responsabilità civile- responsabilità dell'obbligato alla sorveglianza
10/11/2010 n. 22818 -
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I fatti rilevanti ai fini della decisione possono essere così ricostruiti sulla base della sentenza impugnata.
Con citazione notificata il 15 maggio 1990 F.L., premesso che la propria figlia M., affetta da “oligofrenia di grado elevato in soggetto con note mongoloidi ed emiplegia destra”, durante un periodo di degenza presso l’I.R.M.I. – Istituto Riabilitativo Mezzogiorno d’Italia di Marano (di seguito anche solo I.R.M.I.), aveva subito violenza carnale ad opera di ignoti, rimanendo, in conseguenza di tanto, incinta di talchè era stata fatta abortire, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli il predetto Istituto chiedendo il risarcimento dei danni sia fisici che morali patiti dalla ragazza.
Resisteva il convenuto, che contestava l’avversa pretesa.
Con sentenza depositata il 27 marzo 2002 il giudice adito, in. accoglimento della domanda, condannava I.R.M.I. s.r.l. al pagamento in favore di F.L., nella qualità, della somma di L. 300.000.000, oltre svalutazione, interessi e spese.
Proposto gravame dal soccombente, la Corte d’appello, in data 11 febbraio 2005, lo respingeva.
Avverso detta pronuncia l’Istituto Riabilitativo Mezzogiorno d’Italia di Marano propone ricorso per cassazione formulando dodici motivi e notificando l’atto a F.L. in proprio e nella qualità.
Resistono con controricorso L. e F.A., quali tutori di F.M. che eccepiscono, in limine, l’inammissibilità, per tardività, dell’impugnazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. E’ anzitutto destituita di fondamento l’eccezione di inammissibilità sollevata in controricorso.
E’ sufficiente all’uopo rilevare che il termine lungo per la proposizione dell’impugnazione – e, quindi, anche del ricorso per cassazione – stabilito a pena di decadenza dall’art. 327 c.p.c. si computa, in considerazione della sospensione dei termini processuali prevista dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, senza tener conto dei giorni compresi tra il 1 agosto ed il 15 settembre dell’anno della pubblicazione della sentenza impugnata (Cass. civ., sez. unite, 5 ottobre 2009, n. 21197; Cass. civ. 18 novembre 24302).
Nella fattispecie la sentenza della Corte d’appello risulta depositata in data 11 febbraio 2005, laddove il ricorso per cassazione è stato notificato l’8 marzo 2006, entro l’arco temporale, dunque, fissato dal legislatore per adire il giudice dell’impugnazione.
Passando ad esaminare i motivi di ricorso, col primo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c.p.c., comma 3. La censura ha ad oggetto l’affermazione secondo cui la tardiva indicazione dei testi da escutere, ad opera dell’attore, non aveva comportato l’inammissibilità della prova orale dallo stesso articolata, tenuto conto che, nel previgente sistema normativo, per consolidato orientamento giurisprudenziale, la relativa decadenza non era suscettibile di rilievo officioso, ed era destinata a rimanere sanata ove l’altra parte nulla avesse eccepito al momento dell’ammissione del mezzo, come puntualmente verificatosi nella fattispecie. Sostiene invece il ricorrente che contro le decisioni del giudice istruttore essa aveva proposto tempestivamente reclamo e che in ogni caso l’inammissibilità della prova è rilevabile anche d’ufficio.
1.2 Osserva il collegio che il motivo è, per certi aspetti inammissibile, per altri infondato.
Merita anzitutto evidenziare che, valorizzando il mancato rilievo della decadenza al momento dell’ammissione della prova (ex art. 244 c.p.c., comma 3 nel testo antecedente alle modifiche introdotte dalla L. 26 novembre 1990, n. 353), la Curia territoriale si è allineata a un corposo, ancorchè non univoco, orientamento giurisprudenziale, volto a escludere o attenuare il regime della perentorietà sancito per l’indicazione dei mezzi di prova con riferimento alla indicazione dei nomi dei testi da escutere. E’ stato invero da questa Corte affermato che, nel previgente assetto normativo, applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio. La parte che depositava la lista testimoniale dopo la scadenza del termine assegnatole dal giudice non incorreva in. alcuna decadenza, perchè l’art. 184 c.p.c., comma 2, prevedeva la perentorietà del termine per indicare nuovi mezzi di prova, non per indicare i nomi dei testi di una prova già ammessa (Cass. civ. 19 luglio 1999, n. 7682), e che, in ogni caso, l’inosservanza del termine stabilito dall’art. 244 c.p.c., comma 3, (nella sua originaria formulazione), per articolare o integrare le indicazioni circa la prova testimoniale comportava la decadenza dall’assunzione della prova, sempre che detta decadenza fosse stata eccepita dalla controparte tempestivamente, vale a dire nella prima istanza o difesa successiva, in applicazione del principio generale di cui all’art. 157 c.p.c. (Cass. civ. 27 luglio 1996, n. 6813).
La censura, in ogni caso, difetta di autosufficienza: il ricorrente, invero, ha omesso di riprodurre sia le deduzioni hinc et inde formulate, nel giudizio di primo grado, al momento dell’ammissione della prova, sia il contenuto del reclamo proposto contro l’ordinanza del giudice istruttore; sia, soprattutto, i capitoli della prova orale che assume erroneamente assentita dal giudice di merito, laddove è consolidata la massima secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione venga censurata l’ammissione, da parte del giudice del merito, di una prova in seguito regolarmente espletata, è necessario che il ricorrente indichi le ragioni del carattere decisivo di tale mezzo istruttorie in ordine alla risoluzione della controversia giacchè, per il principio di autosufficienza del ricorso, il controllo della decisività della prova che si assume illegittimamente ammessa ed assunta deve essere consentito alla Corte sulla base delle deduzioni contenute nell’impugnazione, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. civ., 31 gennaio 2007, n. 2201; Cass. civ., 28 settembre 2007, n. 20392).
2.1 Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione. Le critiche si appuntano contro la ritenuta correttezza della mancata ammissione della prova per testi dedotta dall’appellante, in ragione della genericità dei capitoli, senza neppure considerare che con l’atto di appello la convenuta società aveva reiterato la richiesta di ammissione del mezzo istruttorio, previa specificazione dei fatti sui quali i testi dovevano essere sentiti.
2.2 Anche tali doglianze non hanno fondamento.
In proposito è assorbente il rilievo che, come ripetutamente affermato da questa Corte, la prova testimoniale ritenuta inammissibile in primo grado non può essere riproposta in appello, sia pure con le opportune integrazioni, in quanto la prova così articolata non sarebbe nuova. E invero il requisito della novità al quale è condizionata l’ammissione dei mezzi di prova in appello, osta di per sè a che la prova testimoniale possa essere riproposta in secondo grado allorchè la parte sia incorsa in decadenze o preclusioni o risulti violato il principio dell’unicità o non frazionabilità della prova costituenda, sancito dall’art. 244 c.p.c. (Cass. civ., 30 maggio 2005, n. 11394; Cass. civ. 7 maggio 2009, n 10502; Cass. civ. 9 novembre 2000, n. 14598).
Nè rileva che la Corte territoriale abbia omesso di prendere espressamente posizione al riguardo. Si ricorda invero che il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione. Ciò comporta, invero, che devono ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (Cass. civ., 12 gennaio 2006, n. 407).
3.1 Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro evidente connessione, i successivi tre motivi di ricorso.
Col terzo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 2048 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 609 bis e segg.
c.p.. Secondo l’esponente l’istruttoria espletata sia nel processo penale che in quello civile non aveva consentito di accertare che i fatti si erano verificati all’interno della struttura gestita dall’Istituto; a seguito di sua colpevole omissione, e che vi era un preciso nesso eziologico tra evento (presunta violenza carnale e aborto) e danno (condizioni psichiche e fisiche pregresse e attuali dell’attrice), laddove, in base ai principi sulla responsabilità contrattuale, siffatta prova, che aveva ad oggetto il nodo cruciale della causa, incombeva sull’attore. Evidenziate talune emergenze istruttorie idonee a ingenerare ragionevoli dubbi sul luogo in cui la F. si trovava nel periodo in cui era rimasta incinta, segnala il ricorrente che la stessa all’epoca non era nè minorenne, nè interdetta e che, in ogni caso, dopo il presunto episodio di violenza, era rimasta altri sei mesi in Istituto senza lamentare alcun evidente, sopravvenuto squilibrio.
3.2 Col quarto motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1218, 2043, 2047 e 2797 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 24 Cost., mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione. La Corte territoriale avrebbe invero illegittimamente fondato il suo convincimento esclusivamente sugli elementi acquisiti dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari, in spregio al diritto di difesa costituzionalmente garantito, senza neppure cogliere i numerosi elementi di contraddizione riscontrabili nelle deposizioni rese dai principali testimoni, uno dei quali, la signora G.V., per essere madre della vittima, era certamente interessata all’esito del giudizio.
3.2 Col quinto mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 c.c., della L. n. 180 del 1973, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Ricordato che I.R.M.I. s.r.l.
gestisce una struttura sanitaria residenziale la quale si occupa segnatamente dell’assistenza a soggetti invalidi civili per trattamenti sanitari volontari o obbligatori, evidenzia l’esponente come, in base alla L. n. 180 del 1978, alcun trattamento coercitivo possa essere adottato nei confronti degli internati, e ciò tanto più che trattasi di invalidi non interdetti. A fronte di tali dirimenti rilievi, completamente ignorati dalla Corte territoriale, il decidente aveva erroneamente valorizzato una presunta, mancata divisione tra reparto maschile e reparto femminile, oltretutto smentita dagli esiti della prova espletata.
3.3 Anche tali doglianze non hanno pregio.
Con esse il ricorrente critica, in sostanza, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, alla stregua degli accertamenti effettuati nel corso del procedimento penale, conclusosi con provvedimento di archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del reato, F.M. era stata vittima di reiterati episodi di violenza carnale verificatisi, come era dato evincere dalle deposizioni dei testi escussi, all’interno della struttura gestita dall’I.R.M.I. e che ivi la stessa si trovava nel periodo in cui era rimasta incinta. Secondo il giudice di merito, tali circostanze imponevano di ritenere che la F., affetta da oligofrenia di grado elevato in soggetto mongoloide e da paresi dell’arto superiore destro, non era stata adeguatamente protetta, e ciò tanto più che, con riferimento ai danni sofferti da persone affidate all’altrui sorveglianza, sussiste, a carico di chi vi è preposto, una presunzione di responsabilità la quale può essere superata solo con la prova di avere esercitato un grado di controllo adeguato alle circostanze e tale da consentire di qualificare come imprevedibile il fatto di cui l’incapace sia rimasto vittima. Ha anche evidenziato il decidente come nella fattispecie non solo una tale dimostrazione non era stata fornita, ma vi era per contro la prova della mancanza di una adeguata separazione tra reparto maschile e reparto femminile.
3.4 A fronte di tale impianto motivazionale, il collegio osserva quanto segue.
L’allegazione di una pretesa capacità della F. perciò solo che la stessa, all’epoca della vicenda, era maggiorenne e non era stata ancora interdetta, contrasta con i dati di fatto incontrovertibili sui quali è maturato il diverso convincimento del giudice di merito, quali, a tacer d’altro, la diagnosi di oligofrenia di grado elevato in soggetto con note mongoloidi ed emiplegia destra, neppure contestata dall’impugnante. La deduzione in ogni caso ignora il principio, ripetutamente affermato da questa Corte e assolutamente condivisibile, secondo cui nei confronti di persona ospite di reparto psichiatrico (o in altra struttura equipollente), non interdetta nè sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della L. 13 maggio 1978, n. 180, la configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del personale addetto al reparto e della conseguente responsabilità risarcitoria per i danni cagionati dal o al ricoverato presuppone soltanto la prova concreta della incapacità di intendere e di volere del medesimo (confr. Cass. civ., 16 giugno 2005, n. 12965).
3.5 Quanto alle ulteriori argomentazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per la condanna dell’Istituto ove la F. era ricoverata, è necessario anzitutto precisare, per tutto quanto ne consegue in punto di ripartizione dell’onere della prova, che la responsabilità del convenuto I.R.M.I. ha carattere contrattuale, di talchè sulla danneggiata (o sul sue rappresentante) incombeva l’onere di provare soltanto che il danno era stato cagionato durante il tempo in cui l’incapace era sottoposta alla vigilanza del personale della struttura, mentre spettava alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto (confr. Cass. civ. 3 marzo 2010, n. 5067;
Cass. civ. 10 ottobre 2008, n. 24992). In tale prospettiva il richiamo del ricorrente alla cautela di far firmare il registro a chi prelevava la ragazza è a dir poco incongruo rispetto alla portata che, in concreto, doveva assumere lo sforzo probatorio dell’istituto, al fine di dimostrare di avere esattamente svolto i propri obblighi.
In ogni caso la valutazione circa il raggiungimento o meno della prova liberatoria attiene al merito della vicenda ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata (confr. Cass. civ. 10 ottobre 2008, n. 24992, cit.). E nella fattispecie la Corte d’appello ha esplicitato in termini che non possono essere tacciati di contraddittorietà e di implausibilità le ragioni del positivo apprezzamento della responsabilità dell’Istituto, indicando puntualmente gli elementi probatori valorizzati, elementi la cui rilevanza, alla luce di criteri di comune buon senso, è incontestabile.
4.1 Col sesto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 61, 115 e 116 c.p.c. per non avere il giudice d’appello motivato, malgrado la formulazione di una specifica censura, la preferenza accordata alla seconda c.t.u.
espletata in primo grado, rispetto alla prima.
4.2 Col settimo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056, 2057, 2058, 2697 e 2729 c.c., art. 115 c.p.c. nonchè vizi motivazionali, per avere la Corte territoriale apoditticamente affermato, sulla sola base degli accertamenti effettuati dal c.t.u., che la F. avesse subito un danno biologico per effetto del presunto episodio di violenza di cui era rimasta vittima. Nè erano chiari i criteri che avevano ispirato la quantificazione dell’invalidità permanente in misura pari al 30%, e ciò tanto più che si trattava di persona già dichiarata invalida al 70%.
4.3 Con l’ottavo mezzo il ricorrente denuncia malgoverno degli artt. 1218, 1223, 2043, 2048 e 2059 c.c., artt. 61, 185 e 198 c.p., con riferimento al riconoscimento del danno morale, in contrasto con il principio per cui il danno non patrimoniale può scaturire solo dall’accertamento di un fatto-reato, nella fattispecie del tutto insussistente.
4.4 Col nono motivo lamenta violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., artt. 2056, 2057 e 2059, 1223, 1226 e 1227 c.c., mancanza e contraddittorietà della motivazione, per non avere il giudice d’appello dato risposta alcuna alla richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica, avanzata nei motivi di gravame, in ragione della palese antiteticità di quelle in precedenza espletate.
4.5 Col decimo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 2057, 2058, 2059, 1223 e 1226 c.c.. La censura ha ad oggetto l’affermazione del giudice di merito secondo cui non poteva ritenersi incongrua la liquidazione del danno biologico operata dal Tribunale nella misura di L. 200.000.000. Evidenzia per contro l’esponente che l’adozione del metodo equitativo postula un’adeguata esplicitazione del procedimento logico seguito per la determinazione della misura del risarcimento nonchè la specifica indicazione degli indici a tal fine valorizzati.
4.6 Con l’undicesimo motivo l’impugnante denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 2121, 2729, 1223 e 1226 c.c..
Critica in particolare la quantificazione del danno morale in L. 100.000.000, sostenendone l’apoditticità e la genericità.
4.7 Con il dodicesimo motivo, infine, assume violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 61 e 116 c.p.c., per avere il decidente prestato acritica adesione alle conclusioni del c.t.u..
5. Tutti gli esposti motivi di ricorso, che si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro inerenza a un medesimo punto, o a punti connessi della decisione, sono per certi aspetti inammissibili, per altri infondati.
Essi hanno ad oggetto l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, alla stregua degli accertamenti del c.t.u., la situazione patologica della F., caratterizzata già prima dell’evento lesivo da oligofrenia grave, era ampiamente peggiorata, dopo i fatti di causa. Si appuntano poi contro la liquidazione del danno operata dal giudice di merito.
Tanto precisato, a confutazione delle critiche esposte in ricorso va anzitutto evidenziato che esse difettano in maniera macroscopica di autosufficienza.
Premesso che dagli atti di causa si evince che, nel corso del giudizio, sono state espletate due consulenze tecniche, il ricorrente, nel contestare l’adesione del decidente alle conclusioni di una di esse, non chiarisce neppure in cosa esattamente divergessero i pareri dei nominati esperti, rendendo così impossibile a questa Corte l’identificazione dell’oggetto del richiesto controllo di congruenza e logicità.
A ciò aggiungasi che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, la parte che con il ricorso per Cassazione si dolga dell’acritico recepimento nella decisione impugnata degli esiti di una consulenza tecnica, non può limitarsi a lamentare genericamente l’inadeguatezza della motivazione, ma, in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso e del carattere limitato del relativo mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente quali siano le circostanze e gli elementi rispetto ai quali essa invoca il controllo di logicità, riportando per esteso le pertinenti parti della consulenza tecnica ritenute insufficientemente o erroneamente valutate e svolgendo concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, esaurendosi diversamente la doglianza nell’invito, inammissibile, ad una diversa ricostruzione dei fatti e ad una diversa valutazione delle prove (confr. Cass. civ., 18 dicembre 2006, n. 27045; Cass. civ. 28 marzo 2006, n. 7078).
Sotto altro, concorrente profilo va poi rimarcato che, quando il giudice di merito ritenga di aderire alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad una particolareggiata motivazione ben potendo l’impegno di dare contezza delle ragioni della decisione ritenersi assolto con l’indicazione, come fonte di convincimento, della relazione di consulenza, e ciò anche nel caso in cui le valutazioni contenute in una prima relazione peritale siano state sconfessate da una successiva consulenza tecnica d’ufficio, alle cui conclusioni il giudice di merito abbia ritenuto di aderire: anche in questo caso, infatti, è sufficiente la ragionata accettazione dei risultati della nuova consulenza per ritenere implicitamente disattesi senza necessità di specifica ed analitica confutazione, le argomentazioni e i rilievi esposti dal primo esperto (Cass. civ., 9 gennaio 2003, n. 125).
A ciò aggiungasi che, nella fattispecie, il giudice di merito ha giudicato insostenibile la tesi di fondo dell’impugnante – volta a prospettare la sostanziale inconsapevolezza dell’aborto nei soggetti affetti da grave ritardo mentale – non solo in base al motivato parere dell’ausiliario, ma anche alla luce di massime di esperienza assolutamente condivisibili. E che del pari, nel disattendere le critiche al quantum della condanna ai danni pronunciata in prime cure, non si è limitato a richiamare le conclusioni del consulente, ma ha espresso un giudizio di congruità parametrato sugli aspetti concreti della vicenda dedotta in giudizio.
Costituiscono del resto principi ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, da un lato che la risarcibilità del danno non patrimoniale non è limitata alle sole ipotesi in cui essa sia prevista in modo espresso dalla legge (quale è, ad esempio, il caso del danno derivante da reato), ma sussiste ogni volta che il fatto illecito abbia vulnerato diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti, come l’integrità fisica (confr. Cass. civ., sez. un. 11 novembre 2008, n. 26975; Cass. civ., sez. un. 11 novembre 2008, n. 26973; Cass. civ. 24 maggio 2010, n. 12593);
dall’altro, che la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se la giustificazione che sorregge quella statuizione difetti totalmente o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (confr. Cass. civ. 19 maggio 2010, n. 12318), ipotesi tutte che qui non ricorrono.
Ne deriva che la valutazione espressa dal giudice di merito sfugge sotto molteplici profili al sindacato di questa Corte.
Il ricorso deve in definitiva essere integralmente rigettato.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200 (di cui Euro 200 per spese), oltre IVA e CPA, come per legge.
Così deciso in Roma, il 30 settembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2010