errato dosaggio farmaci che provoca la morte della paziente
10/01/2008 n. 840 - Corte Cassazione Penale
Il medico è stato ritenuto responsabile per non aver seguito un corretto dosaggio dei farmaci somministrati alla paziente provocando così un accumulo dei principi attivi contenuti nei medesimi farmaci da cui derivavano gravi alterazioni patologiche che cagionavano il decesso.
La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza 17 giugno 2005, ha confermato la sentenza 18 dicembre 2003 del Tribunale di Bergamo che aveva condannato B. G. alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di omicidio colposo in danno di S. C.
La Corte di merito ha ritenuto accertato che l’imputato, medico neurologo che aveva in cura la persona offesa, avesse colposamente cagionato la morte della paziente, in cura presso di lui per una sindrome depressiva dalla quale era affetta da anni, per non aver seguito un corretto dosaggio dei farmaci somministrati alla paziente provocando così un accumulo dei principi attivi contenuti nei medesimi farmaci da cui derivavano gravi alterazioni patologiche che cagionavano il decesso.
In particolare, secondo i giudici di merito, i sovradosaggi si erano verificati per i due farmaci prescritti, un antidepressivo triciclico contenente il principio attivo clormipramina (Anafranil) e una benzodiazepina (Lexotan) contenente il principio attivo bromazepan.
I giudici di merito hanno ritenuto accertato il sovradosaggio dei farmaci e hanno escluso che l’evento mortale potesse essere stato provocato da altri fattori causali; in particolare hanno escluso, in base agli elementi di prova acquisiti, che l’intossicazione potesse essere stata provocata da un’ingestione per via orale – volontaria o casuale – da parte della persona offesa, del farmaco contenente il principio attivo clormipramina che doveva essere somministrato per via parenterale e un metabolita del quale era stato rinvenuto nello stomaco della persona deceduta.
II) Contro la sentenza della Corte bresciana ha proposto ricorso, a mezzo del suo difensore, B. G. il quale ha dedotto i seguenti motivi di censura.
Con il primo motivo di ricorso si evidenzia che nei motivi di appello si era contestato che il ritrovamento del principio attivo clormipramina nello stomaco della paziente dopo la sua morte potesse essere derivato da una diffusione del farmaco dopo la morte sostenendo invece che si trattava della prova dell’ingestione per via orale del farmaco (Anafranil) che contiene questo principio attivo.
OMISSIS
VII) Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso con il quale si propongono censure in tema di rapporto di causalità.
Come si è già accennato nel ricorso non si pone in discussione che il decesso sia materialmente ricollegabile al sovradosaggio farmacologico che aveva scatenato la crisi che ha condotto alla morte la paziente.
Il ricorrente peraltro ricostruisce in termini omissivi la causalità per poter affermare l’inesistenza della prova che, se interrotta o sostituita la cura in atto da adeguata terapia, la paziente si sarebbe salvata (in realtà la sentenza impugnata formula questo giudizio in termini di certezza ma il ricorrente contesta questa ricostruzione con il richiamo alla sentenza di primo grado).
In merito a questa censura va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di causalità.
In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale non è anche perché sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l’evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l’intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l’accertamento della natura della causalità.
E’ peraltro necessario evitare di confondere tra il reato omissivo e le componenti omissive della colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia “non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza”.
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui, nell’ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi; sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.
VIII) Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame.
Il dott. B. non ha violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua attivazione ma ha violato il divieto di somministrare le terapie in dosaggi superiori a quelli previsti e senza tener conto della pericolosità dei fattori di accumulo.
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può affermarsi che il medico abbia introdotto nel quadro clinico della paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi.
Si badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria dell’aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l’evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se l’evento è causalmente ricollegabile alla condotta dell’imputato in termini di sostanziale certezza è evidente che non è necessario porsi la domanda se il mutamento della terapia avrebbe avuto efficacia salvifica. Anche se la risposta fosse negativa l’evento sarebbe infatti pur sempre ricollegabile alla iniziale condotta attiva dell’agente.
Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come implicitamente richiede il ricorrente, dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c’è stata e chiedendosi se, posta in essere la medesima, l’evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale. Ma chiedendosi se, ipotizzando non avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto la paziente all’esito fatale.
E su quale debba essere la risposta a questo quesito neppure il ricorrente mostra di avere dubbi.
IX) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al Pagamento delle spese processuali oltre alle pronunzie sull’azione civile di cui al dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al rimborso delle spese per questo grado di giudizio in favore delle parti civili; spese che liquida in complessivi euro 2.250,00 ivi compresi euro 2.000,00 per onorario oltre Iva e Cpa nelle misure di legge.