rischi per la salute del paziente - obbligo per il medico di utilizzare metodi a sua disposizione atti ad evitare l'insorgenza del pericolo
29/09/2015 n. 19213 - Cass. Civile sez. 3
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. del 25/9/2012 la Corte d’Appello di Roma ha respinto il gravame interposto dal sig. C.B. in relazione alla pronunzia Trib. Roma 27/2/2012, di rigetto della domanda proposta nei confronti dell’Azienda Complesso Ospedaliero (OMISSIS) e della chiamata società Ina-Assitalia s.p.a. di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza di intervento microchirurgico di asportazione di ernia discale degenerata paramediana destra D6 – D7, per via trans articolare destra extra durale, effettuato dal prof. F. il (OMISSIS), all’esito del quale si è reso necessario altro intervento, eseguito il (OMISSIS) sempre presso l’Ospedale (OMISSIS) ma con la tecnica trans toracica, con esito finale di lesione dell’integrità psico-fisica pari al 68%.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il C. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 11 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con separati controricorsi l’Azienda Complesso Ospedaliero (OMISSIS) e la società Ina-Assitalia s.p.a., che hanno entrambe presentato anche memoria.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo il ricorrente prospetta questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), conv. con integr. in L. n. 134 del 2012, “nella parte in cui inserisce l’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5” per “violazione dell’art. 77 Cost., comma 2”.
Con il 2 motivo prospetta questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con integr. in L. n. 134 del 2012, “nella parte in cui inserisce l’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5” per “violazione dell’art. 77 Cost., comma 2”.
Si duole che ove si considerino applicabili anche al presente procedimento le limitazioni in ordine alla censurabilità in cassazione del vizio di motivazione, risulterebbe violata la norma costituzionale per difetto nella specie delle “condizioni per la decretazione di urgenza”, atteso che “nel prevedere … la applicazione agli appelli ed alle sentenza introdotti/pubblicati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della Legge di conversione …, lo stesso D.L. n. 83 del 2012 rivela la mancanza del presupposto fondamentale dell’art. 77 Cost., comma 2”.
La questione è manifestamente infondata.
Va al riguardo osservato che le disposizioni concernenti le impugnazioni civili si inseriscono in un quadro più ampio di “Misure urgenti per la crescita del Paese”, previste dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012, dirette in termini generali ad arginare gli effetti della crisi economica.
In tale ambito, le disposizioni di cui all’art. 54, commi 2 e 3, prevedono che alcune norme processuali concernenti l’appello e il ricorso per cassazione si applicano “ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (comma 2).
La norma di cui al comma 3 in particolare stabilisce l’applicabilità della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (del seguente tenore:
“5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”) alle “sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Orbene, siffatta specifica disciplina derogante la regola generale di cui al citato D.L. n. 83 del 2012, art. 70 (in base al quale “Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle camere per la conversione in legge”), trova invero piena e legittima giustificazione in considerazione del fatto che l’incidenza della nuova disciplina sui processi non può ovviamente prescindere dalla definitività della soluzione normativa adottata, e, pertanto, dall’avvenuta conversione in legge del decreto, e con l’esigenza di coniugare la necessità ed urgenza del complesso intervento legislativo nel caso operato con la necessità di adeguamento del sistema in ragione della specificità della materia processuale.
Con il 3, il 4, il 5 motivo il ricorrente denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria” motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che “la Corte di Appello non si sofferma sulla censura relativa alla non corretta scelta chirurgica oggetto del motivo n. 1 di appello, ma sposta la propria attenzione sul nesso causale”.
Lamenta essere “mancata del tutto” la “valutazione” del “punto centrale dell’atto di impugnazione” ove, a fronte della censura mossa alla pronunzia del giudice di prime cure (che “pur riconoscendo l’inadempimento dell’ospedale all’obbligo informativo del paziente circa il tipo di operazione da effettuare ed i suoi esiti, e pur riconoscendo che il decadimento delle condizioni fisiche del paziente era da attribuire ai due interventi chirurgici, rigettava la domanda poichè l’attore non avrebbe provato, come era suo onere, la circostanza che, ove fosse stato correttamente informato degli esiti peggiorativi degli interventi cui veniva sottoposto, non avrebbe avuto interesse a sottoporvisi. Il diritto al risarcimento veniva quindi negato sulla base della mancanza di nesso causale, in quanto il danno, secondo il primo giudicante, si sarebbe verificato comunque, anche in caso di corretta e completa informazione”), aveva lamentato che “ricorrendo al metodo della cd. prova controfattuale e al criterio della probabilità logica … si sarebbe arrivati a risultati diametralmente opposti” in quanto “si doveva ipotizzare una situazione in cui il C. veniva informato sulle diverse tecniche chirurgiche adottabili, e del fatto che la trans articolare, pur essendo la meno indicata, sarebbe stata quella adottata in concreto”, e aveva pertanto concluso essere “evidente che … non si sarebbe fatto operare in “quella” struttura”.
Si duole essere alla corte di merito “sfuggito un passaggio chiave:
il chirurgo avrebbe dovuto informare il paziente non solo che era necessaria l’operazione, ma anche e soprattutto che la tecnica che in concreto sarebbe stata adottata, era la trans articolare, maggiormente rischiosa rispetto alla trans toracica”.
Lamenta essere “mancato l’esame del fatto, determinante ai fini del decidere, che in caso di scelta della tecnica chirurgica di elezione (la trans toracica), il pericolo di peggioramento sarebbe stato ragionevolmente inferiore rispetto alla tecnica adottata in concreto, ed il paziente avrebbe avuto il 58% di possibilità di guarire, ed il 30% di restare stabile”.
Si duole altresì dell'”omesso esame del fatto riguardante l’improvviso decadimento del quadro neurologico nel corso della prima operazione, “decisivo” per l’affermazione del nesso di causalità tra l’intervento e le peggiorate condizioni di salute del paziente”.
Lamenta che “una volta esaminata compiutamente la suddetta circostanza, del tutto omessa dalla Corte a quo, sarebbe stato agevole anche prendere atto della irrilevanza della omessa diagnosi precoce rispetto al nesso causale rettamente inteso. Era infatti la esecuzione errata dell’intervento ad aver determinato il decadimento delle condizioni fisiche del C., secondo il principio di causalità di cui agli artt. 40 e 41 c.p.”.
Con il 6 motivo denunzia violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole non essersi dalla corte di merito tenuto conto che dall'”aumentato rischio per il paziente derivante dalla scelta della tecnica trans articolare, e di converso, del fatto che in caso di scelta della tecnica d’elezione il pericolo di peggioramento sarebbe stato ragionevolmente inferiore, è derivata anche la violazione …
dell’art. 1176 c.c., comma 2 e art. 1218 c.c.”.
Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “la scelta dell’intervento trans articolare, pur in astratto contemplato dalla letteratura scientifica, ma in concreto “il meno indicato”, in quanto determinava un aumento del rischio di lesioni nella manipolazione chirurgica dell’ernia calcifica, era da escludere, ossia era errato, e che la sua concreta adozione costituiva inadempimento nel senso di cui all’art. 1176 c.c.”.
Lamenta che – come affermato da Cass., 8/9/1998, n. 8875 – “se nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, venga a palesarsi una situazione la cui evoluzione può comportare rischi per la salute del paziente, il medico che abbia a disposizione metodi idonei ad evitare che la situazione pericolosa si determini, non può non impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente anzichè metodi che possano anche solo esporla a rischio”. Con la conseguenza che “ove egli opti per un trattamento terapeutico o per un metodo d’intervento rischioso e la situazione pericolosa si determina ed egli non riesce a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta iniziale”.
Lamenta che la corte di merito, pur affermando essere “vero … che il perito ha ritenuto l’approccio chirurgico trans articolare (utilizzato nel primo intervento datato 27/5/1998), come meno indicato rispetto a quello trans toracico (utilizzato nel secondo intervento datato 30/05/1998), e che nel trattamento delle ernie centrali calcifiche, come quella da cui era affetto il C., l’approccio anteriore (trans toracico) diminuisce le difficoltà ed i rischi della manipolazione chirurgica”, non concludeva per la responsabilità della parte appellata”.
Con il 7 motivo denunzia violazione degli artt. 1176, 1218 e 2697 c.c. e artt. 40 e 41 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta che se la corte di merito “non avesse omesso l’esame relativo all’improvviso decadimento del quadro neurologico del paziente e del peggioramento delle sue condizioni di salute nel corso della prima operazione … avrebbe affermato anche il nesso di causa tra l’errata tecnica chirurgica adottata e le lesioni, escludendo qualsiasi efficacia causale giuridica della omessa diagnosi precoce”.
Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “nel caso in cui fosse stata scelta la idonea tecnica trans toracica, in luogo della errata tecnica trans articolare, il paziente avrebbe avuto …
il 90%, ossia la quasi certezza di non subire peggioramenti. Pertanto può … affermarsi che nella fattispecie de quo le lesioni ed il danno è recte, sono, ogni oltre ragionevole dubbio, ascrivibili alla errata scelta tecnica adottata nel primo intervento chirurgico”.
Con l’8 motivo denunzia violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “omesso esame di un fatto decisivo”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia confuso l’inadempimento da omessa informazione con quello da “errore tecnico” nell’esecuzione della prestazione.
Lamenta che “rispetto al nesso di causa tra omesso obbligo informativo e danno, è del tutto inconferente ed irrilevante l’omessa precoce diagnosi”.
Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “ove correttamente informato sulle controindicazioni della tecnica utilizzata e sui rischi maggiori che essa comportava, … si sarebbe rifiutato di farsi operare in “quella” struttura”.
Con il 10 motivo denunzia violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente affermato di non aver dato la prova che se fosse stato correttamente informato avrebbe “verosimilmente rifiutato l’intervento”, giacchè a tale stregua l’ha indebitamente onerato della prova incombente viceversa sul medico/struttura.
Lamenta che “una volta allegato dall’attore l’inadempimento del debitore, e la sua astratta idoneità a provocare il danno lamentato, doveva essere il convenuto a dimostrare che esso non era stato etiologicamente rilevante”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti p.q.r. nei termini e limiti di seguito indicati.
E’ rimasto nel caso accertato che, già affetto da “parestesie i (formicolio) alla parte interna della coscia bilateralmente che si stendeva a tutta la zona prossimale degli arti inferiori con comparsa di irrigidimento dei muscoli, difficoltà nell’urinare, nel deambulare e riduzione delle sensibilità con livello superiore rispetto all’ombelico”, al “momento del ricovero presso l’ (OMISSIS), in data (OMISSIS), il C. era affetto da “paraparesi spastica””.
Il 27 maggio 1998 fu sottoposto dal Prof. F., presso il detto Ospedale, ad intervento di “ernia discale degenerata paramediana destra D6-D7, per via trans articolare destra extra durale”.
Il successivo (OMISSIS) gli fu effettuata una “risonanza magnetica spinale che evidenziava la presenza di una voluminosa componente ossea mediana a livello D6-D7 con compressione midollare e sottoposto ad opera del Prof. F. e del dott. P., presso il medesimo ospedale, ad un ulteriore intervento chirurgico, con approccio anteriore alla colonna, attraverso toracotomia destra, di asportazione della ernia calcifica mediana, infissa nel midollo”.
Dopo “tale secondo intervento (che aveva una durata di circa sette ore), la valutazione neurologica del paziente evidenziava una “paraplegia flaccida” con livello tre dita sotto la linea marmillare” sicchè, “dopo trasferimento alla terapia intensiva e permanenza nel reparto di neurochirurgia, il C. veniva trasferito presso diversa struttura per eseguire cicli di riabilitazione”.
All’esito dei suindicati interventi chirurgici quest’ultimo ha riportato una lesione dell’integrità psico-fisica che è stata stimata pari al 68%.
Va anzitutto osservato (con particolare riferimento all’8 e al 10 motivo) che come questa Corte ha già avuto modo di affermare l’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente (v. Cass., 13/2/2015, n. 2854. Cfr. altresì Cass., 16/05/2013, n. 11950, che ha ritenuto preclusa ex art. 345 c.p.c. la proposizione nel giudizio di appello, per la prima volta, della domanda risarcitoria diretta a far valere la colpa professionale del medico nell’esecuzione di un intervento, in quanto costituente domanda nuova rispetto a quella – proposta in primo grado – basata sulla mancata prestazione del consenso informato, differente essendo il rispettivo fondamento).
Trattasi di due distinti diritti.
Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (cfr. Corte Cost., 23/12/2008, n. 438), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente (v. Cass., 6/6/2014, n. 12830), atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest’ultima non potendo peraltro in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32 Cost., comma 2).
Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute (art. 32 Cost., comma 1) (v. Cass., 6/6/2014, n. 12830).
L’autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone pertanto l’autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell’acquisizione del consenso informato, dovendo al riguardo invero accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, sotto il profilo del più probabile che non (cfr., da ultimo, Cass., 26/7/2012, n. 13214; Cass., 27/4/2010, n. 10060), da considerarsi ad essa causalmente astrette. Con l’ulteriore avvertenza che, trattandosi di condotta attiva, e non già passiva, non vi è nella specie luogo a giudizio controfattuale (cfr. Cass., 6/6/2014, n. 12830).
In mancanza di consenso informato l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente (v. Cass., 8/10/2008, n. 24791), l’obbligo del consenso informato costituendo legittimazione e fondamento del trattamento sanitario (v. Cass., 16/10/2007, n. 21748).
Trattasi di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi.
A tale stregua, l’informazione deve in particolare attenere al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 30/7/2004, n. 14638), dei rischi di un esito negativo dell’intervento (v. Cass., 12/7/1999, n. 7345) e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente (v. Cass., 14/3/2006, n. 5444), ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione” delle medesime (e cioè del mancato miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico- specialista è tenuto, e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della diligente esecuzione della convenuta prestazione professionale), e pertanto della relativa sostanziale inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.) che ne derivano per il paziente (cfr.
Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Il medico ha dunque il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonchè delle implicazioni verificabili (v.
Cass., 13/2/2015, n. 2854).
Al riguardo questa Corte ha avuto modo di precisare che il consenso informato va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poichè la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni (v. Cass., 19/9/2014, n. 19731).
Ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2, (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’art. 13 Cost. (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e della L. n. 833 del 1978, art. 33 (che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.), tale obbligo è a carico del sanitario, il quale, una volta richiesto dal paziente dell’esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta e di darvi corso.
Il consenso libero e informato, che è volto a garantire la libertà dell’individuo e costituisce un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico o anche di rifiutare (in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale) la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (v. Cass., 16/10/2007, n. 21748), salvo che ricorra uno stato di necessità non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere fornito espressamente, dopo avere ricevuto un’adeguata informazione, anch’essa esplicita.
Presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente ed in modo esplicito, ed il relativo onere ricade sul medico (Cass., 27/11/2012, n. 20984).
A tale stregua, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente è onere del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze (v. Cass., 9/2/2010, n. 2847), senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (v. Cass., 20/8/2013, n. 19920).
Va al riguardo ulteriormente posto in rilievo come il medico venga in effetti meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando acquisisca con modalità improprie il consenso dal paziente.
Si è da questa Corte ritenuto ad esempio inidoneo un consenso ottenuto mediante la sottoposizione alla sottoscrizione del paziente di un modulo del tutto generico, non essendo a tale stregua possibile desumere con certezza che il medesimo abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass., 8/10/2008, n. 24791).
Sotto altro profilo, quanto alla domanda risarcitoria diretta a far valere la responsabilità professionale del medico nell’esecuzione di un intervento, questa Corte ha già avuto più volte modo di porre in rilievo, in accordo con quanto osservato anche in dottrina, che il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell’attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicchè deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall’adempiere l’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività (cfr.
Cass., 20/10/2014, n. 22222).
Al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare (cfr.
Cass., 31/5/2006, n. 12995) e allo standard professionale della sua categoria.
L’impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacchè il professionista deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonchè del relativo grado di responsabilità (cfr.
Cass., 20/10/2014, n. 22222; Cass., 9/10/2012, n. 17143).
Nell’adempimento delle obbligazioni (e dei comuni rapporti della vita di relazione) il soggetto deve osservare altresì gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l’insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale).
E’ pertanto tenuto a mantenere un comportamento leale, e ad osservare obblighi di informazione e di avviso nonchè di salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio -, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr., con riferimento a differenti fattispecie, Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 27/4/2011, n. 9404, e, da ultimo, Cass., 27/8/2014, n. 18304).
La condotta di adempimento della dovuta prestazione medica va allora valutata sotto i segnalati profili della diligenza qualificata e della buona fede o correttezza, dovendo al riguardo altresì accertarsi se le conseguenze dannose verificatesi all’esito dell’evento lesivo siano, sotto il profilo del più probabile che non (cfr., da ultimo, Cass., 26/7/2012, n. 13214; Cass., 27/4/2010, n. 10060), da considerarsi alla detta condotta causalmente astrette. Con l’ulteriore avvertenza che, trattandosi di condotta attiva, e non già passiva, non vi è nella specie luogo a giudizio controfattuale (cfr. Cass., 6/6/2014, n. 12830).
Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato.
Affidamento tanto più accentuato, in vista dell’esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale l’attività medica viene dal primo espletata.
Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in ogni caso di “insuccesso” incombe allora al medico o alla struttura provare che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito dell’intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto (v. Cass., 9/10/2012, n. 17143), bensì ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza (cfr., Cass., 21/7/2011, n. 15993; Cass., 7/6/2011, n. 12274. E già Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894). In altri termini, dare la prova del fatto impeditivo (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), rimanendo in caso contrario soccombente, in applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., di ripartizione dell’onere probatorio fondata sul principio di cd. vicinanza alla prova o di riferibilità (v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), o ancor più propriamente (come sottolineato anche in dottrina), sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta.
Va sotto altro profilo sottolineato che, giusta orientamento delineatosi (anche) nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619) e confermato dalle Sezioni Unite civili di questa Corte, stante la diversità del regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, nell’accertamento del nesso causale in materia civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576).
Le Sezioni Unte hanno al riguardo in particolare sottolineato che ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cd. causalità adeguata, in base al quale occorre dar rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiano – alla stregua di una valutazione ex ante – del tutto inverosimili (v. Cass., 8/7/2010, n. 16123; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576).
Questa Corte già al riguardo già avuto modo di porre in rilievo che “in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile ordinaria, attestata sul versante della probabilità relativa (o variabile), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive (serie ed apprezzabili possibilità, ragionevole probabilità ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del più probabile che non” (così Cass., 16/10/2007, n. 21619).
Si è ulteriormente precisato che l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”) si delinea invero in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, sicchè la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve “essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza limitarsi ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51% ma facendosi luogo ad una compiuta valutazione dell’evidenza del probabile (in tali termini v., da ultimo, Cass., 21/7/2011, n. 15991, ove così esemplificato, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto: se “le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata – o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta -, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all’art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili”).
Nè può d’altro canto trascurarsi che, come questa Corte ha del pari avuto più volte modo di sottolineare, in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire, in base al principio del nesso di causalità specifica non può prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584;
Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 29/8/2011, n. 17685).
Senza sottacersi che, laddove la causa del danno rimanga alfine ignota, le conseguenze non possono certamente ridondare a scapito del danneggiato (nel caso, della paziente), ma gravano sul presunto responsabile che la prova liberatoria non sia riuscito a fornire (nel caso, il medico e/o la struttura sanitaria), il significato di tale presunzione cogliendosi nel principio di generale favor per il danneggiato, nonchè nella rilevanza che s assume al riguardo il principio della colpa obiettiva, quale violazione della misura dello sforzo in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione dovuta arrechi danno (anche) a terzi (cfr., in diverso ambito, Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Orbene, i suindicati principi risultano essere stati dalla corte di merito invero disattesi nell’impugnata sentenza.
In particolare là dove, nell’avallare le censurate affermazioni del giudice di prime cure secondo cui a) la “scelta operatoria del (OMISSIS)” è stata “discutibile ma non errata” in quanto “tuttora tra le pratiche chirurgiche contemplate in alcuni centri di riferimento per il trattamento di patologie quali quella in oggetto di causa”, sicchè il peggioramento palesato dall’odierno ricorrente all’esito dei due interventi chirurgici è “non … imputabile alla errata esecuzione degli interventi cui il C. è stato sottoposto nella struttura