personale scolastico- supposto intento vessatorio su atti da parte del provveditorato

27/01/2017 n. 2148 -

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 3359 del 2011, rigettava l’appello proposto da S.G. nei confronti del MIUR, della Direzione scolastica regionale della Campania e dell’Ufficio scolastico provinciale di Napoli, avverso la sentenza emessa, tra le parti, dal Tribunale di Napoli, in data 20 dicembre 2007.

2. Espone il giudice di appello che il prof. S.G., premesso di essere stato, a partire dall’anno scolastico 1989/1990, Preside della scuola media statale “(OMISSIS) e, successivamente, dall’anno scolastico 2001/2002, Dirigente scolastico presso il “liceo classico liceo scientifico – istituto magistrale di (OMISSIS)”, esponeva che, a far data da una richiesta di ispezione dei primi mesi del 1994, era stato sottoposto dal Provveditorato agli Studi di Napoli) primate dalla Direzione scolastica regionale della Campania, poi, a mezzo dei suoi funzionari o di funzionari inviati per iniziativa dei detti uffici, ad una serie di atti e comportamenti di sistematica vessazione, protratti nel tempo e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato alla distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima ed all’obiettivo primario di provocarne le dimissioni, o comunque la cessazione del rapporto di lavoro.

In particolare, ricorda la Corte d’Appello, il ricorrente deduceva di essere stato sottoposto a: “esercizio esasperato eccessivo ed immotivato di forme di controllo (innumerevoli visite ispettive e provvedimenti di ispezione); impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie (rifiuto di rilascio di informazioni e copie di atti, anche relativi al fascicolo personale); frequenti sparizioni dagli uffici del provveditorato agli studi di Napoli e poi della direzione scolastica regionale della Campania di documenti rilevanti, relativi alla persona del S. od alla scuola da lui diretta, sparizioni a seguito delle quali spesso il S. o la scuola da lui diretta venivano esclusi da approvazione di finanziamenti o altri vantaggi o utilità; esclusione o illegittima postposizione del nominativo del S. e di quello della scuola da lui diretta da graduatorie relative a assegnazioni di incarichi o assegnazioni di fondi o assegnazioni di personale o da graduatorie per la partecipazione alle quali avevano regolarmente presentato domanda, il tutto motivato da misteriose sparizioni di documenti o non motivato affatto; sistematica omissione di intervento in relazione ai rapporti inviati dal prof. S. relativi alle condizioni della propria scuola e ai gravi problemi in essa presentatisi, problemi mai risolti in tempo ragionevole; sistematica omissione di intervento in relazione alle lamentele inviate dal prof. S. al Ministero, ai dirigenti apicali del provveditorato ed a quelli della Direzione regionale circa le vessazioni subite”.

Dettagliati i singoli comportamenti vessatori relativi ad un arco temporale intercorrente dal 1994 al 2005, il ricorrente allegava che gli stessi gli avevano provocato danni sia alla salute fisica, sia alla vita esistenziale e di relazione.

Chiedeva, quindi, di accertare che il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania ed il MIUR avevano violato gli artt. 2087 e 2043 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e l’art. 41 Cost., comma 2, ponendo in essere dal 1994 ad oggi (al ricorso) sistematicamente condotte qualificabili come mobbing, e che tali condotte avevano provocato ad esso ricorrente gravi danni quantificabili complessivamente in Euro 983.699,31, di cui Euro 53.217,04 per danno biologico, Euro 2.582,50 per danno biologico temporaneo, Euro 27.899,77 per danno morale, Euro 100.000,00 a titolo di danno all’immagine professionale, Euro 800.000,00 a titolo di danno esistenziale ed alla vita di relazione, ed Euro 6.000,00 a titolo di danno materiale, e per l’effetto chiedeva di condannare il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania e il MIUR, in proprio e quali successori ex lege del Provveditorato agli studi di Napoli, a pagare la somma di Euro 983.699,31, o quella diversa maggiore o minore che fosse risultata congrua al giudicante, il tutto con rivalutazione e gli interessi sulla somma via via rivalutata dall’evento al soddisfo, con clausola di provvisoria esecuzione e spese di giudizio.

Le domande venivano contrastate dall’Amministrazione che si costituiva in giudizio e ne chiedeva il rigetto.

2.1. Con un secondo ricorso, depositato il 16 marzo 2006, il prof. S. conveniva in giudizio le medesime Amministrazioni affermando che, dopo la presentazione del primo ricorso, veniva sottoposto dalla Direzione scolastica regionale della Campania e dal Centro servizi amministrativi di Napoli, a mezzo di propri funzionari, ad una serie ulteriore e più grave di atti e comportamenti di sistematica vessazione, protratti nel tempo e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato alla distruzione psicologica sociale e professionale della vittima, ed all’obiettivo primario di provocarne le dimissioni, o comunque la cessazione del rapporto di lavoro.

Ricorda la Corte d’Appello che il ricorrente esponeva, in particolare di essere stato sottoposto a: “impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie (rifiuto di rilascio informazioni e copie di atti, anche relativi al fascicolo personale del S. etc.); frequente sparizione dagli uffici del Centro servizi amministrativi di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR di documenti rilevanti, relativi alla persona del S. o alla scuola da lui diretta, sparizione a seguito della quale spesso il S. o la scuola da lui diretta venivano impediti nella possibilità di tutelare i propri diritti o conseguire particolari vantaggi; impedimento nella possibilità di tutelare i propri diritti o conseguire particolari vantaggi (visionare ed estrarre copia di documenti, assumere il nome di ” M.E.” come nome della scuola, etc.); esclusione del nominativo del S. e di quello della scuola da lui diretta da graduatorie relative ad assegnazione di incarichi o assegnazione di fondi o assegnazione di personale, graduatorie per la partecipazione alle quali avevano presentato domanda, motivata da misteriose sparizioni di documenti o non motivata affatto; attribuzione al S. di ordini illegittimi e nel contempo screditanti per la sua persona e per la sua immagine professionale, quale quello di recarsi in sedi ufficiali a sostenere il contrario di quello che legittimamente egli in documenti precedenti aveva sostenuto nell’interesse dell’Amministrazione; sistematica omissione di intervento in relazione alle lamentele inviate dal ricorrente al Ministero circa le sistematiche vessazioni subite”.

Descritti tali fatti avvenuti successivamente al 22 aprile 2005, il ricorrente lamentava che gli stessi avevano provocato un aggravamento delle proprie condizioni di salute ed ulteriori ripercussioni negative sulla propria vita familiare e personale.

Chiedeva, quindi, di accertare che il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania ed il MIUR avevano violato gli artt. 2087 e 2043 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e l’art. 41 Cost., comma 2, ponendo in essere dall’aprile 2005 ad oggi (al ricorso) sistematicamente condotte qualificabili come mobbing, e che tali condotte avevano provocato allo stesso gravi danni quantificabili, complessivamente, in Euro 283.699,31, di cui Euro 53.217,04 per danno biologico, Euro 2.582,50 per danno biologico temporaneo, Euro 27.899,77 per danno morale, Euro 100.000,00 a titolo di danno all’immagine professionale, Euro 100.000,00 a titolo di danno esistenziale ed alla vita di relazione, e per l’effetto chiedeva di condannare le suddette Amministrazioni a pagare ad esso ricorrente la indicata somma o quella diversa maggiore o minore che fosse risultata congrua al giudicante, il tutto con rivalutazione e gli interessi sulla somma via via rivalutata dall’evento al soddisfo, con clausola di provvisoria esecuzione e spese di giudizio.

Anche in questo caso l’Amministrazione si costituiva chiedendo il rigetto delle domande.

3. Il Tribunale riuniva i ricorsi per ragioni di connessione e li rigettava, compensando tra le parti le spese di giudizio.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il S. prospettando 11 motivi di impugnazione.

5. Resiste il MIUR con controricorso

6. Il S. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. 1. Prima di esaminare i motivi del ricorso, è opportuno ricordare quanto segue, tenuto conto che, ratione temporis (la sentenza di appello veniva depositata l’8 giugno 2011), trova, nella specie, applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo anteriore alla novella introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

2. il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass., n. 9233 del 2006).

Lo scrutinio effettuato dalla Corte di cassazione non può, dunque, riguardare il convincimento in sè stesso del giudice di merito, come tale incensurabile, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, il che si tradurrebbe in un complessivo riesame del merito della causa (Cass., n. 16526 del 2016, n. 14929 del 2012; Cass., n. 5205 del 2010; Cass., n. 10854 del 2009).

Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale dunque alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Ed infatti, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass., n. 13054 del 2014).

Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass., sentenza n. 11511 del 2014).

3. Va altresì ricordato (Cass., n. 17698 del 2014) che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti, i comportamenti lesivi.

4. Tanto premesso, può passarsi all’esame dei motivi di ricorso, che di seguito si riportano in sintesi.

5. Con il primo motivo di ricorso (pagg. 64-69 del ricorso) è dedotta la censura di insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: “come la Corte debba comportarsi di fronte alle risultanze istruttorie” (pagg. 11 e 12 della sentenza di appello), art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Rileva il ricorrente che il giudice di appello ha affermato, in relazione alla censura rivolta alla sentenza di primo grado in ordine al mancato pedissequo esame dei singoli episodi narrati dal ricorrente a conferma della persecuzione subita, dopo avere richiamato alcune pronunce di legittimità, che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che spetti in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e quindi di scegliere tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottese, dando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti.

L’esigenza di un’adeguata motivazione può quindi ritenersi soddisfatta quando il convincimento raggiunto dal giudice risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e di tutte le emergenze istruttorie, bensì di quelle delle stesse ritenute di per sè idonee a giustificarlo.

Pertanto, la Corte d’Appello affermava che la circostanza che nella motivazione della sentenza di primo grado impugnata non si fosse dato conto dei singoli ed innumerevoli episodi allegati da parte del ricorrente non significava che gli stessi non fossero stati attentamente esaminati e valutati; significava solo che nell’iter argomentativo seguito dal primo giudice gli stessi non erano stati ritenuti rilevanti a confortare la tesi sostenuta dal ricorrente.

Il ricorrente censura l’applicazione che di tali principi, dopo averli enunciati, la Corte d’Appello ha fatto nel corso della sentenza, in quanto non avrebbe esaminato un intero ricorso (il secondo autonomo ricorso, incorrendo nel vizio di omesso esame di domanda, ad avviso del ricorrente censurabile ex art. 360 c.p.c., n. 5), non avrebbe esaminato il risultato della prova testimoniale, non avrebbe esaminato la mancata ottemperanza ad un ordine di esibizione disposto dal giudice di primo grado, non avrebbe esaminato interi capitoli di episodi contenuti nel primo ricorso.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Va rilevato che, come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 22759 del 2014, n. 2687 del 2015), l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Diversamente, il vizio di omessa pronuncia con riguardo ad istanze istruttorie è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr., Cass., n. 6715 del 2013).

Pertanto, il vizio di omessa pronuncia con riguardo alla domanda oggetto del secondo ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile.

Per quanto attiene al dedotto mancato esame di prove, episodi e ordine di esibizione, i principi enunciati dalla Corte d’Appello sono conformi a quelli enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, sopra richiamati e l’odierna censura, per come formulata, non consente l’effettuazione del giudizio di rilevanza su deduzioni o prove che non sarebbero state vagliate in quanto non specifica le stesse, nè tale specificazione può trarsi dagli incisi della sentenza riportati a pag. 65 del ricorso.

Ed infatti, come statuito con la sentenza n. 3668 del 2013, la nozione di punto decisivo della controversia, di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto un primo aspetto si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, afferisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa.

Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile solo per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile solo perchè su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo sic et sempliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito.

6. Con il secondo motivo di ricorso (pagg. 69- 73 del ricorso) è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la sconcertante motivazione sul mancato esame della mancata ottemperanza all’ordine di esibizione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello con la quale la stessa riteneva del tutto infondato il terzo motivo di gravame non essendo stata specificata, da parte dell’appellante, quale rilevanza avrebbero avuto ai fini del giudizio i documenti di cui si chiedeva l’esibizione.

Si contesta che a fronte di una mancata motivazione da parte del giudice di primo grado, il giudice di appello ha ritenuto che l’appellante avrebbe dovuto dimostrare la rilevanza dell’ordine di esibizione.

Atteso il rilievo dell’ordine di esibizione, il giudice di merito avrebbe dovuto esplicitare le ragioni per cui riteneva di non trarre argomenti di prova dal comportamento omissivo delle parti. Comunque i documenti erano rilevanti perchè provenivano da un superiore gerarchico ( D.F.L., che il ricorrente ricorda citato a pag. 10 della sentenza di appello. Parte dello svolgimento del processo, ove il giudice di secondo grado ripercorre i motivi di appello, n. 17 relativo alla sussistenza di comportamento persecutorio in ragione della continua ed abnorme sottoposizione ad ispezioni) del ricorrente, ed erano citati dagli ispettori nell’elenco degli allegati alla relazione ispettiva ministeriale.

6.1. La statuizione della Corte di Appello si sottrae al denunciato vizio in quanto, come affermato da quest’ultima, la rilevanza dei documenti oggetto dell’ordine di esibizione inadempiuto doveva essere prospettata in relazione al ragionamento decisorio del giudice di primo grado, ponendo in rilievo la decisività degli stessi ai fini di una diversa statuizione rispetto a quella assunta dal Tribunale.

Ciò, tenuto conto, peraltro, che come statuito da questa Corte (cfr., Cass., n. 15554 del 2004, n. 15768 del 2004) integrando l’inosservanza dell’ ordine di esibizione di documenti un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c., comma 2, non è censurabile in sede di legittimità, neanche per difetto di motivazione, la mancata valorizzazione dell’inosservanza dell’ ordine ai fini della decisione di merito.

7. Con il terzo motivo (pagg. 73-74 del ricorso) è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2.

Quanto affermato dalla Corte d’Appello in relazione all’ordine di esibizione non solo sarebbe illogico e contraddittorio ma violerebbe l’art. 116 c.p.c., comma 2, dovendo il giudice dall’inottemperanza desumere argomenti di prova, o motivare in merito.

7.1. Il motivo non è fondato.

Come si è già ricordato dall’ingiustificata inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti emesso ai sensi dell’art. 210 c.p.c., il giudice può desumere argomenti di prova in pregiudizio della parte che non ha osservato l’ordine anche ai fini della liquidazione equitativa del danno, e trattandosi di potere discrezionale, il suo mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità neppure per difetto di motivazione.

Nè può trovare applicazione, nella specie, Cass, ord. 225 del 2016, atteso che nella relativa fattispecie (prova in ordine alla capacità reddituale dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, ove il giudice abbia chiesto ad entrambe le parti l’esibizione della documentazione relativa ai rapporti bancari da ciascuna intrattenuti, ed una sola di queste abbia ottemperato alla richiesta fornendo materia per gli accertamenti giudiziali) veniva in rilievo l’asimmetria comportamentale ed informativa tra le due parti (che non vi è nella presente fattispecie in esame), entrambe destinatarie dell’ordine di esibizione, ottemperato solo da una, con conseguente inadempienza dell’altra da cui desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., comma 2, con obbligo di motivazione per il giudice.

8. Con il quarto motivo di ricorso (pagg. 74-88 del ricorso) è prospettata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: la Corte di merito avrebbe omesso la ricerca del filo conduttore, prima enunciata e poi interrotta (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il ricorrente ricorda che la Corte d’Appello in premessa ha ricordato gli elementi che concorrono ad integrare la fattispecie del mobbing (in sintesi, cfr. citata Cass., n. 17698 del 2014: una serie di comportamenti di carattere persecutorio, l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente, il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito, l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi), ponendo in rilievo che la peculiarità della condotta illecita posta in essere dal datore di lavoro, in violazione dell’art. 2087 c.c., consiste nell’intento vessatorio e persecutorio che deve caratterizzare i singoli comportamenti reiterati nel tempo. Tale intento persecutorio deve emergere in maniera oggettiva e quindi da circostanze e fatti precisi che sarebbero percepiti in maniera identica da chiunque si trovasse in quella particolare situazione. Non possono invece rilevare condizioni soggettive del lavoratore.

Il giudice di secondo grado, quindi, affermava che l’appellante intendeva ricondurre ad un unico intento persecutorio espresso dall’Amministrazione nei suoi confronti una serie di condotte poste in essere da soggetti diversi nell’arco di oltre dieci anni, dovendosi ipotizzare che tutte le condotte lamentate, sia gli atti volontari quali l’invio di ispezioni, sia gli atti presumibilmente dovuti a disservizi e disfunzioni dell’Amministrazione, quali la perdita di documenti, fossero ricollegabili tra loro da un unico filo conduttore, cioè l’intento vessatorio dell’Amministrazione.

La Corte d’Appello riteneva inverosimile una tesi simile in considerazione del gran numero di soggetti che, nell’arco temporale preso in esame, sarebbero stati coinvolti in tale finalità vessatoria.

Tale statuizione (pagg. 13 e 14 della sentenza di appello) è censurata in quanto la Corte d’Appello dapprima ricorda i quattro elementi costitutivi del mobbing, ma poi valorizza, quale peculiarità della condotta del datore di lavoro, il solo intento persecutorio e dimentica gli altri tre elementi. Ciò, inoltre, ad avviso del ricorrente regge la prova logica solo ritenendo ellitticamnete sussistenti gli altri tre elementi.

Altra censura è mossa, in particolare, al mancato esame dei singoli ed innumerevoli episodi allegati da esso ricorrente per il solo fatto che il numero rilevante degli stessi e l’essere accaduti in un vasto arco temporale, ne escluderebbe l’intento persecutorio.

La Corte d’Appello avrebbe, inoltre, dovuto verificare se effettivamente detti episodi erano riconducibili ad un gran numero di soggetti e non ad un piccolo numero di soggetti e la posizione degli stessi nella gerarchia dell’Amministrazione.

8.1. Il motivo non è fondato.

Occorre rilevare che, come ricordato dalla Corte d’Appello, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. 26 marzo 2010, n. 7382).

Congruamente, quindi, la Corte d’Appello ha affermato che la mancanza dell’intento persecutorio non potesse far ricondurre la vicenda in esame al mobbing lavorativo.

Nè tale statuizione ha come presupposto logico (come asserisce il ricorrente) un’implicita affermazione di sussistenza di alcuno degli altri requisiti, attesa l’autonomia degli stessi.

Con adeguata motivazione che si sottrae al vizio denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 5, nei sensi in cui, come si è sopra illustrato, detta censura può essere dedotta in sede di legittimità, la Corte d’Appello ha escluso l’intento persecutorio.

Nella specie il giudice di secondo grado, dopo aver ricordato che l’appellante intendeva ricondurre ad un unico intento persecutorio espresso dall’Amministrazione nei suoi confronti una serie di condotte poste in essere da soggetti diversi nell’arco di oltre dieci anni, e precisato che il ricorrente sosteneva che comportamenti quali l’invio di ispezioni ministeriali, l’impedimento dell’accesso a notizie, la sparizione dagli uffici del C.S.A. di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR di documenti relativi alla sua persona od alle scuole da lui dirette, l’esclusione del suo nominativo e del nominativo delle scuole da lui dirette da graduatorie relative ad incarichi o assegnazioni di fondi o di personale, sarebbero riconducibili ad una medesima volontà ostile volta a mortificarne la professionalità e ad emarginarlo dal suo contesto lavorativo, ha escluso la sussistenza dell’intento persecutorio con motivazione ampia, puntuale ed immune da vizi logici.

Afferma la Corte d’Appello che la tesi del ricorrente, considerando il normale avvicendarsi nell’arco di oltre un decennio del personale impiegatizio e direttivo degli uffici del C.S.A. di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR, presupporrebbe l’esistenza di una stabile organizzazione creatasi all’interno dell’Amministrazione scolastica con l’unico fine di perseguire, in forme diversificate, l’appellante. Bisognerebbe, infatti, ipotizzare che tutte le condotte lamentate dall’appellante – sia gli atti volontari come l’invio di ispezioni, sia quelli dovuti presumibilmente a disservizi e disfunzioni dell’Amministrazione, quali la perdita di documenti – siano ricollegate dall’intento vessatorio dell’Amministrazione, tesi inverosimile in ragione del gran numero di soggetti coinvolti in tale finalità vessatoria.

La censura del ricorrente, lungi dall’indicare elementi circostanziati, già portati all’attenzione della Corte d’Appello, evidenziandone in modo compiuto la eventuale rilevanza critica rispetto al ragionamento decisorio del giudice di secondo grado, è specificata in modo non adeguato (in particolare pagg. 86 e 88) estrapolando, decontestualizzandole, frasi e parole dalla sentenza di appello, indicando circostanze (l’emersione dall’indice dei documenti – di cui non è indicata la collocazione negli atti del processo, nè è riportato il completo contenuto dello stesso, con ricadute sull’autosufficienza della deduzione della ricorrenza di uno stesso nome B.A. in 69 episodi, di un altro D.F.L. in 25 episodi, di un altro D.S. in 19 episodi) e ponendo domande esplorative che non censurano adeguatamente l’accertamento valutativo della Corte d’Appello in ragione dei principi sopra richiamati, in particolare al par. 1.

9. Con il quinto motivo di ricorso (pagg. 88-91 del ricorso) è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (le risultanze della prova per testimoni): illogicità dei criteri adoperati per la valutazione delle stesse, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il ricorrente censura la statuizione con la quale la Corte d’Appello affermava che la testimonianza del M. che avvalorava che gli ispettori

Quarantotto e G. avessero proferito frasi offensive nei suoi confronti era smentita da quella dei due ispettori medesimi, sentiti come testi, che avevano negato di aver proferito tali frasi, poichè non risultava spiegato perchè si era ritenuto più credibile un teste non indifferente rispetto ad uno indifferente.

9.1. Il motivo non è ammissibile in quanto è rivolto nei confronti solo di una delle due ratio decidendi che autonomamente sorreggono la pronuncia sulla testimonianza del M. e degli ispettori. Ed infatti, il giudice di secondo grado (pagg. 14 e 15 della sentenza) ha, inoltre, affermato l’irrilevanza delle suddette risultanze istruttorie, in quanto le frasi offensive, al più potevano costituire espressione di condotte scortesi e maleducate degli ispettori, ma non certo di comportamenti vessatori.

10. Con il sesto motivo di ricorso (pagg. 91 – 95 del ricorso) è dedotta insufficienza e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: le ispezioni che si susseguono per chiarire se stesse, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ censurata la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha escluso che il potere di controllo sia stato esercitato in modo ossessivo e pretestuoso in quanto la prima ispezione era scaturita da una denuncia dello stesso dirigente scolastico, la seconda era finalizzata ad un approfondimento e la terza era atto dovuto dell’amministrazione, diretto ad accertare la fondatezza di eventua