possibilità di un risultato migliore, dalla presenza di fattori alternativi che ne interrompano la relazione logica con l’evento (quale il sopravvenire di altra patologia determinante di per sè sola dell’exitus o di altri eventi ascrivibili alla condotta di terzi o dello stesso danneggiato).

6.4. Sarà altresì esclusa ogni rilevanza causale della condotta, sul piano probabilistico, in tutti i casi di incertezza (ad esempio, nell’ipotesi di cd. multifattorialità dell’evento) sul rapporto di derivazione etiologica tra la condotta stessa e l’evento, pur nella sua astratta configurabilità in termini di possibilità perduta.

6.5. Esemplificando, nella fattispecie di illecito rappresentato dalla nascita di un feto malformato conseguente alla colpevole omissione di diagnosi da parte del sanitario che ha impedito alla gestante l’esercizio del suo diritto alla interruzione di gravidanza:

– Se la gestante provi (con onere a suo carico) che, debitamente informata, quella gravidanza ella avrebbe certamente interrotto, il sanitario risponderà nei suoi confronti di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla sua colpevole omissione.

– Se, viceversa, risulti provato in giudizio che, anche in costanza di una corretta informazione, la gestante avrebbe comunque scelto di portare a termine la gravidanza, nessun risarcimento sarà dovuto, per mancanza di efficienza causale tra la condotta del sanitario e l’evento, che si sarebbe comunque verificato anche in assenza dell’omissione colpevole.

– Se la condotta colpevole sia intervenuta in epoca successiva allo spirare dei termini ultimi di cui, rispettivamente, alla L. n. 184 del 1978, artt. 4 e 6, non il nesso di causalità, ma l’ingiustizia del danno risulterà esclusa, volta che la possibilità perduta di ricorrere all’aborto, pur causalmente riconducibile alla condotta omessa, è esclusa ex lege dal definitivo spirare dei termini per la sua realizzazione.

– Se, in sede processuale, la gestante dichiari (lealmente) di essere incerta, ora per allora, su quale sarebbe stata la sua scelta se correttamente informata, il danno sarà rappresentato da questa possibilità perduta, causalmente riconducibile (in termini di certezza) all’omissione colpevole, e correttamente predicabile in termini di chance equitativamente risarcibile.

7. Ne consegue che, provato il nesso causale, secondo le ordinarie regole civilistiche, rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza ed nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. Sul medesimo piano d’indagine, che si estende dal nesso al danno, ove quest’ultimo venisse morfologicamente identificato, in una dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente (come scelta, hic et nunc, di politica del diritto, condivisa, peraltro,