Responsabilità e risarcimento da erroneo test positivo all'Hiv
21/03/2008 n. 15107-2002 - Tribunale di Bologna sez. III Civile
ll problema che si è scatenato è quello della sua identità personale in quanto l’attore, nel prendere tardivamente atto della negatività, ha dovuto fare i conti con il proprio stile di vita e con il proprio bilancio esistenziale (pg.41); ha dovuto rimettersi alla ricerca di una appartenenza sociale e antropologica che però non ha trovato; di conseguenza, la vicenda per cui è causa ha agevolato, se non del tutto indotto, la strutturazione di una grave sintomatologia ansiosa, con tratti fobici ed ossessivo-compulsiva
Svolgimento del processo
Con atto di citazione regolarmente notificato in data 13/14-11-02 XX conveniva in giudizio l’Azienda USL Città di Bologna e il prof.GG ; esponeva che in data 27-11-97 si sottoponeva presso il Laboratorio di Analisi dell’Ospedale Maggiore all’esame del sangue volto ad accertare l’assenza di infezione al virus HIV; in data 16-12-97 gli veniva comunicato il responso positivo dell’esame; gli esami successivi, reiterati nel tempo, erano tutti finalizzati unicamente al rilevamento della carica virale, che risultava sempre negativo; pertanto non gli veniva mai prescritta terapia alcuna; in data 25-9-00 si recava, di sua iniziativa, presso il Laboratorio Analisi dell’Ospedale S. Orsola al fine di sottoporsi nuovamente all’esame del sangue per la ricerca del virus HIV; il responso era negativo, così come quello degli ulteriori successivi test di conferma; chiedeva, pertanto, l’accertamento della responsabilità del Laboratorio Analisi dell’Ospedale Maggiore e del suo direttore prof. GG in considerazione dell’errore diagnostico compiuto e dell’omesso controllo successivo dello stato di sieropositività, nonostante la negatività della carica virale rilevata; quantificava i conseguenti danni non patrimoniali (biologico, morale ed esistenziale) in €.1.121.600; denunciava un rilevante danno patrimoniale, che si riservava di quantificare, in quanto alla data del 16-12-97 frequentava come praticante lo studio di avvocato del padre ed aveva abbandonato tale attività a causa prima dello shock conseguente alla notizia della sieropositività e successivamente della stabilizzazione di una depressione permanente collegata alla vicenda.
Entrambe le parti convenute si costituivano in giudizio separatamente, contestando il fondamento delle pretese di parte attrice; in particolare l’AUSL evidenziava che si era trattato di un possibile caso di “falsa positività”, mentre il prof. GG rilevava la sua estraneità alla vicenda, tenuto conto che la richiesta del test, così come il prelievo ematico, erano stati effettuati dal reparto malattie infettive dell’Ospedale Maggiore e che le procedure automatiche di doppia analisi in uso escludevano la possibilità di un errore del laboratorio da lui diretto.
La causa veniva istruita, oltre che documentalmente e con gli interrogatori liberi dell’attore e del convenuto GG, attraverso l’escussione di sette testi di parte attrice e di tre testi della convenuta AUSL; veniva espletata c.t.u. medico-legale.
Precisate le conclusioni all’udienza del 15-11-07, la causa veniva rimessa in decisione all’esito dei termini concessi alle parti per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
Motivi della decisione
La domanda di parte attrice è fondata e deve trovare accoglimento nei confronti della AUSL Città di Bologna, mentre va respinta nei confronti del convenuto GG .
L’evento dannoso è incontestato: a seguito di un prelievo di sangue effettuato presso l’Ospedale Maggiore di Bologna in data 27-11-97 l’attore risultava HIV positivo, come da referto in data 16-12-97.
Come rilevato dal c.t.u. prof. Francesco De Fazio –medico legale e psichiatra forense-, in questa circostanza venivano effettuati sul campione ematico due esami, e cioè dapprima il test di screening (metodo immunoenzimatico) e successivamente, in considerazione della possibilità di fornire risultati falsamente positivi del primo test seppur in percentuale inferiore all’1 %, il test di conferma (western blot), il quale a sua volta attestava la positività; al proposito il c.t.u. sottolineava che la possibilità di un risultato falsamente positivo del test di conferma sussiste, con riguardo a soggetti sani, in circostanze del tutto eccezionali e rarissime (cfr. pg.32-33 c.t.u.).
Stando così le cose il c.t.u. qualificava come ipotesi più attendibile quella di un errore materiale, quale ad esempio uno scambio di provetta, pur non essendo in grado di specificare con quale modalità ed a quale livello della struttura ospedaliera si fosse verificato l’errore (cfr. pg.35 c.t.u.).
Risultava, viceversa, non rilevabile la ricerca dell’HIV-1-RNA, ovvero la c.d. “carica virale”, come segnalato dagli esami effettuati in data 13-1-98, 29-8-98, 25-11-99 e 10-6-00.
A questo proposito il c.t.u. precisava come sia quantomeno inverosimile che un soggetto con infenzione da HIV-1 recente (quale era l’attore in quanto risultato negativo ad un test effettuato nel giugno 1997) si riveli positivo ai test di screening e di conferma, ma, nel contempo, negativo alla ricerca dell’HIV-1-RNA, tenuto conto che nelle prime 8-12 settimane dopo il contagio la carica virale è particolarmente elevata, per poi decrescere, raggiungendo livelli più bassi, comunque sempre rilevabili (cfr. pg.34 c.t.u.).
Pertanto il c.t.u. concludeva evidenziando come la discordanza tra la positività dei citati test e la non rilevabilità dell’HIV-1-RNA avrebbe dovuto suggerire un controllo delle indagini di laboratorio risultate positive, inducendo i sanitari dell’Ospedale Maggiore a programmare ed effettuare ulteriori approfondimenti (cfr. pg.35 c.t.u.).
Ne deriva che “la condotta del personale sanitario del suddetto ente non può che essere censurata, posto che, prima di comunicare al paziente una netta ed assoluta diagnosi di positività da infenzione HIV-1, si sarebbe reso assolutamente indispensabile un approfondimento delle indagini; … ciò sarebbe avvenuto in qualsiasi ospedale e pertanto un diverso atteggiamento sarebbe stato opportunamente e dovutamente consequenziale al “livello” della struttura ospedaliera” (così a pg.36 c.t.u.).
Deve essere quindi affermata la responsabilità dell’ente ospedaliero convenuto, la quale deve essere qualificata come contrattuale, derivando dal contratto intervenuto con l’attore al fine ottenere la prestazione sanitaria consistente nell’effettuazione del test di laboratorio per la ricerca del virus HIV; ne consegue, per quanto riguarda la ripartizione tra le parti dell’onere probatorio, che, in considerazione della presunzione di colpa di cui all’art.1218 c.c., il paziente ha solo l’onere di provare il peggioramento delle proprie condizioni di salute causato dall’intervento della struttura ospedaliera, mentre sarà quest’ultima a dover dimostrare che l’esito negativo non è ascrivibile alla sua negligenza od imperizia, se vuole andare esente da responsabilità (Cass. S. U. 13533/01; 10297/04).
Ne consegue che l’inesatto adempimento della prestazione medica –ovvero anche solo l’incertezza degli esiti probatori in ordine all’esatto adempimento- va posta a suo carico e comporta l’accoglimento della domanda risarcitoria, fondata sulla responsabilità contrattuale.
D’altro canto, delle due l’una: qualora si sia trattato di uno scambio di provette, come sostiene la difesa attorea, la condotta colposa della struttura ospedaliera sarebbe insita nella dinamica stessa di un simile accadimento; qualora, invece, si sia trattato di un “falso positivo”, come sostiene la difesa dell’ente convenuto implicitamente ammettendo la possibilità di un tale rischio, la sua inerzia nell’approfondimento diagnostico, nonostante la consapevolezza di un rischio del genere e nonostante la reiterata insussistenza di carica virale, è sufficiente a fondare la sua responsabilità, come inequivocabilmente segnalato dal c.t.u..
Pertanto va affermata la responsabilità della AUSL Città di Bologna per i danni riportati da XX .
Va invece affermata l’assenza di qualsiasi responsabilità del prof. GG, nella sua qualità di direttore del Laboratorio Analisi dell’Ospedale Maggiore, in quanto, con riguardo all’ipotesi dello scambio di provette, le prove documentali e testimoniali dimostrano che, qualora tale scambio vi sia stato, non può essere ricondotto agli operatori del suddetto Laboratorio; infatti, sia dalla cartella clinica che dalle dichiarazioni della teste B.C. dipendente del Laboratorio Analisi, emerge che sia le operazioni di prelievo ematico, sia le operazioni di etichettatura delle provette vengono compiute dal personale dei reparti di degenza e degli ambulatori di ricevimento dei pazienti; la teste ha anche evidenziato che, se sulla provetta pervenuta al Laboratorio Analisi manca l’etichetta con il codice a barre, essa viene respinta e l’esame non viene effettuato; inoltre ha riferito in merito alle procedure di pulizia e lavaggio automatico degli aghi e che, in caso di reattività del campione, l’esame viene ripetuto su un secondo macchinario in dotazione del laboratorio.
A maggior ragione qualsiasi responsabilità del convenuto GG va esclusa con riguardo all’ipotesi di “falso positivo”, in quanto il Laboratorio Analisi non solo non è tenuto, ma si trova nella pratica impossibilità di seguire il decorso clinico dei pazienti, con la conseguenza che non poteva essere consapevole della discordanza tra la positività al test HIV e la negatività della carica virale riportate dall’attore.
Valutata positivamente la sussistenza della responsabilità dell’ente ospedaliero convenuto, il problema più arduo della controversia in esame risulta essere quello della quantificazione del danno non patrimoniale subito dall’attore.
Il c.t.u. ha condotto le operazioni peritali esaminando la documentazione medica prodotta dalle parti, procedendo a due colloqui con l’attore, sottoponendolo ad indagini psicodiagnostiche effettuate dall’ausiliaria psicologa dott.ssa M. G. F. (cfr. pg.17-31 della sua relazione depositata in data 8-8-05).
Rinviando alla lettura per esteso della suddetta relazione per una completa informazione al proposito, si segnalano i seguenti passaggi per il loro rilievo ai fini della concreta quantificazione del danno:
-con riguardo alle dichiarazioni rese dall’attore nel corso dei colloqui, lo stesso riferiva che …. omissis …
-con riguardo ai risultati delle indagini psicodiagnostiche (MMPI e test di Rorschach), la dott.ssa F. segnala che “il quadro personologico generale si configura come fortemente confuso e complesso. Il soggetto manifesta infatti una elevata conflittualità interiore che probabilmente scaturisce da un problema di identificazione sessuale di fondo che egli non riferisce come consapevole (problema di identità di genere). E’ presente un basso livello di autostima con temi di autosvalutazione, inadeguatezza e scarsa fiducia in se stesso … L’estrema difficoltà nell’identificare e riconoscere i propri vissuti potrebbe aver indotto il soggetto a sviluppare una sintomatologia ben strutturata piuttosto grave ed invalidante di tipo ansioso (include tratti sia fobici che ossessivo-compulsivi), associata alla presenza di una grave difficoltà nel prendere decisioni per cose anche banali e ad assumersi responsabilità. Non sono presenti indici traumatici specifici.” (cfr. pg.21-22 c.t.u.);
– con riguardo alla documentazione medica, va rilevato che, prima del risultato positivo in data 16-12-97, l’attore si era sottoposto all’esame HIV risultato negativo in data 20-6-95, 18-5-96, 30-10-96, 10-6-97; dalla cartella clinica dell’ambulatorio della Divisione Malattie Infettive dell’Ospedale Maggiore di Bologna, presso cui effettuava i suddetti esami, emerge che il paziente dichiarava di avere avuto rapporti protetti con donne a rischio (prostitute) e rapporti occasionali (cfr. pg.13 c.t.u.); mentre, dopo la comunicazione di sieropositività, si sottoponeva a controlli, in particolare per la ricerca della carica virale, non ogni tre mesi, come consigliatogli dalla struttura ospedaliera, ma più saltuariamente, e precisamente in data 29-9-98, 25-11-99 e 10-6-00 (cfr. pg.14 e pg.33 c.t.u.).
Il prof. De Fazio, alla luce delle illustrate risultanze, passa poi alla loro analisi al fine di riconoscere e quantificare non solo la scontata invalidità temporanea dal 16-12-97 al 3-10-00, ma soprattutto l’eventuale sussistenza di postumi permanenti di carattere psichico rilevabili all’esito della vicenda (cfr. pg.36 seg. c.t.u.); con riguardo al primo profilo, ritiene che la notizia della sieropositività abbia destabilizzato l’attore, in particolare tenuto conto che tale notizia veniva accettata senza sottoporsi neppure agli accertamenti alle scadenze programmate verosimilmente poiché aveva introiettato la positività come correlata al suo stile di vita; con riguardo al secondo profilo, il c.t.u. ritiene che la notizia del risultavo negativo dell’ottobre 2000 abbia provocato un vero e proprio shock, perché ha messo in discussione l’identità del soggetto; e tale problematica si è rilevata a sua volta destabilizzante, in particolare con riferimento all’imporsi di un complessivo bilancio concernente il passato, il presente ed il futuro dell’attore (pg.38 c.t.u.).
In particolare il problema che si è scatenato è quello della sua identità personale in quanto l’attore, nel prendere tardivamente atto della negatività, ha dovuto fare i conti con il proprio stile di vita e con il proprio bilancio esistenziale (pg.41); ha dovuto rimettersi alla ricerca di una appartenenza sociale e antropologica che però non ha trovato; di conseguenza, la vicenda per cui è causa ha agevolato, se non del tutto indotto, la strutturazione di una grave sintomatologia ansiosa, con tratti fobici ed ossessivo-compulsivi, in un soggetto che già presentava, e ancora presenta, un basso livello di autostima con temi di autosvalutazione, di inadeguatezza e di scarsa fiducia in se stesso (pg.42).
In conclusione (pg.46 seg.), già prima della vicenda per cui è causa l’attore tendeva ad una difficoltosa ricerca della propria identità; in questo contesto la asserita sieropositività, che andava supinamente e con rassegnazione ad accettare in quanto si inscriveva nell’ambito della realtà dei vissuti propri di un soggetto “a rischio”, si rivelava destabilizzante in quanto incrementava significativamente la tendenza già presente a vivere alla giornata e senza progettualità; ne conseguiva un danno individuato dal c.t.u. in una inabilità temporanea totale di un anno e parziale di due anni.
Successivamente l’evento conseguente alla negata sieropositività, invece di delinearsi unicamente in termini di negazione del danno, assumeva, a livello sia conscio che inconscio, un ruolo di elemento a sua volta destabilizzante, ma in maniera permanente, in quanto l’attore ha vissuto con sofferenza non solo la ritenuta temporanea sieropositività, ma anche il ribaltamento della situazione, per i motivi sopra evidenziati.
Il c.t.u. a questo punto sottolinea l’estrema difficoltà di quantificazione prognostica dell’accertata sintomatologia ansiosa con tratti fobici ed ossessivo-compulsivi, tenuto conto dell’aleatorietà delle problematiche che l’attore sta ancora affrontando e dovrà ulteriormente affrontare in correlazione alla sua identità; fatta questa premessa, il c.t.u. configura una vera e propria crisi di identità che comporta un danno biologico in senso stretto –quale prognosi sfavorevole relativamente all’assetto psichico ed emozionale- in misura del 15 %, al quale affianca un “danno esistenziale” in rapporto all’esigenza dell’attore di una difficoltosa rielaborazione del suo assetto di personalità.
A fronte delle riportate conclusioni del c.t.u. la difesa attorea ha evidenziato come la liquidazione dei danni descritti sulla base dei criteri tabellari utilizzati da questo Tribunale (cfr. pg.7 sua conclusionale) porterebbe ad un risultato iniquo, quantificando poi il risarcimento del complessivo danno non patrimoniale da considerarsi congruo in €.800.000,00 (cfr. pg.17), attraverso un articolato ragionamento che si aggancia, a livello pecuniario, all’importo di €.1.000.000,00 liquidato a Barillà Franco per l’analogo danno da ingiusta detenzione per la durata di sette anni.
Questo giudicante dissente da tali conclusioni e perviene ad una quantificazione sensibilmente inferiore, ritenuta però del tutto congrua, per i motivi che vanno ad esporre.
Preliminarmente ritiene, conformemente al più recente orientamento della Terza Sezione Civile del Tribunale di Bologna di cui fa parte la quale a sua volta si basa sulla ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, per quanto riguarda il danno non patrimoniale da lesioni personali diverso dal danno morale, già la sentenza n.24451 del 18-11-05, esaminando il danno biologico derivante da lesioni come definito dagli artt.138 e 139 D.Lgs. 209/05 (codice delle assicurazioni private), accoglieva una sua ricostruzione pluridimensionale, comprensiva delle quattro dimensioni essenziali del danno biologico, e cioè non solo la dimensione psichica e fisica a prova scientifica (quella suscettibile di accertamento medico legale), ma anche (PARAGR. B della motivazione) “la incidenza negativa sulle attività quotidiane (come danno biologico per la perdita delle qualità della vita, in concreto subito, che subito gli esistenzialisti considereranno tale) e la perdita degli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato (che invece attengono alla vita esterna, non solo a rilevanza sociale, ma anche culturale e politica, inclusa la perdita della capacità lavorativa generica)”.
Successivamente la sentenza 23918/06 –estensore Segreto-, ribadita la tipicità del danno non patrimoniale, ha affermato che “qualora, in relazione ad una lesione del bene alla salute sia stato liquidato il danno biologico, che include ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, ivi compresi il danno estetico e il danno alla vita di relazione, non vi è luogo per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno sotto la categoria generica del danno esistenziale”; analogamente nel 2007 hanno statuito le sentenze 9510 e 9514.
In conformità alla suddetta giurisprudenza la tabellazione 2008 della Terza Sezione Civile di questo Tribunale valuta il danno biologico permanente sulla base della illustrata concezione pluridimensionale e per la liquidazione delle permanenti superiori al 9 % adotta le tabelle del Tribunale di Milano, evidenziando anche che per l’eventuale personalizzazione si tiene conto delle particolari e concrete circostanze soggettive allegate e provate.
Pertanto si concorda pienamente con l’impostazione metodologica della difesa attorea laddove richiede il riconoscimento autonomo del danno biologico dinamico, impropriamente denominato danno esistenziale (in tal senso pg.7 sua conclusionale).
Infatti risulta improprio riferire la locuzione “danno esistenziale” ad un danno non patrimoniale derivante da lesioni personali, il quale trova già pieno riconoscimento nel danno biologico in funzione pluridimensionale e nel danno morale.
Per migliore comprensione della tematica si sottolinea come tale locuzione possa considerarsi, viceversa, riferibile agli altri danni da lesione dei diritti di rilevanza costituzionale, tra i quali vanno ricompresi, a seguito delle c.d. sentenze gemelle n.8827 e 8828 del 2003, non solo i diritti della personalità umana di cui all’art.2 Cost. (diritto alla reputazione, all’onore, all’immagine, alla riservatezza) e 32 Cost. (diritto alla salute), ma anche i diritti della famiglia ex art.29 e 30 Cost.; in realtà, in materia di danno parentale da perdita di un congiunto, la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte ribadito la tipicità di tale danno non patrimoniale, con la conseguenza che “non può farsi riferimento ad una generica categoria di danno esistenziale (dagli incerti e non definiti confini) poiché attraverso questa via si finisce per portare il danno non patrimoniale nell’aticipicità” (così Cass. 15022/05; a conferma anche Cass.15760/06 e 11761/06); peraltro, in altre occasioni ha riconosciuto la risarcibilità di un danno c.d. esistenziale patito dai parenti della vittima (Cass. 13546/06, 18199/07); comunque, dalla lettura delle motivazioni emerge la coincidenza di tale danno con quello da perdita del rapporto parentale, con la conseguenza che in concreto si è di fronte a una differenziazione terminologica, e non sostanziale, in quanto rimangono immutati i confini dei danni risarcibili.
Ciò premesso in linea generale e tornando al caso concreto in esame, da quanto esposto consegue che la difficoltosa rielaborazione dell’identità personale dell’attore a seguito della vicenda in esame non va considerata produttiva di un danno esistenziale (come invece suggerito dal c.t.u.), ma deve essere considerata produttiva di una compromissione di specifici e non usuali aspetti dinamico relazionali del danno biologico; ne deriva ulteriormente, anche alla luce delle indicazioni della citata sentenza 24451/05, la necessità di una personalizzazione del risarcimento del danno biologico tramite il riconoscimento non solo dell’aspetto statico corrispondente alla percentuale del 15 %, ma anche dell’aspetto dinamico.
Con riguardo all’aspetto statico, secondo le tabelle del Tribunale di Milano una invalidità del 15 % in un soggetto di anni 35 al momento del fatto (individuato alla data del 3-10-00) comporta una liquidazione del danno biologico di €.29.276, con valutazione all’attualità.
Con riguardo all’aspetto dinamico, la difficoltosa rielaborazione dell’identità personale dell’attore a seguito della vicenda in esame si manifesta principalmente all’esterno nella difficoltà, se non addirittura nella mancanza, di una progettualità nei rapporti interpersonali.
Al proposito non si può sottacere l’esistenza di un serio problema di identità personale dell’attore precedente alla vicenda in esame, cosicchè la negazione della sieropositività, invece di far cessare la vis lesiva della sua sofferenza e risolvere le problematiche conseguenti (secondo un criterio di comune buon senso secondo cui “è bene quel che finisce bene”), è andata ad intrecciarsi con le problematiche preesistenti, senza dubbio aggravatesi, concernenti i rapporti interpersonali e familiari, la soggettività e l’identità (in tal senso pg.42-43 c.t.u.).
A conferma che la mancanza di una credibile progettualità sussisteva anche in precedenza –proprio perché riconducibile a queste preesistenti problematiche- sono le circostanze di fatto emergenti dall’istruttoria orale espletata; così dalle dichiarazioni di … omissis … .
In considerazione di tutti gli elementi di valutazione finora illustrati, ai fini della personalizzazione del danno biologico subito dall’attore attraverso un congruo riconoscimento dei suoi aspetti dinamico-relazionali, appare conforme ad equità raddoppiare la quantificazione in €.29.276, previo arrotondamento in €.30.000, ottenendo così il complessivo ammontare di €.60.000 a titolo di danno biologico personalizzato.
Passando alla liquidazione del danno conseguente alla ritenuta invalidità temporanea, anche tale danno deve essere valutato sotto il profilo della lesione del diritto alla salute per i motivi già evidenziati in sede di disamina della c.t.u.; va, quindi, liquidata una somma, per ogni giorno di effettiva invalidità temporanea, che appare congruo individuare in €.100 al giorno per l’ipotesi si invalidità temporanea totale, sempre con valutazione all’attualità; anche tale importo è stato ottenuto tramite un aumento dell’importo di €.65, normalmente attribuito dalla Terza Sezione in conformità all’analoga indicazione del Tribunale di Milano, al fine di personalizzare il danno in questione sulla base delle medesime considerazioni di cui sopra; così, nel caso in esame il complessivo ammontare di tale danno, parametrato ad un anno di inabilità temporanea totale e a due anni di inabilità temporanea parziale (da considerare al 50 % in difetto di prova contraria) risulterà pari a €.73.000.
Per quanto riguarda, infine, il danno morale, deve osservarsi che, accanto alla responsabilità dell’ente convenuto per il suo inadempimento contrattuale, va riconosciuta la sua prospettata responsabilità extracontrattuale, in considerazione dell’inottemperanza al principio del “neminem laedere”; pertanto può reputarsi sussistente una fattispecie qualificabile “incidenter tantum” come reato colposo ai sensi dell’art.590 c.p., con conseguente debenza del danno morale ai sensi dell’art.2059 c.c., quale “transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso”; può essere liquidato in via equitativa in una percentuale dell’ammontare del danno biologico da invalidità permanente (così Cass.10725/00), quantificata nel caso in esame nei due terzi e pari quindi a €.40.000.
Emerge così come dovuto a titolo di danno non patrimoniale il complessivo importo di €.173.000.
Al proposito questo giudicante sottolinea l’estrema difficoltà di raggiungere un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di standardizzazione e di personalizzazione nella liquidazione del danno biologico.
Infatti, da un lato, l’applicazione di criteri standard (recepita dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione laddove fa riferimento alla legittima applicazione dei sistemi tabellari –cfr. sent. 16237/05-) consente che la valutazione equitativa, ineludibile qualora il danno sia di natura non patrimoniale (cfr. Cass. 20320/05), non sia lasciata al mero arbitrio del singolo giudicante, ma sia invece ancorata a parametri condivisi nella maniera più ampia possibile (a conferma, la recente scelta della Terza Sezione Civile di adottare le tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione delle permanenti superiori al 9 % è motivata dalla loro prevalente utilizzazione nei Tribunali quantomeno dell’Italia centro nord); inoltre in questo modo la scelta del singolo giudicante diventa verificabile, anche con indubbi vantaggi nella percorribilità delle soluzioni transattive delle controversie.
Dall’altro lato, la personalizzazione della valutazione equitativa va ricollegata alla esigenza di tener conto delle circostanze di fatto del caso concreto, a sua volte recepita dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. 392/07, 7740/07, 12247/07); ma tale personalizzazione non può che essere ricondotta ad una valorizzazione, seppur congrua, dei citati criteri standard, proprio nell’ottica di rispettare il necessario contemperamento delle affermate esigenze di standardizzazione e di personalizzazione.
Per tutti questi motivi la quantificazione del danno non patrimoniale di cui sopra appare del tutto adeguata, anche se significativamente lontana da quanto richiesto dalla difesa attorea, la quale motiva la sua elevata pretesa in considerazione della irrisarcibilità del danno di cui si discute.
A questo proposito bisogna chiaramente evidenziare come qualsiasi danno non patrimoniale, proprio per la sua stessa natura, sia in concreto irrisarcibile, stante la impossibilità di una effettiva reintegrazione per equivalente del diritto leso, a prescindere dalla gravità della lesione, anche se ciò risulta tanto più evidente quanto più la lesione si presenta grave; è, infatti, osservazione di comune buon senso che nessuna somma potrà mai risarcire una rilevante perdita della salute (si pensi ad una perdita di autonomia per amputazione di arti o da cecità) o la perdita di uno stretto congiunto, quale un figlio.
Pertanto è proprio tale peculiarità del danno non patrimoniale che avvalora la scelta di quantificarlo in maniera trasparente, contemperando senza sottovalutazioni, ma anche senza enfatizzazioni, i criteri standard della Terza Sezione Civile con gli specifici aspetti emersi in concreto; ciò anche al fine di tutelare in maniera intelligibile l’effettiva uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge e, in definitiva, il principio di legalità.
Perdipiù il parallelo proposto dalla difesa attorea (cfr. pg. 16 sua conclusionale) con il caso Barillà (anche a prescindere dalla congruità della quantificazione del danno non patrimoniale nell’importo di un milione di euro, messa in dubbio dalla stessa Corte di Cassazione laddove ha evidenziato che tale importo “potrebbe sembrare liquidato con eccessiva larghezza”) non appare adeguato al caso in esame; infatti la privazione totale della libertà personale, in conseguenza dell’ingiusto stato di detenzione, per sette anni è situazione ben diversa da una condizione di sieropositività senza manifestazione morbosa alcuna, tenuto anche conto delle effettive prospettive di vita che i progressi della medicina consentono ormai ai sieropositivi, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.
Passando all’esame della domanda risarcitoria relativa al danno patrimoniale, deve essere respinta non risultando provato alcun danno patrimoniale conseguente all’invalidità accertata; infatti non emergono elementi probatori sufficienti per affermare che abbia avuto conseguenze sulla capacità produttiva dell’attore, in particolare in termini di perdita di chances di svolgere la professione di avvocato.
Al proposito si ripercorre sinteticamente la sua storia professionale: nato il 6-11-65 e laureatosi in giurisprudenza il 16-12-93, lavora per circa due anni presso una libreria; alla scadenza del contratto biennale che lo legava alla libreria, si iscrive il 9-11-96 al Registro dei Praticanti Avvocati ed inizia a frequentare lo studio legale dove già esercitano la professione sia il padre che il fratello; ivi svolge attività di segreteria, collabora con il fratello, studia; in questo periodo non frequenta alcun corso, aspettando che trascorrano i due anni necessari per poter sostenere l’esame da avvocato; appena viene a conoscenza della presunta condizione di sieropositività nel dicembre 1997, lascia lo studio legale, senza fornire spiegazione alcuna; nel 2005, all’epoca dei colloqui con il c.t.u., vive e lavora vicino a Siena, collaborando con una rivista legata al Centro di meditazione frequentato (cfr. pg.19-21 c.t.u.); dalle dichiarazioni della teste T.E. emerge inoltre che si tratta della rivista Re Nudo.
Con specifico riguardo all’eventuale riduzione della capacità lavorativa, il c.t.u. evidenzia come, stante la aleatoria progettualità dell’attore, non si può certo attribuire soltanto alla vicenda per cui è causa l’abbandono dell’attività svolta nello studio legale paterno –peraltro da breve tempo ed in termini non assidui- ed il mancato conseguimento di una professionalità quale avvocato, tenuto soprattutto conto che l’assenza di progettualità lavorativa presso il nucleo familiare sottende esigenze di identità e di autonomia (così a pg.43 c.t.u.).
D’altro canto, come già si è sottolineato, le incontestate circostanze di fatto sopra riportate confermano che la mancanza di una credibile progettualità sussisteva ben prima della vicenda in esame, proprio perché riconducibile a preesistenti problematiche dell’attore; infatti, dopo una laurea faticosamente raggiunta (secondo le stesse dichiarazioni dell’attore –cfr. pg.19 c.t.u.-) e con un consistente ritardo (a 28 anni), per ben tre anni neppure si iscrive al Registro dei Praticanti; la tardiva iscrizione, poi, non risulta sorretta da una effettiva volontà di riprendere l’approfondimento delle proprie conoscenze giuridiche, già appannate dal trascorrere di un considerevole lasso di tempo dal momento della laurea, in quanto non si iscrive, come è notoriamente necessario, a corsi di sostegno nella preparazione dell’esame da avvocato che da lì a poco tempo avrebbe dovuto sostenere.
A fronte di tutto ciò non si può che concordare con il c.t.u. laddove definisce l’attività svolta per un anno presso lo studio paterno “verosimilmente episodica” e laddove qualifica il conseguimento di una professio