Il figlio può cercare identità della madre anche in caso di parto anonimo

25/01/2017 n. 1946 - Cassazione Civile Sezione Unite

FATTI DI CAUSA

1. – Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, con atto in data 30 marzo 2016, ha chiesto a questa Corte, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, l’enunciazione nell’interesse della legge del principio di diritto al quale la Corte d’appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, avrebbe dovuto attenersi nel decidere, con il decreto in data 10 marzo 2015, il reclamo proposto dal figlio maggiorenne nato da parto anonimo, il quale aveva fatto istanza al giudice di verificare, attraverso un interpello riservato, la persistenza della volontà della madre di non essere nominata.

2. – La richiesta scaturisce da una nota del Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia che ha sottoposto alla valutazione dell’Ufficio del pubblico ministero presso la Corte di cassazione il contrasto esistente nella giurisprudenza di merito in materia di parto anonimo e ricerca delle proprie origini da parte dell’adottato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013.

Con tale sentenza è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2, (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

3. – Riferisce il Pubblico ministero requirente che, rigettando il reclamo del figlio, la Corte d’appello di Milano ha aderito all’orientamento (seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna, di Brescia e di Salerno) che ritiene necessario attendere l’intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio a che il giudice interpelli in via riservata la madre naturale circa la persistenza della sua volontà di non essere nominata.

Secondo questo indirizzo, in mancanza di intervento da parte del Parlamento, l’interpello della madre non potrebbe avvenire con modalità direttamente individuate dal giudice, in quanto la Corte costituzionale – con l’inciso, che compare nel dispositivo della pronuncia, “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza” – avrebbe istituito una esplicita riserva di legge per non vanificare la garanzia di segretezza sul parto riconosciuta dall’ordinamento alla donna.

L’impossibilità di un’attuazione per via giudiziaria della sentenza della Corte costituzionale dipenderebbe dalla sua natura di pronuncia additiva di principio, con contestuale rinvio alla legge per la necessaria disciplina di dettaglio. L’intervento del giudice si appaleserebbe indebito ed invasivo degli altri poteri dello Stato, perchè creativo ex novo di un procedimento, tra l’altro di per sè non risolutivo in caso di indisponibilità, da parte della struttura che conserva i documenti, a comunicare le informazioni che consentano di risalire alla identità della madre. Il punto di equilibrio tra i due diritti in gioco – quello del figlio a conoscere le proprie origini e quello della madre di mantenere l’anonimato – si realizzerebbe proprio attraverso la disciplina del procedimento di interpello, in considerazione della pluralità di soluzioni idonee a ristabilire la legittimità costituzionale, tra loro fungibili poichè compatibili con il principio che si tratta di attuare attraverso l’esercizio della discrezionalità legislativa.

Sarebbero configurabili anche ostacoli di carattere processuale, perchè la piena attuazione del contraddittorio assicurata alle parti (anche) nei procedimenti in camera di consiglio, con il diritto di accedere liberamente a tutte le risultanze istruttorie, confliggerebbe con la necessità della massima riservatezza di questo procedimento.

4. – Il Procuratore generale osserva che vi è un’altra parte dei giudici di merito (il Tribunale per i minorenni di Trieste; il Tribunale per i minorenni per il Piemonte e la Valle d’Aosta; la Corte d’appello di Catania, sezione della famiglia, della persona e dei minori) che, in forza dei principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (nella sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, ammette la possibilità di interpello riservato anche senza legge.

Secondo questo orientamento, la norma dichiarata incostituzionale non potrebbe più essere applicata.

Nell’individuare la regola per il caso concreto, il giudice, al fine di conoscere la volontà attuale della madre se intenda mantenere ferma o meno la scelta originaria per l’anonimato, dovrebbe utilizzare come parametri di riferimento la disciplina generale sul tema (rinvenibile nella L. n. 184 del 1983, art. 28) e la normativa in materia di procedimenti in camera di consiglio e di protezione dei dati personali.

Pur nel perdurante silenzio del legislatore sulle modalità di interpello della madre biologica anonima, il giudice non potrebbe sottrarsi dal dare concreta attuazione al diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, nel rispetto del contrapposto diritto all’anonimato della madre.

5. – Il Procuratore generale rileva che, in presenza di questi due diversi e contrastanti approdi interpretativi emersi nella giurisprudenza di merito, talora all’interno della stessa sede giudiziaria, è configurabile un oggettivo interesse alla enunciazione di un principio di diritto nell’interesse della legge, per la indubbia rilevanza generale e sociale del tema che ne è alla base; e segnala l’opportunità che, su una questione di diritto così delicata, anche la Corte di cassazione (nella composizione ordinaria o a sezioni unite) aggiunga la propria voce nel dialogo che si è instaurato tra le Corti.

In particolare, ad avviso del pubblico ministero, gli aspetti della questione di diritto sottesa alla richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, sarebbero due.

Il primo riguarda il rapporto tra il diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini ed il “contrapposto” diritto all’oblio della donna che ha partorito avvalendosi dell’anonimato, e la consequenziale tutela che agli stessi è riconosciuta nell’ordinamento italiano dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013.

Il secondo investe l’interpretazione della pronuncia della Corte costituzionale ed il suo inquadramento nell’ambito delle diverse tipologie decisorie, al fine di tracciare gli spazi ed i limiti di intervento del giudice comune nell’esercizio concreto del suo potere giurisdizionale e nel rispetto delle prerogative del Parlamento.

6. – Il Procuratore generale ha concluso chiedendo che la Corte di cassazione enunci, in una prospettiva di orientamento del giudice, il seguente principio di diritto: “Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, va affermata l’esistenza del diritto dell’adottato (e comunque del) nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini con il limite dell’accertata persistenza della volontà della madre biologica di mantenere il segreto; l’esercizio del diritto trova attuazione mediante istanza dell’adottato rivolta al giudice, che dovrà procedere all’interpello della madre con modalità idonee a preservare la massima riservatezza nell’assunzione delle informazioni in ordine alla volontà della donna di mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o di revocarla”.

6.1. – A tale conclusione il pubblico ministero perviene sul rilievo che la sentenza n. 278 del 2013 è di accoglimento ed il suo contenuto non si risolve soltanto nella addizione di un principio, ma anche nella indicazione di una regola chiara circa la possibilità di interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio. La perdurante inerzia del legislatore non potrebbe oltremodo giustificare la violazione di un diritto del figlio, il cui riconoscimento e la cui tutela non trovano più alcun ostacolo normativo nella L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, ormai espunto dall’ordinamento.

7. – Data la particolare rilevanza della questione, il Primo Presidente ha disposto che, sulla richiesta del Procuratore generale, la Corte si pronunci a sezioni unite.

8. – In prossimità dell’udienza pubblica del 20 dicembre 2016, il pubblico ministero ha depositato note illustrative.

Premesso che l’anonimato è una scelta di sistema che vuole favorire la genitorialità naturale ed impedisce l’insorgenza di una genitorialità giuridica, ma che la irreversibilità di questa scelta è stata riconosciuta contrastante con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini in quanto diritto coessenziale ad ogni persona umana anche se nata da madre legittimata a rimanere anonima, il Procuratore generale requirente individua i referenti normativi per le modalità di interpello nell’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali e nella stessa L. n. 184 del 1983, art. 28.

Inoltre, l’Ufficio del pubblico ministero osserva che “l’applicazione diretta” della sentenza di incostituzionalità è già intervenuta con due recenti pronunce della 1 Sezione civile della Corte di cassazione, le quali hanno statuito che l’anonimato vale solo per la madre in vita e che, pertanto, dopo la morte della genitrice biologica che aveva scelto il segreto, il figlio adottato può conoscerne l’identità (sentenza 21 luglio 2016, n. 15024; sentenza 9 novembre 2016, n. 22838).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – La richiesta sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite concerne la materia del parto anonimo e del diritto del figlio non riconosciuto alla nascita, e adottato da terzi, ad accedere alle informazioni che riguardano la sua origine naturale.

In particolare, essa pone la questione se la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in parte qua, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, – rimetta la sua stessa efficacia ad un successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di interpello riservato, in assenza della quale il tribunale per i minorenni, sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la scelta per l’anonimato fatta al momento del parto; o se, al contrario, il principio somministrato dalla Corte con la citata pronuncia, in attesa della organica e compiuta normazione da parte del Parlamento, si presti ad essere per l’intanto tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, ancorchè solo a titolo precario.

2. – La Corte d’appello di Milano, sezione delle persone, dei minori e della famiglia, con il decreto in data 10 marzo 2015 da cui ha preso avvio la richiesta del Procuratore generale di enunciazione del principio nell’interesse della legge, ha ritenuto che la mancanza di disciplina legislativa volta a regolamentare l’interpello della madre naturale circa la perdurante attualità della sua scelta di non voler essere nominata, precluda di dare corso alla istanza del figlio.

Secondo i giudici del merito, la Corte costituzionale, con la sentenza additiva di principio, ha affidato la concreta soluzione adeguatrice al legislatore, chiamato a stabilire quali siano le modalità per colmare il rilevato vuoto normativo. Il rinvio al legislatore, compenetrato nella stessa dichiarazione di incostituzionalità, troverebbe spiegazione nel variegato panorama di scelte in concreto praticabili per dare attuazione al principio dell’interpello riservato della madre anonima. In mancanza nel nostro ordinamento di una disciplina immediatamente estensibile al caso di specie e in presenza della espressa previsione, da parte della Corte costituzionale, di una riserva di legge sul procedimento di interpello riservato della madre anonima, il tribunale per i minorenni non potrebbe muoversi, non essendo consentita, in attesa dell’intervento legislativo, un’attività giurisdizionale surrogatoria rivolta a dare immediata attuazione ai diritti costituzionali dei soggetti coinvolti. Il dictum della Corte potrebbe trovare applicazione da parte degli organi della giurisdizione ordinaria solo quando si sarà trasformato in diritto positivo ad opera di una conforme regola legislativa.

3. – Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione ritiene che il giudice del merito, adito in sede di reclamo, avrebbe dovuto invece legittimare l’inoltro riservato della richiesta alla madre naturale per accertarsi se ella volesse o meno mantenere il riserbo dell’anonimato di fronte al desiderio del figlio di conoscere la sua identità naturale. E chiede che la Corte enunci, nell’interesse della legge, il corrispondente principio di diritto di cui il giudice del reclamo avrebbe dovuto fare applicazione.

4. – La richiesta del Procuratore generale è ammissibile, sussistendo i presupposti alla presenza dei quali l’art. 363 cod. proc. civ., secondo la lettura datane dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U., 18 novembre 2016, n. 23469), condiziona l’enunciazione del principio di diritto:

a) l’avvenuta pronuncia di almeno uno specifico provvedimento non impugnato o non impugnabile;

b) la reputata illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento con una concreta fattispecie;

c) l’interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa.

In primo luogo, infatti, le parti del giudizio a quo non hanno proposto ricorso nei termini di legge avverso la statuizione di rigetto del reclamo resa dalla Corte d’appello di Milano con il decreto depositato il 10 marzo 2015. E tanto basta a ritenere sussistente il requisito di legge, giacchè l’art. 363 c.p.c., comma 1 richiede che le parti non abbiano proposto ricorso o vi abbiano rinunciato, ovvero che il provvedimento non sia ricorribile per cassazione e non sia altrimenti impugnabile; essendo così ultroneo verificare, altresì, se quel provvedimento – in concreto non impugnato – avrebbe potuto esserlo dinanzi a questa Corte o se si tratti di un provvedimento non ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. per la mancanza dei requisiti della decisorietà e della definitività.

Sussiste anche il requisito sub b). Nella sua richiesta di enunciazione del principio di diritto, invero, il Procuratore generale specifica di averla formulata, non in via astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso della vita venuto all’esame della Corte d’appello di Milano e risolto con l’adesione ad una interpretazione della disciplina di riferimento opposta a quella seguita da altri giudici di merito e qui sollecitata dallo stesso requirente con la denuncia dell’errore e con l’istanza a questa Corte di ristabilire l’ordine del sistema (cfr. Cass., Sez. U., 11 gennaio 2011, n. 404).

Infine, l’opportunità di intervenire con l’enunciazione di un principio di diritto è positivamente ed effettivamente riscontrabile nella fattispecie in esame: sia per il ravvisato contrasto di tesi tra i giudici di merito e per la mancanza di pronunce di questa Corte che abbiano affrontato espressamente la questione della possibilità o meno per il figlio nato da parto anonimo di attivare, nel contesto scaturito dalla pronuncia della Corte costituzionale, un procedimento di interpello riservato diretto a verificare la persistenza della volontà della madre di non essere nominata; sia perchè il tema – che investe valori costituzionali di primario rilievo reciprocamente connessi nei modi di concretizzazione – presenta un’oggettiva rilevanza generale, anche per le implicazioni relative al ruolo di garanzia che la giurisdizione comune è chiamata a svolgere nel dare seguito, nella decisione dei casi concreti, alla pronuncia di incostituzionalità, in difetto dell’intervento di regolamentazione legislativa.

5. – La richiesta del Procuratore generale è fondata.

6. – Nel quadro di una disciplina, dettata dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 5, 6 e 8, nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001, che attribuisce al figlio adottivo che abbia raggiunto l’età di venticinque anni il diritto potestativo di accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei suoi genitori biologici (ferma ovviamente l’identità acquistata con la relazione di genitorialità esclusiva con il padre e la madre adottivi), e che consente l’esercizio di questo diritto, funzionale alla costruzione della propria identità, anche prima dei venticinque anni, al figlio che abbia raggiunto la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica (prevedendosi che l’istanza di autorizzazione – non richiesta quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili – deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza), il comma 7 della medesima disposizione stabiliva, come norma di chiusura di tale sistema, una regola invalicabile per il figlio nato da parto anonimo: “(l’)accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1”.

Il citato art. 28, comma 7, andava letto in collegamento, appunto, con l’art. 30 del regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, in tema di dichiarazione di nascita, ove è prevista la necessità di rispettare “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”; e con l’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, che non permette all’interessato l’accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, contenenti le informazioni identificative della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento della nascita, se non trascorsi cento anni dalla formazione di quei documenti.

La scelta compiuta dalla madre al momento del parto si connotava così per l’assolutezza e l’irreversibilità, proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la durata normale della vita umana: in presenza dell’ostacolo dell’anonimato, il giudice non poteva fornire alcuna informazione identificativa al figlio.

7. – La disciplina dell’art. 28, comma 7, aveva superato indenne, nel 2005, il vaglio di legittimità costituzionale.

Investita, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., di una questione sollevata nella parte in cui la norma escludeva la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza la previa verifica, da parte del giudice, della persistenza della volontà della madre biologica di non essere nominata, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425 del 2005, la giudicò infondata.

Ritenne la Corte che l’assolutezza del diritto all’anonimato era “espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda”, rappresentando la garanzia che il legislatore ha ritenuto necessaria per assicurare che il parto avvenga “in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio”, e per “distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”. “L’esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità” scrisse in quell’occasione il giudice delle leggi – “spiega perchè la norma non preveda per la tutela dell’anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale. Invero, la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei quanto il nascituro – sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà”.

7.1. – Nuovamente investita della questione, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, ha ribaltato la precedente decisione e dichiarato l’illegittimità costituzionale, in parte qua, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7.

La Corte ha riaffermato il fondamento costituzionale del diritto all’anonimato della madre, il quale riposa “sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica e la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perchè la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili”; e ha ribadito che “la salvaguardia della vita e della salute sono… i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sè stessa, la genitorialità naturale”. Ma ha riconosciuto che “anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona”, e che “il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”.

Così inquadrati i valori costituzionali in gioco, la Corte ha censurato la disciplina legislativa in esame, in precedenza assolta, “per la sua eccessiva rigidità”, dichiarando in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. l'”irreversibilità del segreto”. L’art. 28, comma 7, infatti, prefigura una sorta di “cristallizzazione” o di “immobilizzazione” nelle modalità di esercizio del diritto all’anonimato della madre: una volta intervenuta la scelta per l’anonimato, “la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad espropriare la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato”.

La Corte ha giudicato irragionevole che la scelta per l’anonimato “risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale”, non essendo legittimo che la volontà espressa in un dato momento non sia “eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio)”.

L'”eccessiva rigidità” sta nella mancata previsione – “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza” – della possibilità per il giudice di interpellare la madre anonima, su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione.

Al legislatore, in conclusione, è fatto carico di “introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata” e, nel contempo, “a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo”.

7.2. – Tra la prima e la seconda pronuncia della Corte costituzionale è intervenuta, sulla stessa materia, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia.

Esaminando il caso della signora G., la quale, nata da parto anonimo, si era vista opporre dai giudici italiani un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali in applicazione della disposizione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, la Corte di Strasburgo ha ricordato che, nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rientra anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano, essendo protetto dalla Convenzione “l’interesse vitale… a ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori”.

La Corte Europea ha quindi affermato che “la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa”, ma – in assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto del figlio “a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato” – dà “una preferenza incondizionata a questi ultimi”; e ciò a differenza di quanto previsto nel sistema francese (esaminato nella sentenza della Grande Camera 13 febbraio 2003 Odievre c. Francia e ritenuto compatibile con la Convenzione), dove è previsto che, su impulso del figlio dato in adozione, volto a conoscere l’identità della madre biologica anonima, si possa almeno chiedere a lei se, davanti a quella richiesta, abbia intenzione di derogare all’anonimato oppure di mantenerlo.

8. – Il Collegio ritiene di dovere innanzitutto sottolineare che la sentenza n. 278 del 2013 della Corte costituzionale è una pronuncia di accoglimento: non si tratta nè di una sentenza di inammissibilità per discrezionalità del legislatore o per mancanza di “rime obbligate”, nè di pronuncia di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, ossia di una sentenza di inammissibilità o di rigetto accompagnata da un’esortazione o da un monito nei confronti del legislatore affinchè provveda ad una congrua riforma della disciplina.

Trattandosi di una sentenza di illegittimità costituzionale, essa produce gli effetti di cui all’art. 136 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3, sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: la norma dichiarata costituzionalmente illegittima – nella specie, l’implicita esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l’eventuale revoca, da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria – “cessa di avere efficacia” e “non (può) avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Poichè la norma che escludeva l’interpello della madre ai fini dell’eventuale revoca è stata rimossa dall’ordinamento fin dalla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il giudice non può negare tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l’anonimato.

Se lo facesse, senza avere previamente verificato, beninteso con le modalità più discrete e meno invasive possibili, la volontà della donna di mantenere l’anonimato, egli in realtà continuerebbe a dare applicazione al testo della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, preesistente alla pronuncia della Corte costituzionale, negando tutela al diritto del figlio in nome di una assolutezza senza eccezione: esito, questo, non consentito, giacchè l’ordinamento collega alla declaratoria di incostituzionalità l’effetto della rimozione della norma giudicata illegittima.

La perdurante applicazione della norma dichiarata incostituzionale si risolverebbe, in definitiva, nel mantenimento del vulnus recato agli artt. 2 e 3 Cost. da una disposizione – il citato art. 28, comma 7 che trasformava il diritto all’anonimato della madre naturale in un vincolo assoluto e immodificabile, indisponibile alla volontà della stessa donna di ritrattarlo, e, non consentendo di guardare, in una prospettiva diacronica, ad uno scenario temporale e di vita proiettato oltre la nascita, sacrificava totalmente il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, che “costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona”, senza che ciò fosse strettamente necessario per tutelare il diritto all’anonimato della madre. Un vulnus che la Corte costituzionale non si è limitata ad accertare, ma ha sanato e rimosso, introducendo in via di addizione il principio che il figlio possa chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della dichiarazione, a suo tempo fatta, di non volere essere menzionata come madre nell’atto di nascita.

8.1. – Si tratta, dunque, di una sentenza additiva di principio, o di meccanismo, che dichiara l’illegittimità costituzionale del citato art. 28, comma 7, “nella parte in cui non prevede” il diritto del figlio a provocare la possibile revoca della scelta dell’anonimato: l’addizione normativa ha ad oggetto, appunto, un principio (opposto a quello che si desumeva dalla disposizione preesistente, dichiarata incostituzionale) di “possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata… – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, la disposizione dell’art. 28, comma 7, non è rimasta invariata, ma vive nell’ordinamento con l’aggiunta di questo principio ordinatore, capace di esprimere e di fissare un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre. Tale punto di equilibrio si compendia nella riconosciuta possibilità per il giudice di interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua volontà attuale quando c’è un figlio interessato a conoscere la sua vera origine, ma anche nella preferenza da accordare alla scelta della donna, perchè il figlio non ha un diritto incondizionato a conoscere la propria origine e ad accedere alla propria storia parentale, non potendo ottenere le informazioni richieste ove persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

E’ esatto che la sentenza n. 278 del 2013 non solo lascia impregiudicate le movenze del procedimento di interpello riservato, ma anche specifica, nel dispositivo, che la possibilità per il giudice di interpellare la madre si deve esplicare “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”; e ciò, dopo avere affermato, in motivazione, che “(s)arà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”.

E tuttavia, la circostanza che tale pronuncia di incostituzionalità consegni l’addizione ad un principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al procedimento di appello riservato, e si indirizzi espressamente al legislatore affinchè, previe le necessarie ponderazioni e opzioni politiche, ripiani la lacuna incostituzionale e concretizzi le modalità del meccanismo procedimentale aggiunto, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, nè implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti.

Per un verso, infatti, l’affermazione di principio contenuta nel dispositivo di incostituzionalità non è semplice espressione di orientamento di politica del diritto, destinata a trovare realizzazione a condizione di un futuro intervento del legislatore che trasformi la pronuncia della Corte costituzionale in regole di diritto positivo. Essa è, invece, diritto vigente, capace di valere per forza propria, in quanto derivante dalla Costituzione: la legge alla quale il giudice è soggetto per il principio di legalità nella giurisdizione (art. 101 Cost., comma 2) è quella che risulta dalla addizione del principio ad opera della sentenza di illegittimità costituzionale.

Per l’altro verso, il dialogo privilegiato che, con la citata sentenza, la Corte costituzionale instaura con il legislatore riguarda