lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all'immagine ed all'identità personale in conseguenza di una videoripresa
21/06/2018 n. 16358 - sez I
RITENUTO CHE:
La Corte di appello di Roma, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’appello principale proposto da RTI SPA (di seguito RTI) e l’appello incidentale proposto da UC ed ha confermato la decisione del primo giudice che – in controversia concernente la richiesta di risarcimento danni proposta da UC per la lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all’immagine ed all’identità personale in conseguenza di una videoripresa realizzata dal TM , prodotto dalla società convenuta, e trasmessa senza avere ottenuto il consenso o la liberatoria – aveva accolto la domanda del C, ritenendo che la messa in onda della videoripresa senza il consenso scritto avesse costituito violazione delle leggi sulla tutela dei dati personali ed aveva condannato la convenuta società, ai sensi dell’art.2049 cod. civ., al pagamento di €.20.000,00=, oltre interessi legali, a titolo di risarcimento, e spese. La vicenda aveva riguardato una video ripresa che aveva visto come protagonista inconsapevole il C, avvicinato in una discoteca da una ragazza, complice della produzione televisiva, che lo aveva invitato ad uscire per recarsi all’interno della sua autovettura, dove lo aveva interpellato su comportamenti ed opinioni attinenti alla sfera sessuale ed all’uso dei contraccettivi, nonché circa la sua intenzione di avere rapporti sessuali senza precauzioni. La Corte di appello ha confermato che non risultava acquisito un valido consenso al trattamento dei dati personali ed ha condannato la società al risarcimento dei danni. La RTI ha proposto ricorso per cassazione con quattro mezzi corredati da memoria ex art.378 cod. proc. civ.; UC ha replicato con controricorso. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.
CONSIDERATO CHE:
1.1. Con il primo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge n.675 del 31 dicembre 1996, applicabile ratione temporis, essendo stato trasmesso il servizio in causa nel 2001, antecedentemente all’entrata in vigore del d.lgs. n.196/2003, e dell’art.2712 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.)
– la ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il consenso dovesse essere espresso in forma scritta ad substantiam, laddove – alla stregua della norma – la forma scritta rilevava solo a fini probatori, di guisa che l’assenza non incideva sulla validità dell’atto negoziale, ma spiegava efficacia solo sul piano processuale, limitando la possibilità di prova per testi ai sensi dell’art.2725 cod. civ.; a sostegno invoca la formulazione dell’art.23 del d.lgs. n.196/2003, che ha sostituito l’art.11 cit. Sulla scorta di tale premessa, afferma che nel caso di specie il consenso alla diffusione delle immagini era stato documentato da una videoregistrazione, dalla quale emergeva – a suo dire – la piena consapevolezza del C circa il fatto di essere stato ripreso e la volontà di non opporsi alla diffusione del girato e sostiene l’equipollenza della documentazione del consenso mediante videoregistrazione a quello reso in forma scritta.
1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art.360, primo comma, n.5, cod. proc. civ.) individuato nel contegno tenuto nell’occasione della ripresa dal C e nell’immediatezza con il TM e l’operatore – a dire della ricorrente – incompatibile con la volontà di opporsi alla diffusione dell’immagine.
1.3. Con il terzo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art.96 della legge 22 aprile 1941, n.633 del diritto d’autore (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente sostiene che la Corte di appello ha errato anche perché il consenso all’utilizzazione dell’immagine può essere anche tacito e sostiene che, giacché l’immagine integra un dato personale, la legge sul diritto d’autore si pone come legge speciale relativa a questo specifico dato personale destinata a prevalere sulla legge n.675/1996.
1.4. Con il quarto motivo – Violazione falsa applicazione degli artt.2059, 2727 e 2729 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto provato presuntivamente il danno non patrimoniale lamentato dal C in relazione al pregiudizio rispetto al proprio rapporto sentimentale ed al pregiudizio sul luogo di lavoro, deducendo che questi non aveva provato i danni non patrimoniali lamentati.
2.1. I motivi primo e terzo possono essere trattati congiuntamente perché connessi e vanno respinti. 2.2.1. Innanzi tutto va affermato che la fattispecie in esame non è sussumibile nell’ambito di applicazione dell’art.96 della legge n.633/1941, – come prospettato nel terzo motivo – in quanto la lesione lamentata non involge il diritto all’immagine intesa come “ritratto”, disciplinato da detta norma e rispetto alla quale è ravvisabile anche la possibilità del consenso all’utilizzo anche implicito o tacito (Cass 01/09/2008, n. 21995).
2.2.2. La presente controversia, così come accertata dalla Corte di appello, senza contestazioni sul punto, verte infatti su una videoripresa, che ha caratteristiche complesse in quanto non è circoscritta alla mera riproduzione dell’immagine del C, ma consiste nella registrazione, sia in video che in sonoro, di un incontro artatamente preordinato in specifiche circostanze di tempo e di luogo (all’uscita di una discoteca, in un autovettura munita di sistemi di registrazione) allo scopo di realizzazione uno programma televisivo, e delle risposte rese dall’inconsapevole C alle domande poste da un soggetto provocatore su temi privati e sensibili afferenti anche alla sfera sessuale.
2.2.3. La Corte di appello, nell’esporre la complessiva ratio, ha rimarcato questi aspetti fattuali, puntualizzando che nel caso di specie ricorreva un trattamento di dati personali – statuizione, questa, non censurata – e, quindi ha confermato la decisione di primo grado concernente la necessità del consenso scritto, insistendo sulla necessità del consenso espresso e consapevole anche in merito ai limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione, alla luce della normativa applicata.
2.2.4. Ne consegue che il terzo motivo è inammissibile poiché invoca l’applicazione della disciplina del diritto d’autore, non pertinente alla fattispecie accertata che ricade sotto la tutela di dati personali.
2.3.1. Il primo motivo, concernente la forma del consenso, è infondato.
2.3.2. Secondo la disciplina della tutela dei dati personali, vigente ratione temporis, il trattamento dei dati personali richiede il consenso dell’interessato, che deve essere espresso in forma specifica, previa informativa, deve essere documentato (art. 11 della legge n. 675/96) e deve essere reso per iscritto con riferimento ai dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art.22, legge cit.).
2.3.3. La Corte di appello ha dato corretta applicazione a dette disposizioni e la decisione risulta immune da vizi.
2.3.4. Va peraltro rimarcato che confligge con il dettato normativo la possibilità di ritenere acquisito il consenso in via implicita o per equipollenza, come propugnato dalla ricorrente. La società ha assunto che il consenso sarebbe stato prestato perché – come evincibile dalla registrazione – dal contegno del Csi comprenderebbe che questi aveva riconosciuto i componenti del TM, compreso che era stato oggetto di una ripresa destinata ad essere trasmessa nello show Le Iene ed espresso una valutazione positiva del servizio attraverso le battute formulate. La censura strutturata sulla non necessità ad substantiam della forma scritta del consenso e sull’idoneità della stessa videoregistrazione a fornire prova equipollente a quella scritta, non coglie la ratio decidendi espressa dalla Corte di appello ed è, sotto questo profilo, inammissibile.
2.3.5. Afferma la Corte di appello, dopo aver ricordato l’art.11, comma 3, cit. che «il consenso, che non si limita ad una formalità, deve consentire di identificare i limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione» con un evidente richiamo a quanto stabilito in tema di informazione dall’art.10, comma 1, lett. a) e conclude che nel caso di specie il consenso «da esprimersi nelle forme ora dette, è pacificamente mancato» (fol. 5 della sent. imp.).
2.3.6. É evidente dallo sviluppo argomentativo compiuto dalla Corte di appello, mediante il puntuale richiamo normativo, che, laddove parla di forme nelle quali il consenso deve esprimersi si riferisce, oltre che alla forma scritta richiesta per il trattamento dei dati sensibili, al complesso procedimento attraverso il quale si deve formare ed esprimere il “consenso informato” e ne ha escluso la ricorrenza nel caso si specie. Né tale conclusione è revocabile in dubbio dal peregrino assunto della ricorrente che, invertendo gli obblighi informativi, in buona sostanza assume che il C avrebbe capito tutto da solo e lo avrebbe anche provato con il suo contegno.
3.1. Il secondo motivo è conseguentemente inammissibile.
3.2. Invero spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (Cass. n. 10330 del 01/07/2003; n. 25608 del 14/11/2013).
3.3. La Corte di appello si è attenuta a questi principi ed ha motivato adeguatamente in merito alle circostanze ritenute rilevanti alla luce della normativa applicata per accertare la ricorrenza di un consenso conforme alla previsione normativa applicabile, rispetto alla quale la condotta del C- anche ove se ne volesse accreditare l’interpretazione sollecitata dalla ricorrente – non risulta decisiva posto che il contegno di quest’ultimo non poteva assorbire o escludere l’obbligo di informazione gravante sugli autori del trattamento, in mancanza del quale il consenso non poteva dirsi validamente espresso.
4.1. Il quarto motivo è infondato.
4.2. Invero, la decisione risulta conforme al condiviso principio già espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di lesione dell’interesse al rispetto dei propri dati personali, deve essere riconosciuto il danno consistente nella sofferenza morale patita da un soggetto in seguito alla diffusione senza consenso, nel corso di una trasmissione televisiva, del proprio nominativo, della propria immagine e di dichiarazioni rese in un contesto indotto dalla presenza di un soggetto provocatore, in un contesto totalmente estraneo a quello strettamente personale e professionale (Cass. 13/02/2018, n. 3426). 4.3. Nel caso la Corte territoriale ha riscontrato il danno, ravvisando il pregiudizio subito dal C al suo rapporto sentimentale e sul luogo di lavoro, essendo stato oggetto di scherno da parte di colleghi e superiori per le dichiarazioni rese nelle circostanze oggetto della videoripresa.
5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Si dà atto, – ai sensi 13, comma 1 quater del d.P.R. del 30.05.2002 n.115, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M. –
Rigetta il ricorso; – Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in C. 2.500,00=, comprensive di esborsi, oltre spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge; –