Libertà prescrittiva. La linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2 non viola la libertà prescrittiva. Annulla sezione terza del Tar Lazio n. 419 pubblicata il 15/01/2022

19/01/2022 - Consiglio di Stato Sezione Terza

La sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente

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Direttore Sanitario sospeso. L’atto di accertamento dell’obbligo vaccinale spetta all’Asl, unica deputata a sindacare il certificato del medico di famiglia, ma nessuna sospensione della delibera.

20/12/2021 n. 8454 - Consiglio di Stato sezione terza

Considerato che la spendita di poteri amministrativi sull’accertamento circa la inosservanza dell’obbligo vaccinale giustifica la giurisdizione di questo giudice amministrativo e che la giurisdizione del giudice amministrativo si estende automaticamente anche alla comunicazione di sospensione dal servizio, atteso che una simile evenienza costituisce effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante.

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La casa di cura può possedere una farmacia? Il Consiglio di Stato rimette all'udienza plenaria

27/12/2021 n. 8634 - Consiglio di Stato

È rimessa all’Adunanza plenaria – ai fini della verifica della sussistenza di un profilo di incompatibilità nella gestione societaria di una farmacia nel caso di società acquirente ai sensi dell’art. 7, c.2, l. n. 362 del 1991, partecipata come unico socio da altra società di capitali, a sua volta dedita, per oggetto sociale, alla gestione di case di cura e di assistenza – la questione relativa a quali casi e a quali condizioni una società controllante possa dirsi coinvolta, per il tramite della società controllata, nella gestione della farmacia e se è possibile la presenza, nella società partecipante, di esercenti la professione sanitaria.

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la certificazione generica non esonera il sanitario dall’obbligo di vaccinarsi

23/12/2021 n. 8454 - Consiglio di Stato - sezione terza

Il medico di medicina generale che certifica il pericolo di un proprio paziente, che svolge la professione sanitaria, a somministrare il vaccino anti covid-19 deve indicare la patologia di cui soffre l’interessato, e ciò in quanto il controllo demandato alla ASL – responsabile a verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata – concerne pur sempre la certificazione del medico di medicina generale, la quale però, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della ASL, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero

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Il ruolo del fisioterapista in farmacia

04/01/2021 N. 111 - Consiglio di Stato sezione seconda

Alla stregua di quanto previsto dal D.M. n. 741 del 14 settembre 1994, (art. 1, comma 2), “in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell’ambito delle proprie competenze, il fisioterapista:

a) elabora, anche in équipe multidisciplinare, la definizione del programma di riabilitazione volto all’individuazione ed al superamento del bisogno di salute del disabile;

b) pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione funzionale delle disabilità motorie, psicomotorie e cognitive utilizzando terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali;

c) propone l’adozione di protesi ed ausili, ne addestra all’uso e ne verifica l’efficacia;
d) verifica le rispondenze della metodologia riabilitativa attuata agli obiettivi di recupero funzionale”.

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le collaborazioni tra fondazioni sanitarie ed aziende private non sono aiuti di stato - studio per realizzazione tamponi diagnostici covid

17/12/2020 n. 8126 - Consiglio di Stato -sezione terza

sul ricorso numero di registro generale 5074 del 2020, proposto dalla Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Giorgio Fraccastoro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Piemonte 39;

contro

Technogenetics S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Abiosi, Filippo Brunetti, Francesco Scanzano, Amelia Mazzucchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Francesco Scanzano in Roma, via XXIV Maggio n. 43;
nei confronti

DiaSorin S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonella Borsero, Carlo Merani, Luisa Torchia, Gabriele Sabato, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luisa Torchia in Roma, viale Bruno Buozzi n. 47;

sul ricorso numero di registro generale 5076 del 2020, proposto da
Diasorin S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonella Borsero, Carlo Merani, Luisa Torchia, Gabriele Sabato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luisa Torchia in Roma, viale Bruno Buozzi n. 47;
contro

Technogenetics S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Abiosi, Filippo Brunetti, Francesco Scanzano, Amelia Mazzucchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Francesco Scanzano in Roma, via XXIV Maggio n. 43;
nei confronti

Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Giorgio Fraccastoro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Piemonte 39;
per la riforma

quanto ad entrambi i ricorsi in appello:

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale Per La Lombardia (sezione Prima) n. 01006/2020, resa tra le parti.

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Technogenetics S.r.l. e di Diasorin S.p.A. e di Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo e di Technogenetics S.r.l.;

Viste le ordinanze nn. 4270 e 5760 del 2020;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2020 il Cons. Giovanni Tulumello e uditi per le parti gli avvocati Giorgio Fraccastoro, Francesco Scanzano, Amelia Mazzucchi, Antonella Borsero, Carlo Merani, Luisa Torchia e Gabriele Sabato;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con distinti ricorsi in appello – rispettivamente rubricati ai nn. 5074 e 5076 del 2020 – la Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo (d’ora in avanti anche solo Fondazione) e la s.p.a. DiaSorin hanno impugnato la sentenza in forma semplificata del T.A.R. Lombardia, sede di Milano, I Sezione interna, n. 1006/2020.

Technogenetics S.r.l. si è costituita, per resistere ai ricorsi, in entrambi i giudizi.

Con ordinanza n. 4270/2020 i ricorsi sono stati riuniti, ed è stata accolta la domanda cautelare con conseguente sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata.

È stato altresì ordinato al Direttore del Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca del M.I.U.R. di presentare una relazione informativa circa le prassi operative seguite dagli IRCCS nell’applicazione dell’articolo 8, comma 5, del d.lgs. n. 288/2003, con particolare riferimento alla provenienza (privata/pubblica) della proposta delle linee di ricerca.

Con successiva ordinanza n. 5760/2020 è stata respinta l’istanza proposta da Technogenetics S.r.l. di revoca della citata ordinanza n. 4270/2020, ed è stato assegnato termine al M.I.U.R. fino al 15 novembre 2020 per il deposito della relazione istruttoria già disposta con la medesima ordinanza.

Il 19 novembre 2020 il M.I.U.R. ha depositato tale relazione.

Dopo lo scambio delle memorie conclusionali e delle repliche, i ricorsi sono stati definitivamente trattenuti in decisione all’udienza del 10 dicembre 2020, svoltasi ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020 n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, attraverso collegamento in videoconferenza secondo le modalità indicate dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.

2. La sentenza gravata ha accolto il ricorso proposto da Technogenetics S.r.l. contro la Determina del Direttore Generale della Fondazione, n° 5/D.G./0277 del 23 marzo 2020, con la quale è stata accettata “…la proposta di collaborazione avanzata dalla “Diasorin S.p.A.” per la valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 a cura del Laboratorio di Virologia Molecolare, sotto la Responsabilità Scientifica del prof. Fausto Baldanti (Responsabile della U.O.S. Virologia Molecolare)”, ed ha annullato tale provvedimento “e l’accordo ad essa connesso”.

Il giudice di primo grado ha, in particolare, ritenuto che gli accordi di collaborazione ex art. 8, comma 5, del d. lgs. 16 ottobre 2003, n. 288 (nel cui ambito le parti del contratto dedotto in giudizio qualificano il medesimo):

– hanno come oggetto “quello dell’industrializzazione dei risultati della ricerca svolta dalle Fondazioni Irccs e dagli Istituti; ricerca che può essere effettuata in via esclusiva da tali Enti, ovvero in collaborazione con altri soggetti, come strutture di ricerca e di assistenza sanitaria, pubbliche e private, università, istituti di riabilitazione”;

– “integrano veri e propri contratti con uno specifico contenuto economico e patrimoniale e con obbligazioni a carico di entrambe le parti, sono, in linea di principio, soggetti al rispetto dei principi interni ed eurounitari in materia di contratti pubblici”;

– differiscono dagli accordi relativi alle “attività strumentali”, disciplinate dall’art. 9 del d. lgs. 288/2003.

Ha quindi operato una ricognizione del contenuto dell’accordo, giungendo alla conclusione che il suo contenuto, nonché “i profili relativi alla durata dell’accordo, agli esoneri di responsabilità e alla proprietà dei risultati dell’attività compresa nell’accordo, ne confermano la complessità e la non riducibilità ad una mera opera di testazione di prodotti”, concludendo nel senso che “l’accordo non può essere ricondotto a quelli cui si riferisce l’art. 8, comma 5, del d.l.vo 2003 n. 288 (….)”.

Ha osservato il T.A.R. che “La Fondazione Irccs è legittimata, ex art. 8, comma 5, cit. ad avvalersi di altri soggetti per industrializzare i risultati della sua ricerca scientifica, svolta come attività istituzionale, ma, tramite questo tipo di accordi, non pone la sua struttura e le sue capacità a disposizione di un particolare soggetto privato, per consentirgli di conseguire risultati scientifici che resteranno nell’esclusiva disponibilità del privato, anche per ciò che attiene alla proprietà e alla titolarità dei brevetti”: laddove invece “Il Policlinico San Matteo, a fronte della fornitura di prototipi da parte di Diasorin, si è impegnato, dietro pagamento di un corrispettivo, a mettere a disposizione dell’operatore privato le sue conoscenze scientifiche, i suoi laboratori, il suo personale, dipendente e non, il suo know how al fine di conseguire, anche attraverso l’elaborazione di test innovativi, nuovi risultati, nuovi prodotti e nuove invenzioni, la cui titolarità resta riservata a Diasorin spa”.

Sul presupposto della sussumibilità dell’accordo dedotto in giudizio nello schema tipologico di cui all’art. 9 del d. lgs. n. 288/2003, la sentenza gravata ha affermato che si tratterebbe di un “contratto attivo, in forza del quale è l’amministrazione ad obbligarsi ad eseguire una serie di prestazioni in favore di un soggetto privato in cambio di un compenso variamente articolato”, non soggetto “alla specifica disciplina del codice dei contratti pubblici, poiché esso non rientra negli appalti o concessioni di lavori, servizi o forniture”, ma che “rientra nell’ambito di applicazione dei principi eurounitari in tema di evidenza pubblica”.

Sull’ulteriore presupposto della qualificazione come ente pubblico delle Fondazioni IRCCS, ha quindi ritenuto che “anche l’individuazione del concessionario di un bene patrimoniale indisponibile, come nel caso di specie, soggiace ai principi comunitari, sicché deve avvenire all’esito di una procedura ad evidenza pubblica, che garantisca l’apertura al mercato e il confronto competitivo tra gli operatori del settore”.

La qualificazione della fattispecie in termini di rapporto di concessione di un bene pubblico ha infine indotto il giudice di primo grado a ritenere sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera b) del codice del processo amministrativo, con la precisazione che “la controversia non attiene a profili patrimoniali, ma ha ad oggetto la scelta dell’amministrazione di procedere all’affidamento, senza il previo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica, sicché la controversia attiene ad interessi legittimi, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo”.

Sulla base di tali presupposti argomentativi, il T.A.R. ha quindi accolto la censura con cui Technogenetics aveva lamentato che “il contratto è stato affidato in violazione dei principi interni e comunitari, a mente dei quali i rapporti di cui si tratta, ancorché attivi per l’amministrazione, devono essere affidati sulla base di una procedura coerente con i principi di trasparenza, proporzionalità, pubblicità, imparzialità, parità di trattamento che sostanziano il proprium delle procedure ad evidenza pubblica; principi del tutto disattesi nel caso di specie”; nonché quella “strettamente collegata alla prima, con la quale la ricorrente lamenta l’alterazione della concorrenza” e quella “diretta a contestare la disparità di trattamento e l’alterazione della concorrenza nel mercato di riferimento”.

3. Nell’ordine logico delle questioni devono essere esaminate con priorità le censure di natura processuale formulate dalle parti appellanti.

3.1. Con il primo motivo del proprio ricorso in appello la Fondazione deduce “Error in procedendo. Violazione dell’art. 60 c.p.a.”, assumendo che vi sarebbe stato un “abuso” della sentenza in forma semplificata, in quanto la decisione è stata adottata senza un’adeguata istruttoria.

La censura è infondata.

Come deducono i successivi mezzi, e come si vedrà in sede di esame – nel merito – degli stessi, le critiche che le parti appellanti rivolgono alla sentenza gravata si appuntano su errori di valutazione giuridica compiuti dal primo giudice, rispetto ai quali il dedotto difetto di istruttoria processuale, quand’anche sussistente, sarebbe irrilevante.

La piattaforma documentale su cui è stata adottata la sentenza di primo grado appare congruente rispetto alla decisione sull’unico motivo del ricorso di primo grado.

È vero che DiaSorin aveva chiesto, nella memoria depositata l’11 maggio 2020, che fosse disposta attività di verificazione o di consulenza tecnica “sulla circostanza che l’attività svolta dal Policlinico San Matteo fosse esclusivamente di verifica e di validazione ai fini della marcatura CE”: ma tale istanza istruttoria era stata formulata in via meramente tuzioristica, avendo la parte prodotto (documenti da 12 a 16 del fascicolo di primo grado) ampia documentazione attestante sia la completezza del prototipo prima della validazione, sia le attività effettivamente svolte in tale processo, rispettivamente, dalla Fondazione e da DiaSorin.

Il materiale istruttorio, dunque, era assolutamente completo sul punto.

In ogni caso dal verbale di udienza non risulta opposizione delle parti rispetto all’adozione del contestato strumento decisorio.

3.2. Il quarto motivo dell’appello DiaSorin deduce che “Il giudice, senza preavvisare le parti, ha deciso il giudizio non avendo prospettato il fatto che avrebbe riqualificato la fattispecie in una forma del tutto diversa da quella indicata e descritta da tutte le parti del giudizio”.

La censura è infondata.

La sentenza della IV Sezione di questo Consiglio di Stato, n. 3364/2015, invocata sia nel ricorso in appello che in memoria conclusionale, afferma princìpi esattamente opposti a quelli che l’appellante pretenderebbe di ricavarne (tanto che rigetta la censura di violazione dell’art. 73, comma 3, cod. proc. amm.): “Il fatto, poi, che l’ipotizzata violazione sia stata considerata dal T.A.R. rilevante sub specie di ritenuta nullità della convenzione (al di là della condivisibilità o meno in diritto della conclusione, su cui si tornerà appresso) non comportava affatto un obbligo di previo avviso alle parti, trattandosi di esercizio del potere attribuito al giudice di apprezzare le conseguenze giuridiche dei fatti sottoposti alla sua attenzione; opinare diversamente, e quindi ritenere che il primo giudice fosse tenuto ad avvertire le parti della possibilità che i predetti fatti fossero valutati come elementi sintomatici di una nullità (anziché di una mera annullabilità), vorrebbe dire ampliare in modo eccessivo il dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, comma 3, cod. proc. amm., dovere che è posto a garanzia del contraddittorio, e non di un inesistente diritto delle parti di essere previamente informate su come il giudice valuterà, in termini di qualificazione giuridica, i fatti portati alla sua attenzione”.

Giunge viceversa a conclusioni opposte – ribadendo peraltro “il principio secondo il quale il nomen iuris attribuito dall’Amministrazione ad un proprio atto o ad un proprio provvedimento non vincola il Giudice adito, che può riqualificarlo” – la pure invocata sentenza della IV Sezione n. 5570/2015: ma ad una lettura del fatto emerge che in tale circostanza la sentenza cassata aveva riqualificato come “motivato diniego” un atto di “comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”.

Il punto su cui si incentra la disciplina dell’avvertimento processuale ex art. 73, comma 3, del codice del processo amministrativo è quello del rilievo d’ufficio, da parte del giudicante, di una questione che viene poi posta a fondamento della decisione.

Nel caso di specie il primo giudice non ha rilevato d’ufficio alcuna questione non dedotta alle parti nella dialettica processuale, ma ha diversamente qualificato (non già la natura e gli effetti, ma) il contenuto del contratto dedotto in giudizio, e ne ha conseguentemente individuato la relativa disciplina giuridica, rispetto alla prospettazione della parte ricorrente (che peraltro conteneva già il riferimento alla violazione del vigente codice dei contratti pubblici, dell’art. 3 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 e degli art. 107 e 108 del T.F.U.E.).

Vero è, piuttosto, che l’ampiezza dei parametri normativi dell’unico motivo del ricorso di primo grado [“violazione del principio di concorrenza, uguaglianza di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza. Violazione e falsa applicazione dei princìpi essenziali del codice dei contratti pubblici (….)”], che ha attributo al primo giudice un ampio spazio per l’integrazione e l’individuazione di tali parametri, avrebbe dovuto semmai porre, in quel giudizio, un problema di genericità dell’atto introduttivo, più che legittimare (nei termini, non fondati, che si sono esaminati) una successiva censura connessa alla diversa (recte: integrata) qualificazione della fattispecie.

3.3. Entrambe le appellanti propongono una censura che contesta la qualificazione come concessione di bene pubblico ritenuta nella sentenza di primo grado, facendo discendere dall’accoglimento di tale mezzo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Osserva il Collegio che il T.A.R., come già accennato, ha operato la ridetta qualificazione all’esito di uno sforzo teso ad individuare una ipotesi di giurisdizione esclusiva entro la quale sussumere la propria giurisdizione sulla domanda tendente a far dichiarare l’inefficacia dell’accordo.

In disparte l’impossibilità di condividere tale opzione qualificatoria per le ragioni già indicate dalla Sezione nella richiamata ordinanza cautelare n. 4270/2020 (per l’“assenza del requisito di esclusività che ordinariamente caratterizza il rapporto concessorio”), e sulle quali si tornerà, ciò che appare dirimente per respingere le censure in esame è che le parti appellanti, nel portare alle estreme conseguenze il (criticato) ragionamento del primo giudice, incorrono nel medesimo vizio d’impostazione.

L’atto impugnato in primo grado è la Determina del Direttore Generale n° 5/D.G./0277 del 23 marzo 2020, pubblicata in data 25 marzo, con la quale è stata accettata “la proposta di collaborazione avanzata dalla DiaSorin S.p.A. per la valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 a cura del Laboratorio di Virologia Molecolare”.

Si tratta di un provvedimento amministrativo (prenegoziale), come tale impugnabile in sede di giurisdizione generale di legittimità (al pari dell’aggiudicazione).

Altra – e successiva – questione è quella dell’individuazione del giudice competente a dichiarare l’inefficacia (o l’invalidità) del contratto, ove venisse accolta la domanda di annullamento di tale provvedimento.

Com’è noto, quella dell’inefficacia è categoria meramente descrittiva, che presuppone una qualificazione negoziale in termini di invalidità: essa è, nondimeno, utilizzata dall’art. 121 del codice del processo amministrativo, per motivi di uniforme adattamento della Direttiva che regola il settore degli appalti pubblici agli ordinamenti interni degli Stati membri, per disciplinare le conseguenze negoziali dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento terminale della fase dell’evidenza pubblica nel rito ex art. 120 stesso codice relativo all’impugnazione degli atti relativi a procedure concernenti “pubblici lavori, servizi o forniture”.

Se però si sostiene, come nella prospettazione delle parti appellanti, che l’accordo in questione non rientra in alcuno degli schemi tipologici disciplinati dal codice dei contratti pubblici, la cui proiezione processuale è data dalle richiamate disposizioni, la sorte dello stesso in conseguenza dell’invalidità del provvedimento abilitante non è disciplinata (in termini di inefficacia) da tali norme, ma va individuata, sul terreno dell’invalidità negoziale, secondo i princìpi generali (con oscillazioni che, sulla base della ricognizione e qualificazione dell’interesse tutelato dall’evidenza pubblica, conducono ora – secondo il tradizionale orientamento della Corte di Cassazione: ex multis, Sez. I, 28 marzo 1996, n. 2842 – alla figura dell’annullabilità; e ora – Consiglio di Stato, V, decisione 24 settembre 2003 n. 5444 – a quella della nullità).

Nel caso di specie, tuttavia, questa seconda questione non si pone in ragione dell’esito del giudizio, come meglio si dirà in seguito.

3.4. Le parti appellanti hanno contestato e contestano l’interesse della ricorrente in primo grado, e la relativa legittimazione, sia in relazione alla sussistenza di un effettiva concorrenzialità con DiaSorin nell’ambito dello stesso mercato, sia in merito alla giustiziabilità nel caso di specie – terzo motivo di appello DiaSorin – dell’interesse che sorregge il ricorso di Technogenetics.

DiaSorin afferma in particolare che la ricorrente in primo grado avrebbe un interesse non correlato ad una competizione commerciale riferita al medesimo settore di mercato, ma piuttosto strumentale a creare un’azione di disturbo nella commercializzazione dei test sierologici e molecolari, più affidabili di quelli rapidi (“Si tratterebbe, in altre parole, di un’azione di disturbo su ampia scala, un’operazione di competition by litigation volta a disincentivare la gestione e il monitoraggio dell’epidemia tramite i test sierologici a favore dei test rapidi”).

Technogenetics replica dichiarando di commercializzare anch’essa un prodotto a prelievo venoso.

Osserva il Collegio che la relativa documentazione è stata prodotta nel giudizio di appello: nulla di tutto ciò è stato però documentato in questi termini nel giudizio di primo grado, pur a fronte dell’eccezione di difetto di legittimazione attiva (se si esclude la produzione dell’iscrizione alla camera di commercio e la visura camerale della società).

Inoltre la società appellata, a pag. 17 della memoria depositata il 14 luglio 2020, richiama una “istanza presentata da Technogenetics il 30 marzo 2020 per la validazione dei propri test rapidi sierologici (documentata dalla Fondazione stessa – si confronti il documento 4 della rispettiva memoria in primo grado)”.

In realtà tale documento è una e-mail inviata da Technogenetics il 30 marzo 2020, e prontamente riscontrata (dieci minuti dopo), con la quale non si è proposta un’attività di validazione (che anzi si dà per avvenuta), ma piuttosto la fornitura dei relativi test: “sperando di fare cosa gradita, le invio informazioni come aggiornamento della linea TechnoGenetics dedicata all’emergenza Sars-CoV-2. Nell’ottica di supportare la diagnostica del Coronavirus e contenere il diffondersi del contagio la nostra azienda è lieta di comunicare la disponibilità di un nuovo Test Diagnostico Rapido per la determinazione qualitativa degli anticorpi IgM ed IgG.. (….) A differenza di altri test in proposizione sul mercato ha una validazione ampia, validato anche su casi italiani”.

Ritiene il Collegio che ancorché da tali elementi emerga come il ricorso di primo grado fosse assistito da un interesse che l’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 4270/2020 ha condivisibilmente individuato come quello “non già a competere sull’attività di sperimentazione e ricerca messa a disposizione dall’Istituto, ma) a tutelare porzioni di “mercato” acquisite nel settore in cui già opera con propri strumenti diagnostici brevettati”, e come verosimilmente sia stato sollecitato ed operato un sindacato di tipo oggettivo, nondimeno la fondatezza, nel merito, dei motivi di appello, e l’infondatezza del ricorso di primo grado, assumono rilievo dirimente ed assorbente rispetto a tale questione.

4. I temi devoluti con le residue censure, di natura sostanziale, riguardano: il contenuto dell’accordo oggetto di giudizio; la disciplina dello stesso, in relazione ai suoi possibili contenuti; le conseguenze della qualificazione in punto di soggezione alle regole del diritto dell’U.e. dei contratti pubblici.

4.1. Le parti controvertono in merito al contenuto dell’accordo oggetto della determinazione impugnata.

L’oggetto dell’accordo, per come dallo stesso definito (art. 1), è la “valutazione (….) di test sierologici e molecolari per la diagnosi da infezione da SARS_cov_2 da successivamente sviluppare e produrre rispettivamente da parte di DiaSorin e da parte di DiaSorin Molecular LLC, affiliata americana di DiaSorin (…)”.

Sostiene tuttavia l’appellata che alcuni riferimenti testuali contenuti nelle successive disposizioni, nonché alcune dichiarazioni di stampa, lascerebbero intendere che esso riguardasse anche lo sviluppo del prodotto, propedeutico alla validazione: “la titolarità della ricerca era (…..) in capo al San Matteo che ha scelto Diasorin come partner della sperimentazione senza ricorrere alla necessaria procedura dell’evidenza pubblica”.

Poiché le parti appellanti hanno documentato che anche essa appellata ha concluso, nelle medesime forme, analoghi accordi con altre strutture sanitarie pubbliche, nella memoria di replica Technogenetics si è in proposito difesa precisando che “i contratti conclusi da Technogenetics con quei due enti hanno pacificamente riguardato una validazione di test di produzione della stessa Technogenetics. Si è trattato, cioè, di un percorso la cui esperibilità senza l’espletamento di procedure competitive è pacifica e non è oggetto di contestazione”.

Assume dunque la stessa ricorrente in primo grado che a suo avviso l’accordo avente ad oggetto la validazione pacificamente non necessita di procedure competitive.

4.2. La questione è intimamente connessa a quella concernente la disciplina delle attività di ricerca, e delle relative utilizzazioni industriali, svolte con l’ausilio degli I.R.C.C.S.

In argomento il Collegio ritiene anzitutto che siano fondate le censure relative alla qualificazione data dalla sentenza di primo grado, per escludere che l’accordo in questione sia soggetto alla disciplina di cui all’art. 8 del d. lgs. 16 ottobre 2003, n. 288.

Il quarto morivo dell’appello della Fondazione contesta la qualificazione come concessione di beni: “il TAR pretermette l’elemento essenziale della causa dell’accordo e cioè la collaborazione, che si esplica attraverso la condivisione di mezzi, di risorse, di conoscenze e finanche dei rischi tra la parte pubblica e quella privata. In altre parole, l’attività del San Matteo non si esaurisce nella mera messa a disposizione in favore di DiaSorin, di “una particolare utilità” (cfr. pag. 34 della sentenza impugnata), ovverosia di strutture e di conoscenze scientifiche, ma è integrata da un facere suscettibile di valutazione economica (remunerato da un corrispettivo nell’ambito del quale devono ricomprendersi anche le royalties sulle vendite)” (censure analoghe sono presenti nel secondo e nel quinto motivo dell’appello DiaSorin).

La censura è fondata nella parte in cui deduce che il primo giudice ha incentrato la sua analisi su di un aspetto strutturale (la pretesa messa a disposizione di un complesso aziendale), laddove la prestazione dell’Istituto ha invece riguardo ad un elemento funzionale (l’attività di sperimentazione).

Ribadita dunque – anche mediante il precedente richiamo alla sintetica ma esauriente motivazione sul punto del provvedimento cautelare – l’impossibilità di qualificare la fattispecie in termini di concessione di bene pubblico, e dunque della fondatezza delle relative censure, parimenti fondato risulta il secondo motivo dell’appello della Fondazione, con il quale si contesta la “sussunzione dell’articolato contrattuale al paradigma normativo previsto per gli IRCCS dall’articolo 9 del d.lgs. n. 288/2003 afferente ai c.d. “Accordi strumentali”, ovverosia quelli che vengono perfezionati da un Istituto di ricerca e soggetti pubblici e privati per “attività diverse da quelle istituzionali” (censure analoghe sono svolte nel secondo motivo dell’appello Diasorin).

Sostiene l’appellante che il procedimento di validazione scientifica del kit diagnostico, necessaria a DiaSorin per ottenere la marcatura CE, rientrerebbe nelle “attività istituzionali di ricerca proprie della Fondazione IRCCS San Matteo”, ai sensi degli artt. 2 e 4 dello Statuto: ““Fare ricerca”, del resto, è la missione istituzionale degli IRCCS come il San Matteo”.

Osserva l’appellante a sostegno della propria censura che i contenuti sinallagmatici, e i relativi vantaggi economici dell’accordo, unitamente all’obiettivo della industrializzazione dei risultati della ricerca, non tolgono che “nell’ambito delle prestazioni svolte, il San Matteo ha esercitato le proprie attività istituzionali e le proprie prerogative pubbliche di ricerca scientifica”, come dimostrerebbe il fatto che anche altri IRCSS “hanno concluso nel medesimo periodo di riferimento (si ricordi dettato dall’emergenza pandemica Covid 19 e dunque da esigenze di peculiare urgenza e speditezza), accordi di collaborazione scientifica del tutto analoghi a quello che qui interessa”.

Tale considerazione escluderebbe le attività in questione da quelle non strettamente istituzionali e strumentali, che costituiscono invece il presupposto per l’applicazione dell’art. 9 del d. lgs. 288/2003.

Il citato art. 9 – peraltro neppure menzionato nel ricorso di primo grado – riguarda infatti le attività strumentali a quelle istituzionali, e non queste ultime: laddove è fin troppo evidente che nella fattispecie in esame si controverte intorno alle forme di esplicazione di un’attività istituzionale, quale la sperimentazione di prodotti per la diagnosi dell’infezione da SARS_ Cov_2 da immettere sul mercato.

4.4. La ricognizione della disciplina delle forme di collaborazione degli I.R.C.C.S con soggetti pubblici e privati in ambito istituzionale deve prendere mosse dall’art. 8, comma 4, del citato d.lsg. 288/2003: “Le Fondazioni IRCCS e gli Istituti non trasformati attuano misure idonee di collegamento e sinergia con altre strutture di ricerca e di assistenza sanitaria, pubbliche e private, con le Università, con istituti di riabilitazione e con analoghe strutture a decrescente intensità di cura, avvalendosi, in particolare, delle reti di cui all’articolo 43 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, all’interno delle quali attuare comuni progetti di ricerca, praticare comuni protocolli di assistenza, operare la circolazione delle conoscenze e del personale con l’obiettivo di garantire al paziente le migliori condizioni assistenziali e le terapie più avanzate, nonché le ricerche pertinenti”.

Il successivo comma 5 regola poi lo sfruttamento industriale dei risultati della ricerca: “Al fine di trasferire i risultati della ricerca in ambito industriale e salvaguardando comunque la finalità pubblica della ricerca, le istituzioni e gli enti disciplinate dal presente decreto legislativo possono stipulare accordi e convenzioni, costituire e/o partecipare a consorzi, società di persone o di capitali, con soggetti pubblici e privati di cui sia accertata la qualificazione e l’idoneità. In nessun caso eventuali perdite dei consorzi e delle società partecipate possono essere poste a carico della gestione degli enti. I predetti rapporti devono disciplinare:

a) le modalità di distribuzione dei profitti connessi alla eventuale brevettazione dei risultati ed al loro sfruttamento, vincolandone in ogni caso la destinazione al finanziamento delle attività istituzionali;

b) adeguate regole di trasparenza dei flussi finanziari, con obblighi di rendicontazione;

c) obiettivi e tempi certi per il loro raggiungimento;

d) idonee modalità di informazione, verifica e controllo dell’andamento del programma da parte degli organi di indirizzo e degli organi di gestione”.

Dal complesso della richiamata disciplina si ricava che per “attuare comuni progetti di ricerca”, “praticare comuni protocolli di assistenza” ed “operare la circolazione delle conoscenze” la forma della collaborazione è sostanzialmente libera (“misure idonee”).

Solo lo sfruttamento industriale è soggetto una disciplina del contratto piuttosto analitica: a tutela evidentemente degli interessi patrimoniali portati dalla parte pubblica.

Nel caso di specie, quand’anche la collaborazione fosse stata più articolata di una semplice validazione, sarebbe comunque ricaduta nel perimetro applicativo del comma 4 del citato art. 8 (e del successivo comma 5, ove suscettibile di utilizzazione industriale).

In ogni caso, in fatto, DiaSorin nella memoria conclusionale ha contestato l’affermazione della paternità pubblica del test: “In particolare si richiama il doc. 13 (fasc. TAR) con cui il dott. Bonelli ha ripercorso con puntualità gli step della concezione del test sierologico e del successivo rapporto con il San Matteo. Ugualmente la dr.ssa Minnucci ha relazionato in ordine al test molecolare (doc. 12 fasc. TAR) e tanto il prof. Palù (doc. 14 fasc. TAR) quanto la prof.ssa Cirillo hanno più nel dettaglio spiegato il rapporto tra il test sierologico concepito da DiaSorin con l’equipe del dott. Bonelli e il test di neutralizzazione messo a punto dal prof. Baldanti del San Matteo, tale per cui il secondo ha consentito di verificare con estrema precisione le prestazioni del primo”.

Sul piano testuale ha poi ribadito che “la prima parte dell’Accordo regolamenta in modo inequivoco la valutazione “delle prestazioni … di un prototipo (RUO) fornito da DiaSorin e sviluppato [dalla stessa DiaSorin, n.d.r.] … allo scopo di ottenere la marcatura CE”.

Ma se è pacifico per la stessa parte appellata che la validazione, in quanto afferente la fase di industrializzazione (rispetto alla quale è propedeutica), non necessitava di procedura di evidenza pubblica, lo “sviluppo di un prodotto” che nasca da una collaborazione pubblico/privato si poneva ancor di più al di fuori da tale perimetro, perché finché non ha riflessi suscettibili di utilizzazione economica (in termini di “trasferire i risultati della ricerca in ambito industriale”) secondo la disciplina portata dall’art. 8 non necessita di alcuna forma vincolante, essendo direttamente la norma (comma 4) ad abilitare una simile collaborazione.

Se si ha riguardo ad una consapevole ed obiettiva valutazione dell’attività, anche alla luce del suo regime normativo, il problema rischia di ridursi ad una questione meramente nominalistica: come fondatamente rilevato a pag. 14 della memoria depositata l’11 maggio 2020 da DiaSorin nel giudizio di primo grado, “Il Policlinico San Matteo è (…) intervenuto nella fase di validazione: tale fase, però, pur non comportando alcuna lavorazione diretta o indiretta del prodotto, si inserisce anch’essa nel processo di ‘sviluppo’ dei kit diagnostici”.

4.5. Si contesta inoltre alle appellanti di avere inserito in contratto aspetti relativi alla fase precedente la validazione: ma, se si ha riguardo ad una consapevole ricognizione del significato e del rapporto fra i commi 4 e 5 dell’art. 8, ciò sarebbe semmai un quid pluris, anche in termini di garanzie per la parte pubblica (nel senso che la forma negoziale sarebbe stata adottata non soltanto per la fase in relazione alla quale la legge obbligatoriamente la prevede – quella dello sviluppo industriale, suscettibile di immediato sfruttamento economico -, ma anche per quella – antecedente – di sperimentazione, connotata da una naturale incertezza in merito ai suoi esiti e dunque anche da una rilevanza patrimoniale solo potenziale).

Vero è, in realtà, che sperimentazione e validazione sono categorie non necessariamente e rigidamente legate in sequenza.

Non è un caso che il Ministero della Salute abbia escluso la necessità di procedure di evidenza pubblica (profilo sul quale si tornerà specificamente al punto successivo) non solo per le attività di validazione, ma anche per quelle di “sperimentazione”.

Ciò che appare comunque dirimente, e che invece è sfuggito alla logica della decisione impugnata, è l’obiettiva valutazione dell’oggetto dell’accordo in relazione alle finalità istituzionali della Fondazione e alla disciplina normativa degli strumenti funzionali al loro perseguimento (al di là della sinallagmaticità delle prestazioni di carattere patrimoniale): come era stato osservato, con ragione, già nella memoria depositata da DiaSorin l’11 maggio 2020 nel giudizio di primo grado, “il Policlinico San Matteo, che è una Fondazione IRCCS (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico), poteva ricavare a sua volta benefici, ai fini dell’utilizzo delle immunoglobuline ricavate dal plasma di pazienti guariti dall’infezione di COVID-19 che lo stesso Policlinico aveva avviato a scopo sperimentale con esiti lusinghieri. Disporre di test che consentissero di verificare non solo la presenza di immunoglobuline in generale, ma in modo specifico la presenza di immunoglobuline ‘neutralizzanti’, agevolava certamente queste attività di sperimentazione”.

Scopo della Fondazione è infatti la ricerca: non erogare sovvenzioni o ricevere corrispettivi (che sono strumenti a ciò finalizzati, ma logicamente conseguenti), in ciò anche facilitando la ricerca dei privati (nelle forme giuridiche disciplinate dai commi 4 e 5 dell’art. 8 citato).

Il rapporto fra tali disposizioni, o meglio fra i due distinti ma connessi profili dalle stesse regolati, è all’evidenza un rapporto di mezzo a fine: ciò che non è stato considerato dalla sentenza gravata, che ha operato una ricostruzione del significato normativo (comunque, come osservato, ricavabile anche dal dato letterale) avulsa dallo specifico contesto sistematico e teleologico.

5. Le ulteriori censure delle appellanti riguardano la parte della sentenza gravata che ha affermato – peraltro, in conseguenza della qualificazione della fattispecie oggetto delle (fondate) critiche delle parti appellanti fin qui esaminate – la necessità che la selezione del partner della Fondazione dovesse avvenire mediante una procedura di evidenza pubblica.

L’appellata in proposito, accantonata la questione qualificatoria oggetto delle censure fin qui esaminate, osserva in memoria che “Punto centrale della questione, anche a prescindere dalla riconducibilità del Contratto all’articolo 8 o all’articolo 9 del D. Lgs. 288/2003 e dalla qualificazione giuridica del rapporto come concessione è verificare, avuto riguardo ai contenuti reali del Contratto, se la conclusione dello stesso fosse – o meno – assoggettata al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale e dell’Unione Europea protesi alla tutela della concorrenza. (….), il tema sul quale era ed è incentrata l’impugnativa proposta in primo grado da Technogenetics è stabilire se l’utilitas assegnata alla DiaSorin (lo si ripete, quale che sia la qualificazione giuridica o il nomen che si voglia attribuire al contratto) potesse costituire bene economicamente contendibile sul mercato ed occasione di guadagno tale da imporre lo svolgimento di una procedura tesa ad assicurare il rispetto dei suddetti principi di tutela della concorrenza, trasparenza e imparzialità”.

L’ordinanza cautelare (n. 4270/2020) ha già accennato alla “difficile coniugabilità del principio di concorrenzialità e del relativo corollario dell’evidenza pubblica, con le sperimentazioni e le validazioni condotte dall’IRCS su iniziativa del privato, aventi ad oggetto “invenzioni” suscettibili di tutela brevettuale”.

Ritiene il Collegio che al di là di tale, condivisibile osservazione risulti dirimente la considerazione dell’assenza, sia sul piano strutturale che su quello funzionale, dei presupposti per l’invocazione (e l’applicazione) della normativa proconcorrenziale

La funzione dell’evidenza pubblica è, oltre a quella – contabilistica – di stipulare alle migliori condizioni e di “dare evidenza” al procedimento (il che, nella fattispecie, è avvenuto mediante la pubblicazione del provvedimento) – quella proconcorrenziale, tesa – secondo una felice definizione dottrinale – a creare artificialmente le condizioni di concorrenza in settori e nei confronti di soggetti che naturalmente potrebbero determinarsi alla stipula secondo logiche di segno diverso.

Nella fattispecie un problema di concorrenza non si pone, perché – a differenza del contratto di appalto e della concessione – strutturalmente non vi è una limitazione nella scelta dell’amministrazione ad un solo partner, la ricerca essendo “aperta” (come peraltro, in concreto, risulta pacificamente nel presente giudizio).

Difetta dunque, in ragione della struttura “aperta” del relativo settore di attività, l’obbligo di evidenza pubblica.

Questo dato è confermato da un’analisi non acritica della giurisprudenza in materia: la quale certamente afferma che la non riconducibilità di una procedura ad evidenza pubblica agli schemi tipologici del codice dei contratti pubblici non incide sulla soggezione ai princìpi concorrenziali valevoli per tutte le attività contrattuali della p.a., pur se non soggette a disciplina puntuale di stampo nazionale o di derivazione europea.

Ciò in ossequio ai princìpi del Trattato in tema di tutela della concorrenza valevoli anche al di là dei confini tracciati da direttive specifiche in quanto tesi ad evitare restrizioni ingiustificate e sproporzionate alla regola generale della libertà di competizione (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 10 gennaio 2007, n. 30; 19 maggio 2008, n. 2280: quest’ultima decisione, in particolare, rinviene nell’esigenza “di rispetto della par condicio” fra imprenditori il ricorso ai princìpi del Trattato).

Princìpi analoghi sono affermati nella Comunicazione interpretativa della Commissione relativa al diritto comunitario applicabile alle aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente disciplinate dalle direttive appalti pubblici, pubblicata nella G.U.C.E. C179 del 1° agosto 2006 in tutti i casi in cui un soggetto pubblico decida di individuare un contraente per l’attribuzione di un’utilitas di rilievo economico comunque contendibile fra più operatori del mercato

Nel caso di specie – sia in concreto, che in astratto – difetta l’elemento strutturale della restrizione, e conseguentemente quello funzionale della (esigenza di) garanzia di una contesa: difettano, in altre parole, i presupposti per invocare il diritto europeo della concorrenza.

5.1. Tali conclusioni appaiono obbligate alla luce delle emergenze fattuali acquisite al giudizio.

Per quanto riguarda nello specifico la Fondazione appellante, la società appellata non ha fornito alcun principio di prova per negare quanto dalla stessa Fondazione documentato: vale a dire, il carattere non esclusivo né escludente dell’accordo contestato, e l’apertura alla valutazione di altre analoghe (anche contestuali) proposte di accordo (il che corrisponde, in concreto, alla previsione del richiamato art. 8, comma 4, del d. lgs. n. 288/2003).

La Sezione, in considerazione della delicatezza della materia e del suo rilievo per gli interessi generali della salute pubblica (oltre che del relativo settore economico), si è fatta altresì carico di operare, mediante una documentata relazione delle competenti amministrazioni centrali, una ricognizione delle prassi relative.

Va precisato, anche in relazione alle successive difese della parte appellata, che il valore di tali emergenze ha un rilievo evidentemente non qualificatorio (di competenza della giurisdizione), ma applicativo: nel senso che una corretta applicazione del comando normativo implica, in un settore quale quello della ricerca scientifica (specie a fronte dei tempi imposti dall’emergenza pandemica), una prospettiva di realismo giuridico (oltre che di buon senso) tale da non vanificare la sintesi operata dalla norma fra tensione alla ricerca (e connessa previsione normativa di forme il più possibile incentivanti) e garanzia del rispetto della natura pubblica dell’ente e del suo ruolo istituzionale (quest’ultimo comprendente, evidentemente, anche l’interesse collettivo alla massima evoluzione, nelle forme previste dalla legge, degli sviluppi della ricerca in materia sanitaria).

La verifica di tali prassi, conformi al significato letterale delle richiamate disposizioni e all’esegesi teleologica delle stesse come fin qui individuati, rappresenta evidentemente un riscontro ulteriore, sul piano applicativo, della richiamata costruzione normativa della relazione fra attività di ricerca sanitaria e disciplina dei contratti degli enti pubblici.

L’istruttoria è stata dunque disposta non per qualificare, ma per conoscere: possono certamente esistere prassi contra legem, ma sarebbe quanto meno irrealistico ritenere che lo siano tutte (o meglio, che l’intera, comune prassi applicativa nazionale sia difforme dal parametro normativo).

5.2. Altro elemento che la parte appellata, ricorrente in primo grado, ha utilizzato per sostenere l’esistenza nella fattispecie di un bene contendibile o limitato sono i cc.dd. materials, vale a dire i campioni organici messi a disposizione per sviluppare il prototipo.

In disparte il rilievo che tale messa a disposizione ontologicamente non implica l’insussistenza del prototipo all’atto dell’inizio dell’attività di validazione, ciò appare dirimente nel senso dell’infondatezza della censura della ricorrente in primo grado è che non è stata acquisito un principio di prova del carattere esclusivo di tali campioni, in tesi insufficiente a soddisfare ulteriori ed analoghe richieste di validazione.

5.3. Le vicende, successive, relative all’acquisto da parte della Regione Lombardia dei kit validati (o sviluppati) dalla Fondazione, allegate dall’appellata come conferme della denunciata alterazione della concorrenza, sono in tal senso irrilevanti.

In primo luogo, per la radicale considerazione, in fatto, che DiaSorin ha smentito che oggetto di tale fornitura fossero i test oggetto dell’accordo dedotto in giudizio (bensì altri test, precedentemente valutati in altra sede).

In secondo luogo, perché l’argomento di parte appellata non dimostra che i tempi della validazione (e dello sviluppo) siano conseguenza della sede in cui lo stesso è avvenuto: in altre parole, quand’anche il test DiaSorin validato dalla Fondazione fosse stato realmente commercializzato in tempi brevi, ciò sarebbe dipeso dal fatto che la società appellante in tempi brevi aveva sviluppato il prodotto, e non dal fatto che lo aveva validato (o sviluppato) presso la Fondazione, proprio in ragione del carattere non escludente di tale accordo, che non avrebbe impedito contestuali o addirittura precedenti accordi con altre aziende, in grado di seguire la medesima (o una migliore) tempistica, aventi ad oggetto la stessa attività.

5.3. In sintesi, e in conclusione sul punto, gli esiti del giudizio dimostrano come il profilo centrale della questione fosse stato fondatamente – e con singolare chiarezza – colto alle pagine 7 e 8 della memoria depositata l’11 maggio 2020 da DiaSorin nel giudizio di primo grado: “La verifica, da parte di una struttura sanitaria pubblica, di un prodotto di un’azienda privata destinato alla salute delle persone è vicenda del tutto usuale e non comporta assolutamente nulla di quanto prospettato dalla ricorrente. Che nella verifica del prodotto il laboratorio pubblico possa utilizzare proprie specifiche capacità è del tutto fisiologico e non introduce alcun elemento di contraddizione rispetto a quanto già esposto sopra; non comporta, in particolare, né una violazione dei principi sulla concorrenza, né un beneficio particolare reso a un operatore commerciale”.

Ogni ulteriore riferimento, anche di natura personale, contenuto nel ricorso di primo grado ovvero nelle successive difese della parte appellata, ai contatti fra la Fondazione e DiaSorin (da quest’ultima definito – a pag. 11 della memoria di replica depositata il 28 novembre 2020 – “insinuante affermazione”), non ha avuto ridondanza in vizi apprezzabili nell’ambito dei motivi di ricorso dedotti in giudizio (i quali sono risultati infondati, in fatto e in diritto, per le ragioni sopra rappresentate), e come tale esula dall’ambito del sindacato giurisdizionale di tipo soggettivo sollecitato dal ricorso di primo grado.

6. L’appellata, nei propri scritti difensivi, ha chiesto “di sollevare davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267, paragrafo 1, lett. a), del citato TFUE la seguente questione pregiudiziale: – se possa considerarsi un aiuto di Stato ex art. 107, paragrafo 1, del medesimo Trattato l’attività di collaborazione scientifica svolta da un’amministrazione pubblica in favore esclusivo di una società privata, in assenza di una procedura ad evidenza pubblica, ai fini dello sviluppo o, comunque, dell’ottimizzazione di dispositivi medico-diagnostici in vitro la cui proprietà intellettuale e brevettuale, nonostante l’impiego di risorse pubbliche, rimane nella disponibilità del privato”, lamentando il fatto che “Sia il TAR sia il Consiglio di Stato hanno omesso una pronuncia espressa sul punto”.

La questione non è stata esaminata dal primo giudice perché assorbita, ed è stata riproposta con la memoria depositata il 14 luglio 2020.

A supporto di tale domanda l’appellata deduce che “DiaSorin ha beneficiato, a discapito delle altre concorrenti sul mercato, di un chiaro ausilio collaborativo ai fini dell’ottimizzazione e dello sviluppo dei test poi distribuiti sul mercato. L’alterazione della concorrenza risulta, peraltro, documentata dagli affidamenti diretti che ha conseguito DiaSorin e che Technogenetics già ha documentato”.

Osserva il Collegio, che per la prima volta si trova a delibare tale richiesta, che l’esatta ricostruzione della causa dell’accordo in esame e della sua disciplina consente, in relazione all’estraneità di tale fattispecie alla materia della tutela della concorrenza, di escludere che le prestazioni a carico della Fondazione possano essere in alcun modo qualificate come aiuti di Stato.

L’art. 107, par. 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) definisce gli aiuti di Stato come “aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsano o minacciano di falsare la concorrenza, nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri”.

Nel caso in esame – per le ragioni fin qui esposte – difetta sia il requisito del pericolo (anche solo potenziale) di alterazione della concorrenza, sia il connotato strutturale della misura di favore.

La questione oggetto di rinvio pregiudiziale è pertanto manifestamente infondata: alla luce dello stesso diritto dell’U.E. di cui si invoca l’applicazione.

In quest’ottica il ruolo del giudice nazionale (anche di ultima istanza) implica, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, un filtro valutativo; secondo la giurisprudenza Cilfit, in particolare, la sollecitazione della parte non determina un automatismo nel senso del rinvio (Corte di giustizia, sentenza del 6 ottobre 1982, causa 283/81, Cilfit).

Il principio dell’obbligo flessibile del rinvio pregiudiziale ricavabile da questa giurisprudenza, volto anche a scongiurare un abuso del rimedio, è stato peraltro recentemente ricordato da questa Sezione nella sentenza n. 2428/2020.

Ne consegue che il difetto del presupposto interpretativo della questione sollevata ne impedisce il rinvio alla Corte di Giustizia, trattandosi – come detto – di questione manifestamente infondata alla luce di una corretta qualificazione della fattispecie.

7. I ricorsi in appello sono pertanto fondati e vanno accolti, con il conseguente rigetto – in riforma della sentenza impugnata – del ricorso di primo grado.

Sussistono le condizioni di legge, avuto riguardo alla complessità delle questioni dedotte, per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sui ricorsi in appello riuniti, come in epigrafe proposti, li accoglie, e in riforma della sentenza impugnata rigetta il ricorso di primo grado

Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2020 con l’intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Giulio Veltri, Consigliere

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Giovanni Pescatore, Consigliere

Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giovanni Tulumello Franco Frattini

IL SEGRETARIO

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06/05/2020 n. 2865 - Consiglio di Stato - in sede giurisdizionale (sezione terza)

La previsione relativa alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima.

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9656 del 2019, proposto da
Vivisol S.R.L, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Franco Ferrari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di Ripetta 142;
contro

Innovapuglia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Angelo Clarizia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Principessa Clotilde, 2;
Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marina Altamura, con domicilio eletto presso la Delegazione della Regione Puglia in Roma, via Barberini n. 36;
nei confronti

Asl Br, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pierandrea Piccinni, Maurizio Nunzio Cesare Friolo, con domicilio eletto presso lo studio Barbara Cataldi in Roma, corso Risorgimento 11;
Azienda Sanitaria Locale di Taranto, Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Barletta – Andria – Trani, Azienda Sanitaria Locale di Bari, Azienda Sanitaria Locale di Foggia, Azienda Sanitaria Locale di Lecce non costituiti in giudizio;
per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) n. 01037/2019, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Innovapuglia S.p.A., della di Regione Puglia e della Asl Br;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza del giorno 30 aprile 2020, tenuta nelle forme di cui all’art. 84 del d.l. n. 18/2020, il Cons. Raffaello Sestini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1 – La controversia in esame si inserisce in un più ampio contenzioso riguardante la procedura aperta indetta da Innovapuglia S.p.A., quale soggetto aggregatore della Regione Puglia, per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine per i fabbisogni delle Aziende Sanitarie della medesima Regione. La gara, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (70 punti massimi per la qualità e 30 punti massimi per il prezzo), era articolata in 6 lotti per approvvigionare le 6 ASL della Regione mediante la stipula, da parte di Innovapuglia S.p.A, di 6 convenzioni quadro di durata biennale per l’effettuazione degli ordini da parte delle Aziende Sanitarie interessate

1.1 – Quanto ai contenuti della gara, le prestazioni richieste per ogni lotto comprendevano, in particolare, la fornitura periodica e la consegna di ossigeno terapeutico allo stato liquido in appositi contenitori criogenici, unità base e unità portatile, forniti in comodato d’uso gratuito; la fornitura e la consegna dei materiali di consumo e accessori occorrenti per l’espletamento del servizio; il servizio di assistenza tecnica e di manutenzione ordinaria e straordinaria; la sanificazione periodica dei contenitori criogenici; l’informazione e la formazione dei pazienti e degli assistenti sul corretto utilizzo delle apparecchiature; l’attivazione di un Call Center; l’applicativo informatico per la gestione del paziente e della fornitura di ossigeno comprendente tutti i dati richiesti del flusso informativo mensile obbligatorio nonché il ritiro delle apparecchiature e dell’eventuale materiale residuo.

1.2 – Quanto al prezzo, erano previsti due prezzi unitari a base d’asta, con obbligo di un identico sconto per entrambi: € 1,30/giorno per i servizi riferiti alla dispensazione domiciliare dell’ossigenoterapia; € 1,50/mc -quale prezzo medio stimato tra i prezzi attualmente praticati a livello nazionale, onnicomprensivo dei costi annessi per i materiali di consumo – per l’ossigeno liquido.

2 – Alcune imprese (in particolare, l’appellante Vivisol S.r.l., Medicair Sud S.r.l., Puglia Life S.r.l.) impugnavano davanti al TAR per la Puglia la lex specialis di gara, presentando istanza di decreto inaudita altera parte, per non dover presentare la propria offerta, ma tali istanze venivano rigettate. Anche esse presentavano pertanto offerte: l’odierna appellante Vivisol, in ATI con Medicair Sud, (che proponeva separato ricorso e poi separato appello) Puglia Life (che proponeva, anche essa, separato ricorso e poi separato appello) in ATI con Sapio Life S.r.l. (che interveniva ad adiuvandum in grado di appello).

2.1 – Il TAR rigettava le istanze cautelari e respingeva i tre ricorsi nel merito, con compensazione delle spese di lite tra le parti, con tre separate sentenze tutte impugnate in appello. Quella che definiva il ricorso di Vivisol SRl veniva impugnata con l’appello in epigrafe.

2.2 – Venivano altresì estromessi dalla gara i RTI formati da Sico – Società Italiana Carburo Ossigeno S.p.a. e Domolife S.r.l. per violazione dell’obbligo posto dalla lex specialis di gara di partecipazione nella stessa forma (individuale o associata) e composizione (in caso di RTI). I provvedimenti di esclusione venivano ritenuti legittimi dal TAR, dando atto del vincolo imposto dalla lex specialis di gara, con separate sentenze parimenti appellate dalle imprese interessate e decise da questa Sezione nella medesima udienza.

3 – Nel presente giudizio di appello, in particolare, l’appellante Vivisol, che nel frattempo è risultata aggiudicataria provvisoria per due lotti in ATI con Medicair Sud, da un lato, la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia dall’altro, hanno ampiamente dibattuto mediante un ripetuto scambio di memorie. E’ inoltre intervenuta l’ASL BR. Infine, con memoria del 28 aprile 2020 Innovapuglia, replicando alla memoria di Vivisol del giorno precedente, ha chiesto la pubblicazione anticipata del dispositivo di sentenza ai sensi dell’art. 120, commi 9 e 11, c.p.a.

4 – Ai fini della decisione del giudizio, devono essere preliminarmente decise le dedotte eccezioni concernenti l’ammissibilità e la procedibilità del ricorso, che vengono messe in dubbio dalle parti resistenti (e cioè dalla Regione Puglia e in modo più analitico da Innovapuglia SpA) in ragione della avvenuta partecipazione dell’impresa alla gara e del suo posizionamento in ATI come prima in graduatoria in relazione a due lotti (numero massimo di lotti aggiudicabili al medesimo soggetto secondo le previsioni di gara), per i quali ha altresì già ottenuto l’aggiudicazione provvisoria, di modo che non potrebbe lucrare, anche in caso di accoglimento del gravame, alcuna ulteriore utilità meritevole di tutela in sede giurisdizionale.

4.1 – Le predette eccezioni non possono peraltro essere accolte. Infatti, la presentazione dell’offerta non pregiudica la perduranza dell’interesse a coltivare la lite diretta all’annullamento dell’intera gara (Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/2019, n. 8037), in quanto l’offerta (per quanto irrevocabile) resta comunque destinata ad essere travolta dall’annullamento in toto della gara, richiesto dalla ricorrente. Inoltre, Innovapuglia non ha ancora adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva che avrebbe fatto acquisire all’impresa il diritto di eseguire la prestazione.

5 – Nel merito, secondo l’appellante il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso di primo grado, non avvedendosi che la lex specialis di gara per come formulata non aveva consentito la presentazione di un’offerta ponderata, aveva imposto un prezzo non remunerativo sottoposto ad uno sconto incongruo ed aveva compromesso l’autonomia imprenditoriale delle imprese partecipanti, condizionandole a partecipare per tutti i lotti nella stessa forma e composizione. Come sarà di seguito argomentato, le predette censure non risultano peraltro fondate, dovendo pertanto trovare conferma la decisione negativa già adottata dal TAR nel giudizio di primo grado.

5.1 – Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta.

5.1.1 – La legge di gara avrebbe, infatti, previsto una soglia di sbarramento obiettivamente troppo elevata e quindi irragionevole (con un minimo di 42 punti sui 70 punti massimi attribuibili all’offerta tecnica). Oltretutto, il coefficiente più basso, pari a 0, illogicamente non sarebbe assegnato all’offerta che per il relativo item è stimata insufficiente, ma all’offerta “rispondente ai requisiti senza elementi migliorativi” ovvero all’offerta sufficiente. Si aggiungerebbe l’inafferrabilità dei criteri di valutazione delle offerte, che rimetterebbero alla Commissione giudicatrice un potere di scelta illimitata vietato dall’art. 95 d.lgs. n. 50/2016. Sarebbe quindi stato impossibile fare stime dei comportamenti dei competitors in una logica concorrenziale, e quindi compiere valutazioni appropriate di convenienza economica e tecnica. Non basterebbe in altri termini per chi partecipa vincere, ma vincere nel migliore dei modi.

5.1.2 – La doglianza non è però suffragata da specifiche e puntuali argomentazioni atte a dimostrare da un lato, la irragionevole genericità dei criteri di valutazione, che offrono invece al valutatore una ampia e puntuale scala di valori in relazione alle prestazioni di ogni offerta e, dall’altro, la irragionevolezza della prevista soglia di sbarramento, ovvero che una offerta con un punteggio tecnico inferiore al minimo prestabilito avrebbe comunque potuto assicurare lo svolgimento di un servizio di fornitura compatibile con l’interesse pubblico di tutela del diritto alla salute dei pazienti perseguito dall’Amministrazione. Tale ultima censura, inoltre, nei fatti è smentita dalla stessa circostanza che non solo l’appellante, bensì tutte le imprese concorrenti, hanno superato tale soglia. La sentenza appellata chiarisce altresì che il valore zero corrisponde alle specifiche minime di ogni profilo prestazionale e che, quindi, correttamente non vengono accettati giudizi inferiori a quello corrispondente allo zero perché sotto di esso l’offerta è carente dei requisiti minimi, e quindi da escludere tout court.

In realtà, come ampiamente chiarito dal giudice di prime cure, la disciplina di valutazione delle offerte tecniche non palesa il lamentato carattere arbitrario, in quanto la componente discrezionale del punteggio tecnico è disciplinata e limitata da una griglia di valutazione espressiva del puntuale giudizio tecnico su ogni singolo aspetto qualitativo dell’offerta. I coefficienti valutativi della griglia di valutazione sono a propria volta frutto di una preventiva individuazione dei criteri di valutazione affidata a parametri che definiscono gli aspetti prestazionali in modo specifico e chiaro.

E’ stato quindi consentito agli operatori economici concorrenti di fare le proprie scelte, esercitando la propria libertà e responsabilità d’impresa, ai fini della emersione della migliore offerta nell’ambito di un mercato regolato ma realmente concorrenziale.

5.2 – Con il secondo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n.50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo), 85 e 105 d.lgs. n. 219/2006; violazione del principio del clare loqui; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta per ulteriori profili rispetto a quelli di cui al primo motivo.

5.2.1 – Si deduce, in particolare, l’irragionevolezza e quindi la ingiustizia manifesta di alcuni criteri di valutazione, in violazione della disciplina di riferimento e, più in generale, delle garanzie costituzionali che presidiano al libero esercizio dell’attività d’impresa. Sono contestati, in particolare, i punteggi tabellari relativi alle soluzioni migliorative previsti in relazione ai tempi di consegna e di installazione domiciliare, (0 punti: 12 ore, 1 punto: da 9 ore a 11 ore, 2 punti: da 6 ore a 8 ore, 3 punti: da 3 ore a 5 ore, 5 punti: meno di 3 ore) e di manutenzione straordinaria (0 punti: entro 2 ore, 5 punti: entro 1 ora). Si obietta al riguardo l’impraticabilità di entrambi i punteggi per la diversa estensione del territorio, comunque troppo ampio rispetto ai tempi previsti, da servire e per l’obbligo da capitolato tecnico di verificare preventivamente la presenza dell’assistito presso il domicilio entro le dodici ore solari, con consegne da effettuarsi di mattina o di pomeriggio. Il punteggio quantitativo relativo al numero di automezzi dedicati al servizio, inoltre, sarebbe irragionevole in assenza dell’indicazione del punteggio minimo da assicurare.

5.2.2 – Neppure le censure in esame si rivelano però fondate, Infatti, così come rilevato dal giudice di prime cure, l’abbattimento dei tempi oltre il limite della consegna entro le dodici ore solari viene del tutto ragionevolmente considerato come un indice di maggiore efficienza del servizio e di maggiore prossimità all’utente anche quanto alla verifica delle sue esigenze relative ai tempi e modi di fornitura, che determina correttamente una più favorevole valutazione della relativa offerta. Per quanto concerne poi i tempi di manutenzione straordinaria, esattamente il giudice di prime cure obietta l’infondatezza delle censure sollevate, dipendendo la maggiore rapidità di intervento per ogni singolo lotto in competizione, e quindi per ogni contesto territoriale omogeneo di riferimento relativo ad una ASL, da una migliore organizzazione aziendale della società e, quindi, dalla quantità e disseminazione dei punti di assistenza e degli addetti sul territorio. In particolare, quanto alla valutazione del numero degli automezzi in assenza di alcuna indicazione circa il numero minimo, in mancanza di una diversa applicazione deve ragionevolmente presupporsi, ancora in applicazione di un principio di libertà e quindi di responsabilità d’impresa, che il numero minimo consista semplicemente in un automezzo, soccorrendo ad integrazione il descritto criterio temporale. Analoghe considerazioni valgono per il punteggio qualitativo afferente ai materiali di consumo, visto che il concorrente, in forza del capitolato, deve in ogni caso garantire un certo quantitativo medio annuo per paziente ed inoltre dotare il paziente “senza oneri aggiuntivi” degli ulteriori materiali che siano comunque richiesti dallo specialista pneumologo prescrittore, ma può inoltre lucrare un maggiore punteggio discrezionale (massimo pari a 4 punti), offrendo una migliore qualità, rispetto ai requisiti minimi, dei materiali che deve comunque mettere a disposizione. I criteri in esame, dunque, non sono in astratto irragionevoli, né l’appellante dimostra che ne sia stata fatta una irragionevole applicazione.

5.3 – Con il terzo motivo di ricorso vendono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo) e 85 d.lgs. n. 219/2006; violazione degli artt. 1, co. 796, lett. g), l. n. 206/2006 e 11, co. 6, d.l. n. 78/2010, nonché dell’art. 15 d.l. n. 95/2012.

5.3.1 – Si deduce che il criterio di valutazione dell’offerta tecnica costituito dalle modalità di registrazione della quantità di ossigeno presente nel contenitore al momento della consegna e del ritiro del recipiente sarebbe illogico e confliggerebbe con la normativa in materia, essendo l’ossigeno un farmaco che, in quanto tale, va necessariamente venduto a confezione, non rilevando i residui (non utilizzabili ma da smaltire) del contenitore.

Si contesta inoltre l’obbligo di indicare i prezzi a base d’asta distinti per le prestazioni di servizi e di fornitura (€ 1,30 prezzo/giornata per i servizi; € 1,50 –erroneamente- per mc ossigeno anziché per contenitore) per poi dover effettuare un unico ribasso, con uno sconto unico per prestazioni eterogenee e diversamente remunerate, suscettibile di indurre il concorrente ad effettuare inevitabili compensazioni tra due valori disomogenei tra loro, inficiando la trasparenza della contabilità d’impresa. Inoltre inserire nel prezzo ossigeno liquido anche il costo dei materiali di consumo comporterebbe rimborsi maggiori di quelli in realtà dovuti in base al regime di pay-back, con grave nocumento economico, con introduzione di scenari futuri non dominabili circa la misura della contribuzione dovuta al ripianamento del deficit sanitario.

5.3.2 – Neppure la censura in esame merita accoglimento, in quanto il giudice di prime cure in realtà ha ampiamente chiarito l’appropriatezza della misurazione della quantità di ossigeno fornita in metri cubi, che non incide affatto sulla modalità di fornitura del prodotto ossigeno in contenitori pressurizzati e sulla conseguente contabilizzazione economica, e che risponde invece alla ragionevole esigenza di monitorare i consumi ai fini della verifica della economicità ed efficienza del servizio, posto a carico delle risorse pubbliche, e della puntuale programmazione futura dei relativi fabbisogni, fermo restando il pagamento della fornitura in base ai contenitori consegnati indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati –ed anzi proprio in ragione, secondo il principio di imparzialità e buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione, della circostanza che il pagamento avviene in base alla fornitura dei contenitori indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati.

Per le medesime considerazioni, non irragionevoli risultano sia il contestato obbligo di indicare distintamente i prezzi a base d’asta relativi alle attività di fornitura presso le abitazioni e alle attività di servizio rese agli utenti (necessariamente contabilizzate secondo parametri diversi: prezzo per quantità di prodotto –comprensivo dell’ossigeno e dei connessi materiali di consumo- e prezzo per tempo di lavoro), sia l’ulteriore e contestato obbligo di offrire un unico sconto percentuale dei due prezzi così determinati, in quanto riferiti a prestazioni diverse ma evidentemente connesse, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e conseguente responsabilità d’impresa la formulazione della migliore offerta atta a garantire, con il minor dispendio di risorse pubbliche, il pieno raggiungimento delle finalità d’interesse pubblico generale perseguite dall’Amministrazione.

Conclusivamente, l’appellante non riesce a dimostrare la irragionevolezza dei citati criteri, e neppure riesce a dimostrare, così come acclarato dal giudice di primo grado, che dalla loro pretesa irragionevole applicazione siano derivati un nocumento economico per l’appellante ovvero una alterazione della par condicio in suo danno rispetto agli altri partecipanti, essendo rimessa alla autonomia imprenditoriale dei concorrenti la duplice scelta circa le compensazioni da effettuare e lo sconto unitario da offrire.ai fini della formulazione di un prezzo finale capace di compensare la fornitura, il servizio e gli oneri accessori alla migliori condizioni di un mercato regolato ma realmente concorrenziale, alla stregua dei principi di imparzialità, buon andamento e tutela della salute sanciti dalla Costituzione.

5.4 – Con il quarto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: mancata individuazione come per legge (art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016) a cura della Stazione appaltante dei costi della manodopera; errores in iudicando in punto di: violazione dell’art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016; violazione del principio del clare loqui; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c..; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa.

5.4.1 – Si contesta con tale motivo la lacunosità della lex specialis di gara, che, difformemente da quanto previsto dall’art. 23, co. 16, del codice dei contratti pubblici, non avrebbe individuato i costi della manodopera.

5.4.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la lex specialis deve essere integrata dalla previsione di cui all’art. 95, co. 10, d.lgs. n. 50/2016, sicché comunque compete a ciascun offerente indicare i costi della manodopera, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e responsabilità dell’impresa la valutazione dei costi mediante una analitica previsione e contabilizzazione delle diverse attività lavorative necessarie al fine di garantire la fornitura del servizio di ossigenoterapia in esame nel rispetto degli obblighi normativi di tutela dei lavoratori, dai quali l’impresa non potrà comunque esimersi in sede di esecuzione del contratto. Era quindi il concorrente che doveva stimare i costi delle prestazioni lavorative di vario tipo ritenute necessarie per l’esecuzione del contratto in esame, qualificato dalla stessa stazione appaltante in sede di chiarimenti quale contrato di fornitura con alcuni servizi accessori, prima di predisporre una propria offerta conforme alle previsioni di legge.

5.5 – Con il quinto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost. ; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa per altri profili.

5.5.1 – Le censure in esame fanno riferimento al software che, secondo le previsioni di gara, dovrà essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria ai fini della integrazione della contabilità del servizio di fornitura in esame con il nuovo sistema informativo amministrativo-contabile regionale (MOSS) unico e integrato per tutte le Aziende Sanitarie Locali, trattandosi di un obbligo incerto nei tempi e nella sua quantificazione economco-finanziaria in ragione della mancata conoscenza della futura piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e della correlata integrazione del software che occorrerà mettere a disposizione..

5.5.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la censura non appare né conferente né, in ogni caso, dirimente, in quanto l’adeguamento amministrativo della contabilità dell’offerente alla piattaforma applicativa amministrativo-contabile del committente attiene ai normali oneri di diligenza e buona fede connessi all’esecuzione del contratto. La questione, quindi, concerne gli oneri ragionevolmente prevedibili da ciascuna impresa, nell’ambito delle proprie spese generali e di ammodernamento, per la fase, successiva a quella di gara, di realizzazione delle prestazioni contrattuali per le quali concorre. Ogni impresa deve, quindi, procedere, come d’uso, alla loro stima e quantificazione in sede di offerta avvalendosi, ove disponibili, delle eventuali indicazioni della stazione appaltante che, in questo caso, ha debitamente messo per tempo a disposizione di tutti i concorrenti le relative informazioni, nell’ambito di una esigenza di coordinamento unitario amministrativo-contabile regionale la cui ragionevolezza non può essere revocata in dubbio.

5.6 – Con il sesto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: error in iudicando in punto di violazione e falsa applicazione degli artt. 45 e 48 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale.

5.6.1 – La doglianza in esame è riferita all’art. 2 del disciplinare di gara, il quale prevede che “l’operatore economico che intende partecipare a più lotti è tenuto a presentarsi sempre nella medesima forma (individuale o associata) ed in caso di R.T.I. o Consorzi, sempre con la medesima composizione, pena l’esclusione del soggetto stesso e del concorrente in forma associata cui il soggetto partecipa”, combinandosi con il limite di aggiudicazione a due lotti.

La predetta previsione applicherebbe, quindi, ad una gara per l’affidamento di un contratto plurimo articolato in più lotti da considerare, per costante giurisprudenza, contrattualmente separati, una limitazione prevista invece per garantire l’autonomia e l’indipendenza fra una pluralità di offerte attinenti alla medesima gara. Ciò comporterebbe una indebita e quindi illegittima violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale delle singole imprese, ed in particolare delle piccole imprese, in quanto tali principi postulano, invece, la possibilità per le imprese di partecipare liberamente alle diverse procedure negoziali singolarmente o in ATI con altri operatori, anche al fine di competere con i concorrenti di maggiori dimensioni.

5.6.2 – Neppure la censura in esame risulta fondata. Premette il Collegio che, così come riconosciuto dal giudice di prime cure, la limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima.

In tale quadro, l’ulteriore previsione che le offerte per più lotti messi a gara debbano essere presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione risponde alla ragionevole esigenza d’interesse pubblico generale di garantire, da un lato, la correttezza e genuinità, e quindi la piena concorrenzialità fra loro, delle offerte riferite ad un’unica gara e, dall’altro, la univocità e serietà dell’impegno contrattuale assunto dai partecipanti alla medesima gara in sede di esecuzione dei singoli adempimenti contrattuali riferiti ai diversi lotti, ovvero alle diverse ASL della Regione Puglia, senza poter in ipotesi “triangolare” le responsabilità fra compagini societarie ed associative diverse.

L’unitarietà della gara emerge, così come dedotto dal giudice di prime cure, dalla unicità della Commissione esaminatrice, dall’identità, per tutti i lotti, dei requisiti richiesti dal bando e degli elementi di valutazione dell’offerta tecnica di cui all’allegato 2 al disciplinare, dalla possibilità di produrre un’unica offerta telematica per più lotti, dall’identità, per tutte le Asl, delle modalità di prestazione del servizio e delle prestazioni richieste ed, inoltre, dall’integrazione telematica riferita alla esecuzione di tutti gli adempimenti negoziali conseguenti.

Vengono, a tale ultimo riguardo, in rilievo le stesse deduzioni svolte dall’appellante per il precedente motivo di censura con riferimento al software che deve essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria, quando convengono che la Regione Puglia ha avviato una gara telematica per l’acquisizione di un sistema informativo amministrativo-contabile, unico e integrato per le Aziende Sanitarie Locali, basato su una piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e che ad avvio del suddetto sistema informativo amministrativo- contabile (MOSS), dovrà essere prevista l’integrazione delle gestioni contabili di tutte le aggiudicatarie dei diversi lotti a garanzia di una gestione integrata ed unitaria del servizio di ossigenoterapia svolto in ambito regionale per ciascuna delle diverse ASL.

La limitazione in esame quindi non è illegittima e non pregiudica l’autonomia privata dei concorrenti, trattandosi non di una gara ad oggetto plurimo suddiviso in lotti di diverso contenuto caratterizzati da una propria autonomia – e quindi gestibili in modo diverso dalle imprese aggiudicatarie – bensì di una gara unitaria rivolta alla fornitura di un medesimo servizio in aree territoriali diverse, con conseguente articolazione in lotti – corrispondenti ai diversi soggetti preposti alla tutela della relativa prestazione nei confronti degli utenti finali – che prelude a un sistema di gestione unitario della commessa.

Alla stregua delle pregresse considerazioni risulta, dunque, legittima non solo la limitazione del numero massimo di lotti attribuibili allo stesso partecipante (prescrizione volta a favorire la concorrenza ex art. 51, commi 2 e 3, d.lgs. n. 50/2016), bensì anche il vincolo di partecipazione ai diversi lotti nella stessa forma e composizione, in quanto volto a garantire sia la corretta competizione fra le offerte riferite ai diversi lotti, sia la piena ed univoca responsabilità dei vincitori per l’adempimento delle specifiche obbligazioni nascenti dalla medesima gara in relazione ai diversi lotti.

Tali finalità trovano, pertanto, un ulteriore specifico fondamento, nella fattispecie in esame, nell’esigenza di tutela del diritto alla salute dei pazienti del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 32 Cost. oltrechè nei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività ammnistrativa di cui all’art. 97 Cost. Risultano, inoltre, coerenti con l’invocato principio di libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., che postula un mercato regolato a garanzia del pieno dispiegarsi del principio di libera concorrenza, principio che peraltro trova, in questo caso, specifica tutela proprio nelle regole di gara ora esaminate, e in particolare nel limite di aggiudicazione di due lotti rispetto ai sei messi in gara, trattandosi di regole volte a consentire alle imprese “new comers” di concorrere ad armi pari con gli operatori economici dominanti di uno specifico segmento di mercato, con potenziali evidenti ricadute positive sulla qualità del servizio e sul suo costo posto a carico della comunità.

6 – Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con pubblicazione anticipata del dispositivo come richiesto da Innovapuglia S.p.A., e, per l’effetto, deve trovare conferma l’appellata sentenza di reiezione del TAR. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo, nei rapporti fra l’impresa appellante soccombente , la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia S.p.A., mentre possono essere compensate quanto ai rapporti fra i medesimi soggetti e l’ASL BR, in considerazione del carattere formale delle difese di quest’ultima.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’impresa appellante a rifondere alla Regione Puglia e a Innovapuglia S.p.A. in parti uguali le spese del presente grado di giudizio, che vengono complessivamente liquidate in Euro 10.000,00 (diecimila) oltre IVA, CPA e accessori.

Compensa le spese nei confronti della Asl Br, vista la difesa meramente formale.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Stefania Santoleri, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Raffaello Sestini Franco Frattini

IL SEGRETARIO

bracciante agricolo - violazione ordine di quarantena/isolamento domiciliare - respinto - le misure di salute pubblica sono superiori al diritto al lavoro

30/03/2020 n. 1553 - Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

L’appellante svolge attività di bracciante agricolo; all’appellante è stato notificato il -OMISSIS-ordine del Sindaco di Corigliano di quarantena/isolamento domiciliare fino al 3 aprile 2020, per “violazione della ordinanza n.12 /2020 del Presidente della Regione Calabria”; l’appello, nel censurare il decreto cautelare del Presidente T.A.R. Calabria, sostiene che l’appellante non è positivo al virus, non ha avuto recenti contatti con persone contagiate, lavora in un settore non bloccato dai provvedimenti oggi in vigore, e lamenta il pregiudizio consistente nel non poter lavorare, rischiando, il licenziamento, e nella preclusione ad attendere ad attività di stretta necessità quotidiana. Lamenta di non conoscere, ed in effetti manca in atti il documento citato, per “quale specifica” violazione della ordinanza regionale gli sia stata imposta la quarantena/ isolamento domiciliare”

Considerato che con l’atto di appello, viene sottoposta una questione che può articolarsi almeno in tre profili:

1) l’ammissibilità della impugnazione di un decreto monocratico presidenziale del T.A.R.;

2) l’esistenza di un danno grave ed irreparabile per l’appellante, prevalente su quello, posto a base del decreto sindacale impugnato, di rendere effettiva la rigorosa applicazione delle disposizioni anti-contagio;

3) il “fumus boni juris”, su cui il decreto presidenziale spende una succinta ma precisa motivazione;

Considerato, in ordine alla ammissibilità dell’appello:

– che questo Consiglio di Stato ha ritenuto l’ammissibilità nei soli, limitatissimi, casi in cui l’effetto del decreto presidenziale del T.A.R. produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e che tale “bene della vita” corrisponda ad un diritto costituzionalmente tutelato dell’interessato;

– che nel caso in esame, seppure per il limitato periodo residuo (4 giorni) di efficacia temporale del decreto sindacale impugnato in primo grado, la pretesa dell’appellante è di potersi recare al lavoro, di evitare il rischio di licenziamento, e di recarsi, con le limitazioni in vigore, ad effettuare acquisti di beni di prima necessità;

– che, dunque, la pretesa tocca diritti tutelati dall’ordinamento anche a livello costituzionale, da cui discende l’ammissibilità dell’appello contro il decreto del Presidente del T.A.R. Calabria;

Considerato, in ordine alle condizioni necessarie ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare:

– che occorre verificare la consistenza del “fumus boni juris” cioè la probabilità che la pretesa sia riconosciuta fondata nelle successive fasi del giudizio, ma anche, e contestualmente, che vi sia gravità e irreparabilità del danno lamentato, prevalenti sull’interesse pubblico posto a base degli atti censurati;

– che, quando alla gravità e irreparabilità del danno, non appaiono sussistere le condizioni per un accoglimento dell’appello cautelare, in quanto:

A) I provvedimenti, del Sindaco e del Presidente della Regione Calabria, qui impugnati, sono stati adottati in ottemperanza di criteri e disposizioni, anche legislative, nazionali, e negli ambiti di possibile margine per integrazioni territoriali su scala regionale in rapporto alle assai diverse situazioni del contagio e delle sue prospettive, da Regione a Regione;

B) Il provvedimento regionale e il decreto esecutivo del Sindaco di Corigliano sono stati adottati in giorni caratterizzati dal pericolo concreto e imminente di un trasferimento massivo di persone e di contagi, dalle regioni già gravemente interessate dalla pandemia, a quelle del Mezzogiorno, con la conseguenza che gli atti dei Governatori hanno, ragionevolmente, imposto misure anche ulteriormente restrittive quale prevenzione, tanto che, si auspica, la non massiccia diffusione di Covid-19 al Sud possa scontare positivamente l’effetto di tali misure;

C) In tale quadro, per la prima volta dal dopoguerra, si sono definite ed applicate disposizioni fortemente compressive di diritti anche fondamentali della persona – dal libero movimento, al lavoro, alla privacy – in nome di un valore di ancor più primario e generale rango costituzionale, la salute pubblica, e cioè la salute della generalità dei cittadini, messa in pericolo dalla permanenza di comportamenti individuali (pur pienamente riconosciuti in via ordinaria dall’Ordinamento, ma) potenzialmente tali da diffondere il contagio, secondo le evidenze scientifiche e le tragiche statistiche del periodo;

D) Per queste ragioni, la gravità del danno individuale non può condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo;

E) Le conseguenze dannose per l’appellante non hanno poi il carattere della irreversibilità, giacché nelle disposizioni, statali e regionali, adottate e che verranno adottate a ulteriore completamento e integrazione per fronteggiare il “dopo-pandemia”, ci sono misure di tutela del posto di lavoro (oltre alla cassa integrazione), misure di soccorso emergenziale per esigenze alimentari e di prima necessità (non a caso demandate ai Comuni, e dunque anche a quello di Corigliano), tali da mitigare o comunque non rendere irreversibili, anche nel breve periodo, le conseguenze della doverosa stretta applicazione delle norme di restrizione anti-contagio;

F) Il periodo di “quarantena” terminerà, per l’appellante, tra quattro giorni, e sarà possibile, nelle successive sedi di giudizio, volte all’esame dei profili di merito del ricorso, in caso di fondatezza del medesimo, richiedere e documentare, come di regola, un eventuale risarcimento del danno per la mancata retribuzione da lavoro per i giorni coperti dall’ordine di quarantena contestato, salvo che, come è ipotizzabile, detto pregiudizio economico venga riparato dalla normativa di tutela dei lavoratori colpiti dalle generali, e individuali in questo caso, misure di preclusione assoluta;

G) Le considerazioni sopra svolte esimono questo giudice dall’esaminare, nella presente sede di delibazione sommaria, profili di merito delle censure proposte, su cui certamente si soffermeranno in primo e secondo grado i Collegi che decideranno la controversia;

P.Q.M.

Dichiara ammissibile, e respinge l’istanza cautelare.

Il presente decreto sarà eseguito dall’Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante.

Così deciso in Roma il giorno 30 marzo 2020.

Il Presidente
Franco Frattini

IL SEGRETARIO

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.