La sentenza impugnata, a differenza di quanto reputato dalla ASL ricorrente, ha fornito una spiegazione piuttosto puntuale delle ragioni a fondamento della liquidazione del danno da perdita della genitorialità, illustrando, dapprima, la differenza intercorrente tra il danno consistente nella perdita del frutto del concepimento e il danno conseguente alla perdita del figlio, quindi, fornendo ampia giustificazione del parametro liquidativo utilizzato; segnatamente, la Corte territoriale ha ritenuto che, “trattandosi di perdita di una speranza di vita e non di una vita”, le tabelle milanesi non fossero “direttamente” utilizzabili, perchè elaborate per la perdita della persona viva, con cui, prima dell’illecito si era instaurato un rapporto affettivo, ma valessero come criterio orientativo per la liquidazione equitativa del danno da perdita al frutto del concepimento subito tanto dalla madre quanto dal padre. In linea con quanto statuito da questa Corte nella pronuncia n. 12717/2015, che ha equiparato la perdita del feto nato morto alla perdita del figlio, ma con dei correttivi, dovendosi considerare che per il figlio nato morto è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale, ma non una relazione affettiva concreta, il giudice a quo ha ritenuto di parametrare la liquidazione nel caso concreto sui valori tabellari massimi relativi alla perdita di un figlio di giovane età, operando una riduzione del 50% perché il figlio era nato morto.
paziente allergica agli antibiotici e morte per infezione
25/08/2020 n. 17696 - Sezione Terza
Ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione. Ciò sul presupposto che nelle obbligazioni di diligenza professionale sanitaria il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione, cioè il perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore, ma del diritto alla salute, che è l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato (così, da ultimo, le sentenze 11 novembre 2019, n. 28991 e n. 28992, in linea con la sentenza 26 luglio 2017, n. 18392).
distrazione somme intramoenia: relazione tra giudizio contabile e civile
05/08/2020 n. 16722 - sezioni unite (ud. 09/06/2020, dep. 05/08/2020)
Nel giudizio contabile, invero, il Procuratore generale della Corte dei conti agisce quale pubblico ministero portatore di obiettivi interessi di giustizia nell’esercizio di una funzione neutrale, rivolta alla repressione dei danni erariali conseguenti ad illeciti amministrativi, rappresentando un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali ed indifferenziati, non l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure convergenti con il primo (Corte Cost. n. 104 del 1989, n. 1 del 2007, n. 291 del 2008).
Tale azione, a carattere necessario, non potrebbe mai essere condizionata, in senso positivo o negativo, dalle singole amministrazioni danneggiate (Cass., sez. un., 18/12/2014, n. 26659; Cass. Sez.Un. 19/2/2019, n. 4883), le quali ben possono promuovere dinanzi al giudice ordinario l’azione civilistica di responsabilità a titolo risarcitorio, facendo valere il proprio interesse particolare e concreto (Cass. Sez.Un. 10/9/2013, n. 20701), non essendo neppure in astratto ipotizzabile che detti soggetti non possano agire in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti e interessi (artt. 3 e 24 Cost.), tanto più in mancanza di specifiche norme derogatorie.
nullità contratto preliminare cessione farmacia. condizioni di incompatibilità
28/07/2020 n. 16050 - Cassazione civile sez. II
La disposizione della L. n. 475 del 1968, art. 12, che consente il trasferimento della farmacia solo a favore di persona dotata di particolari requisiti, non impedisce la stipulazione di un contratto preliminare di compravendita della farmacia condizionato alla futura acquisizione dei requisiti di legge da parte del promittente acquirente o di un terzo a favore del quale il contratto preliminare sia destinato a operare e che lo stipulante si riservi di indicare (Cassazione civile sez. III, 01/04/2014, n. 7525; Cassazione civile sez. II, 21/06/1995, n. 7026; Cassazione civile sez. II, 22/10/2015, n. 21523).
giudice competente in caso di modifica delle condizioni di separazione
20/07/20 n. 15421 - SEZIONE VI
Il Tribunale di Sondrio ha declinato la propria competenza in relazione alla causa avente ad oggetto la revisione delle condizioni relative all’affidamento e mantenimento dei figli minori, contenute nella pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio intercorso tra XXXX e YYYY. Ha ritenuto il Tribunale la competenza del Tribunale di Cassino ove era stato pronunciato il divorzio e l’obbligazione messa in discussione era sorta, precisando che il convenuto risiedeva a Minturno.
La signora YYYY ha proposto ricorso per regolamento di competenza indicando in Sondrio il foro competente in quanto luogo di residenza abituale dei minori.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha individuato in Sondrio il foro competente in primo luogo perché coincidente con la residenza abituale dei minori ed in secondo luogo perché luogo ove l’obbligazione doveva essere eseguita.
Il Collegio condivide le conclusioni del Procuratore Generale in quanto coerenti con il costante orientamento della Corte, saldamente ancorato sulle regole del diritto Eurounitario (Reg. CE n. 2201 del 2003), del diritto internazionale convenzionale e ribadite nel nostro ordinamento positivo con l’art. 709 ter c.p.c. in tema di conseguenze dell’inadempimento degli obblighi relative all’esercizio della responsabilità genitoriale. Le controversie che hanno ad oggetto l’affidamento e il mantenimento dei minori ancorché contenute in una pronuncia di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio devono essere radicate nel luogo di residenza abituale dei minori. (Cass.25636 del 2016; 27153 del 2017). La L. n. 898 del 1970 non contiene un indicatore esplicito ma il principio espresso dal citato art. 709 ter c.p.c., alla luce dell’ampio quadro di fonti delineato e in sintonia con il preminente interesse del minore, deve ritenersi esteso anche alle determinazioni sui figli minori conseguenti il divorzio, essendo identico l’oggetto delle controversie ex art. 709 ter c.p.c. e quelle riguardanti la modifica delle determinazioni relative all’affidamento e mantenimento minori, in quanto entrambe relative alla regolazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale.
Ritiene, pertanto, il Collegio di doversi discostare dall’ordinanza n. 8016 del 2013 su cui fonda la declinatoria di competenza il Tribunale di Sondrio dal momento che la Corte in questa pronuncia non ha potuto tenere conto (perchè ratione temporis non ancora applicabile) del nuovo regime giuridico derivante dalla riforma della filiazione introdotta dalla L. n. 219 del 2012 e dal D.Lgs. n. 154 del 2013, tutto rivolto ad eliminare ogni ingiustificata disparità di trattamento sostanziale e processuale nel sistema di protezione giuridica dei minori ed in particolare in ordine alla titolarità ed esercizio della responsabilità genitoriale, come si può agevolmente desumere dalla stessa intitolazione del capo II del Titolo IX del Libro I (Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio) che afferma in modo espresso l’uniformità di regolazione giuridica della responsabilità genitoriale in sede separativa, divorzile ed in relazione ai figli nati fuori dal matrimonio. Il principio è infine rafforzato dall’art. 337 quinquies c.c., il quale prevede in via generale il diritto di richiedere la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo. Non incide sulla correttezza del principio affermato la L. n. 898 del 1970, art. 12 quater che si limita ad introdurre un foro concorrente (quello del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione) ma non esclude l’applicazione di quello individuato dalla ricorrente nella residenza abituale dei minori.
In conclusione il ricorso deve essere accolto, dichiarata la competenza per territorio del Tribunale di Sondrio cui va rimesso il giudizio e la statuizione sulle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso dichiara la competenza del Tribunale di Sondrio cui rimette la causa anche per le spese del presente procedimento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 febbraio 2020.
Depositato in cancelleria il 20 luglio 2020
nascita indesiderata - e' la donna a dover dimostrare che se correttamente informata avrebbe abortito
10/06/2020 n. 11123 - SEZIONE TERZA
In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale”. Diversa questione, concernente la valutazione della prova: in tal caso infatti la portata della sentenza risolutiva del contrasto giurisprudenziale, evidenzia la necessità del ricorso alla prova logica -dovendo indagarsi ora per allora un “fatto psichico” qual è la intenzione volitiva-, escludendo chiaramente che la fattispecie normativa introduca una sorta di “relevatio ab onere probandi” introducendo schemi di accertamento legale dei fatti, atteso che “il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza, nonchè della sua conforme volontà di ricorrervi ” (ibidem, in motivazione, pag. 10), rendendosi comunque necessaria la raccolta di plurimi e distinti elementi fattuali (senza carattere di esaustività: richiesta da parte della donna di esami specifici intesi ad escludere malformazioni; preesistenza di precarie od alterate condizioni di salute psicofisica della donna; condotte da questa tenute in occasione di precedenti gravidanze; pregresse manifestazioni di propositi abortivi in caso di malformazioni fetali; ecc.) indispensabili per poter risalire induttivamente alla prova presuntiva semplice.
consenso informato in intervento correttamente eseguito ma con esiti meno ottimistici del prospettato- la prova che se correttamente informato non si sarebbe sottoposto all'intervento spetta al paziente.
26/05/2020 n. 9887 - Corte di Cassazione, sez. III Civile
Con sentenza in data 27. 6.2018 n. 3166 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto da E.E.M.A. , e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la pretesa risarcitoria avanzata dal predetto nei confronti di Istituto Clinico Humanitas Mirasole s.p.a. e del medico S.D. il quale aveva raccolto il consenso informato dell’E.E. , affetto da “pseudoartrosi post traumatica dello scafoide con impotenza funzionale del polso destro su base algica”, prospettandogli la soluzione dell’intervento chirurgico di “emicarpectomia prossimale del polso” che avrebbe garantito un possibile miglioramento dell’articolazione e della sintomatologia dolorosa, la preservazione dal processo degenerativo con il rischio -accettato dal paziente- della perdita del 30% di funzionalità dell’articolazione del polso.
Il Giudice di appello ha rilevato che all’intervento chirurgico, eseguito correttamente senza errori tecnici, ed al trattamento post-operatorio conforme ai protocolli, era purtroppo seguita accanto ad una riduzione della algia anche una perdita complessiva della funzionalità del polso di circa il 68-70%, ma che la doglianza del danneggiato, volta a contestare la inesattezza della informazione sui rischi e l’invalido consenso prestato quale presupposto della richiesta risarcitoria, non aveva fondamento in quanto i CC.TT.UU. aveva accertato che il paziente, prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di circa 33 pari ad 1/3 (valutato come 12-13% grado di IP) e che dopo l’intervento chirurgico la riduzione di funzionalità era pari a circa il 6768%, cioè di quasi a 2/3 (valutato come 17-18% grado di IP), sicché l’incremento corrispondeva a poco più della riduzione di funzionalità prospettata dal medico in sede di acquisizione del consenso informato (34% invece che 30%), non potendo convenirsi con l’assunto del danneggiato secondo cui il sanitario avrebbe fatto riferimento alla riduzione massima in assoluto e non alla riduzione ulteriore -rispetto al preesistente stato invalidante-, in quanto si sarebbe pervenuti al paradosso che il rischio, ove verificatosi, avrebbe prodotto addirittura un miglioramento dello stato pregresso.
La sentenza di appello, notificata in data 28.6.2018, è stata ritualmente impugnata per cassazione da E.E.M.A. con ricorso affidato a quattro motivi ai quali resistono con un unico controricorso l’Istituto di cura ed il medico.
Ragioni della decisione
Primo motivo: violazione art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su motivo di gravame;
Secondo motivo: violazione degli artt. 13 e 32 Cost.;
I motivi, formulati in via di subordinazione alternativa (ove non si ravvisi il vizio di omessa pronuncia, allora la pronuncia deve intendersi viziata per “error juris”) sono scarsamente comprensibili e difettano del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 e 4.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello, nell’esaminare il secondo motivo di gravame, non avrebbe deciso in ordine alla critica mossa alla decisione di primo grado relativa alla mancanza di “esaustività” del consenso informato.
In subordine deduce che l’avere il Giudice territoriale negato rilevanza all’errore commesso dal medico nel dare una informazione eccessivamente ottimistica, determinerebbe una violazione del diritto ad ottenere il ristoro per il danno conseguente alla violazione del diritto alla autodeterminazione.
Dalla lettura del secondo motivo di appello, interamente trascritto a pag. 1314 del ricorso, risulta che l’appellante, dopo avere premesso di essersi recato il 9.8.2010 presso l’Istituto sanitario ed aver ricevuto assicurazioni, dal medico Dott. S. , che la patologia di cui era affetto dal 2004 (inveterata psedudoartrosi post traumatica dello scafoide, con riduzione dell’articolazione del polso dx pari ad 1/3 della mobilità complessiva: patologia a decorso ingravescente a causa dei processi degenerativi osteocartilaginei) avrebbe potuto ottenere benefici qualora si fosse sottoposto all’intervento di “emicarpectomia prossimale polso”, lamentava che il medico gli aveva prospettato una soluzione migliorativa eccessivamente ottimistica, atteso che l’esito dell’intervento non era stato quello sperato, essendo stato indotto il paziente a credere in un diverso risultato, più favorevole: la visita del medico, pertanto, era stata “errata, oltremodo ottimistica, e non adeguatamente spiegata” e la informazione era stata lacunosa ed errata ed ha fornito una prospettiva in termini di efficacia eccessivamente ottimistica per il caso specifico”. In relazione a ciò doveva ritenersi accertata la violazione del diritto alla autodeterminazione del paziente, essendo invalido il consenso prestato, in quanto bene avrebbe potuto lo stesso: 1- preferire di subire il progressivo inevitabile peggioramento della patologia piuttosto che incorrere nel rischio poi verificatosi di una ulteriore riduzione della mobilità; 2- scegliere di differire il tempo dell’intervento; 3- rivolgersi ad altro sanitario.
Il primo motivo è infondato.
La Corte d’appello ha, infatti, preso in esame il secondo motivo di gravame individuando correttamente quale parametro di valutazione la “comunicazione” sottoscritta dal medico in data 9.8.2010 (anno erroneamente indicato in sentenza nel 2012) evidenziando come dalla stessa emergessero plurimi scopi affidati all’intervento, tra i quali anche la diminuzione della sintomatologia algica ed il contrasto alla progressione degenerativa della patologia, obiettivi questi raggiunti a seguito della operazione chirurgica. Il Giudice territoriale ha quindi definito il thema controversum relativo al contenuto informativo, individuandolo nell’errore -prospettato dall’appellante- commesso dal medico nella determinazione della percentuale di rischio di insuccesso, errore che -con accertamento in fatto- ha escluso, ritenendo che la rappresentazione di un possibile peggioramento della mobilità del 30% era da considerarsi adeguata e non imprudentemente sottostimata, atteso che l’ulteriore aggravamento non poteva che intendersi riferita alla preesistente condizione invalidante dell’E.E. , diversamente opinando non vi sarebbe stato alcun rischio peggiorativo, venendo sostanzialmente a coincidere la riduzione di mobilità del 30% con il difetto di mobilità del polso pari ad 1/3 che già affliggeva il paziente.
Nel secondo motivo di gravame, non è dato individuare altri ambiti di indagine pretermessi dalla Corte d’appello, laddove ad una generica doglianza dell’”eccessivo ottimismo” manifestato dal medico (espressione mutuata peraltro dalle valutazioni espresse dai CC.TT.UU. nominati in primo grado) non viene fatto seguito – ad eccezione della questione interpretativa sulla percentuale di rischio di un esito peggiorativo in termini di mobilità del polso ad altri specifici e puntuali elementi di critica alla sentenza di prime cure per la ritenuta esclusione di un inadempimento colpevole all’obbligo informativo da parte del medico, diffondendosi l’appellante sulla individuazione delle scelte a cui aveva dovuto ingiustamente rinunciare, a causa dell’asserito inadempimento del medico, sottoponendosi ad un trattamento non supportato da idoneo consenso.
Se dunque non è dato ravvisare alcuna omissione di pronuncia della Corte territoriale in merito al secondo motivo di gravame, osserva il Collegio che la censura subordinata di vizio inerente l’attività di giudizio non è assistita dai requisiti minimi di ammissibilità.
I principi di diritto enucleati in materia di consenso infornato da questa Corte (da ultimo cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 9996 del 10/04/2019) possono così riassumersi:
– in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2 e 13 COst., e art. 32 Cost., comma 2.
– la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell’ipotesi di omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l’accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria – le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
Orbene tra gli elementi costitutivi della fattispecie del diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto alla autoderminazione cagionata dalla inesatta od incompleta informazione del medico volta ad acquisire la -valida e consapevole- manifestazione di consenso del paziente, non può prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata certamente diversa, ossia che avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico: ed infatti “la omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito -e l’esito infausto non si sarebbe verificato- non essendo stato voluto dal paziente. La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati….” (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, in motivazione).
Ed indipendentemente, pertanto, da eventuali ulteriori profili di incompletezza della informazione (non sarebbe stato accertato il grado di invalidità preesistente e quindi il paziente non poteva valutare la “differenza” peggiorativa in caso di verificazione del rischio prospettato; non era stato specificato che l’intervento “non era risolutivo ma era demolitivo”) indicati nel motivo di ricorso per cassazione – ma dei quali peraltro non risulta nè viene allegato dal ricorrente che fossero stati dedotti nei gradi di merito – appare evidente come la censura in esame risulti priva dei connotati della specificità, non avendo il ricorrente neppure indicate se e quali prove fossero state richieste di acquisire o raccolte nei precedenti gradi di giudizio dirette ad accertare – mediante giudizio controfattuale “ora per allora” – che egli, qualora avesse inteso che il rischio di insuccesso avrebbe potuto produrre una ulteriore limitazione di mobilità, pur riducendo la sintomatologia algica ed impedendo l’evoluzione del fenomeno degenerativo osteoarticolare, avrebbe sicuramente rifiutato di sottoporsi all’intervento di emicarpectomia prossimale.
In difetto di tale indicazione la censura risulta carente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e non supera il vaglio di ammissibilità.
Terzo motivo: violazione art. 112 c.p.c. nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Assume il ricorrente che il danno lamentato non riguardava l’errata esecuzione dell’intervento chirurgico nè quello derivato dalla riduzione della funzionalità del polso conseguitone, bensì si incentrava esclusivamente nel danno derivato dalla violazione del diritto alla autodeterminazione per la insufficiente informazione.
Il motivo è del tutto inconferente oltre che scarsamente intelligibile.
Il motivo è inconferente perché la Corte d’appello ha individuato correttamente l’oggetto della controversia nella dedotta violazione dell’obbligo di fornire una informazione corretta, ritenuta errata secondo il danneggiato con riferimento alla entità del rischio derivante dalla pur corretta esecuzione dell’intervento. Esclusa la decettività della informazione, e ritenuto non infirmato il consenso prestato dal paziente, la Corte d’appello alcuna ulteriore indagine era tenuto a svolgere in ordine ai pregiudizi subiti dal paziente in conseguenza dell’impedimento ad effettuare scelte alternative rispetto a quella di sottoporsi alla esecuzione dell’intervento.
Il motivo non appare chiaramente identificabile nella critica svolta alla sentenza di appello in quanto nella esposizione:
a) si viene a confondere “danno e lesione del diritto” nonché violazione del diritto di autodeterminazione con violazione del diritto alla salute: altro è infatti la condotta violativa del diritto alla autodeterminazione, altro la violazione del diritto alla salute; altro ancora i diversi danni-conseguenza che derivano dalla violazione dei due diritti. La sovrapposizione dei diversi piani operata dal ricorrente appare del tutto evidente laddove nel trascrivere il motivo di appello si ascrive alla categoria unitaria “…danni/lesioni…” le conseguenze derivate dalla inesatta informazione, identificandole nei danni-conseguenza “morali e biologici” correlati invece alla esecuzione dell’intervento (sofferenza psichica patita in ragione dell’intervento e della successiva convalescenza; pregiudizio subito per l’attività chirurgica demolitoria che ha ulteriormente ridotto la funzionalità del polso), od ancora laddove si qualifica erroneamente come danno-conseguenza la “contrazione della libertà di disporre” che individua invece l’”evento-lesivo” del diritto alla autodeterminazione;
b) non è dato in ogni caso individuare in quale omissione di pronuncia sia incorsa la Corte d’appello, che ha esaminato proprio la questione della corretta informazione, sostenendo che il rischio comunicato dal medico ed accettato dal paziente corrispondeva a quello poi verificatosi.
Quarto motivo: omesso esame fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorrente impugna la sentenza di appello, sostenendo che non erano stati affatto considerati “fatti decisivi” che venivano indicati nella assicurazione data dal medico, nella comunicazione del 9.8.2010, che tra gli scopi dell’intervento vi era quello anche del “miglioramento dell’articolarità attualmente molto limitata”: secondo il ricorrente tale scopo era incompatibile con la indicazione del rischio di un peggioramento del deficit iniziale, sicché la possibilità della perdita della funzionalità del 30% doveva considerarsi “in termini assoluti” e non come eventuale rischio di “incremento” della invalidità preesistente i CC.TT.UU. avevano riferito che la previsione di miglioramento formulata dal medico era stata “assolutamente ottimistica” e dunque non era corretta ed aveva ingenerato convincimenti erronei nel paziente.
Il motivo è inammissibile, in quanto, da un lato, viene fatto riferimento al contenuto di un documento (comunicazione 9.8.2010) che il Giudice di appello ha esaminato e valutato, sicché la critica trascende i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, venendo ad impingere sulla attività valutativa di merito delle risultanze istruttorie, non sindacabile in sede di legittimità (la Corte territoriale ha valutato il contenuto informativo della comunicazione ed ha ritenuto in base al proprio convincimento che la indicazione di un rischio di insuccesso quantificato percentualmente in termini di ulteriore invalidità, era idonea a consentire al paziente una adeguata ponderazione nella scelta).
Dall’altro lato non potendo confondersi quello che è un giudizio valutativo degli ausiliari con un “fatto storico”, tanto meno “decisivo”, che soltanto può veicolare il motivo di ricorso per “errore di fatto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dovendo intendersi per “fatto” esclusivamente un accadimento in senso storico-naturalistico.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte soccombente va condannata ala rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di E.E.M.A. riportati nella sentenza.
danno da errato ed insufficiente consenso informato - cartella clinica imperfetta
26/05/2020 n. 9662 - Cassazione civile sez. III,
Nel 2004 Omissis convenne in giudizio il medico E.S. e l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della non diligente esecuzione della prestazione medica fornita dall’ Omissis. in occasione degli interventi chirurgici effettuati il (OMISSIS) e il (OMISSIS) deducendo la negligenza e l’imperizia del predetto medico, il mancato consenso agli interventi effettuati, l’errata scelta terapeutica; l’incompletezza e la parziale erroneità dei dati contenuti nella cartella clinica.
A fondamento della proposta domanda, l’attrice espose che: 1) in data (OMISSIS), a seguito di una paresi facciale destra e ipoacusia dell’orecchio destro, si era sottoposta ad una – risonanza magnetica cerebrale (effettuata presso la Casa di Cura (OMISSIS)) che aveva evidenziato la presenza di neurinomi multipli ad entrambi i nervi acustici (VIII nervo destro e VIII nervo sinistro) nonchè al nervo facciale (VII nervo destro); 2) aveva, quindi, preso contatti con il Prof. E., primario del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” di Roma, per sottoporsi agli interventi di asportazione di tali tumori intracranici; 3) in data (OMISSIS) si era sottoposta al primo intervento con il quale era stato asportato il neurinoma posto nell’angolo ponto-cerebellare destro; 4) nel registro di sala operatoria era stato erroneamente annotato: “Neurinoma dell’angolo ponto-cerebellare sinistro. Atto operatorio: craniectomia suboccipitale sinistra. Rimozione”; 5) all’esito dell’intervento si era avveduta del fatto che nel corso dell’operazione le era stato prelevato dalla gamba sinistra un tratto di nervo surale in vista di un trapianto di nervo poi non effettuato; 6) prima di essere dimessa, aveva concordato con l’ E. che il successivo intervento avrebbe riguardato il neurinoma posto sul settimo nervo facciale destro, causa della paresi del lato destro del volto; 7) contrariamente a quanto concordato, l’intervento avvenuto in data (OMISSIS) aveva avuto ad oggetto l’asportazione del neurinoma dell’VIII nervo cranico, nell’angolo ponto-cerebellare sinistro e tale intervento – per il quale non era stato acquisito previamente alcun consenso da parte della paziente – aveva cagionato la definitiva e totale lesione del nervo acustico, la compromissione del nervo facciale e la conseguente anacusia e paralisi facciale bilaterale, con gravissimo danno estetico e funzionale.
Sostenne, altresì, l’attrice che tali danni le avevano comportato una grave prostrazione psicologica, tale da costringerla ad interventi psicoterapeutici.
Rappresentò, inoltre, la B. che successivamente si era sottoposta presso la Casa di Cura (OMISSIS) a due ulteriori interventi chirurgici, con i quali era stato asportato il neurinoma del VII nervo facciale destro ed effettuati due successivi trapianti di nervo, grazie ai quali aveva recuperato parzialmente la preesistente paralisi facciale destra.
Dedusse, infine, l’attrice che, a seguito di quanto accaduto in data (OMISSIS), aveva sporto querela nei confronti del Prof. E., il quale, all’esito del giudizio penale di primo grado, era stato riconosciuto colpevole del reato di lesioni colpose gravissime e condannato alla pena di tre mesi di reclusione, nonchè al risarcimento di tutti i danni cagionati alla B., da liquidarsi in separato giudizio; tali statuizioni erano state confermate, quanto agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza relativi agli interessi civili, dalla Corte di appello di Roma con sentenza del 23 maggio 2006, che aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto al Prof. E..
Si costituì l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)”, la quale, in via preliminare, eccepì l’avvenuta prescrizione delle pretese dell’attrice; nel merito, evidenziò che la paziente aveva concordato con il Prof. E. un complesso piano terapeutico che prevedeva un primo intervento per rimuovere il neurinoma che interessava il nervo acustico destro, un successivo intervento volto all’asportazione del neurinoma dell’angolo ponto-cerebellare sinistro ed infine un ultimo intervento sul tumore in fossa cranica media; tale piano, nella sua interezza, era stato approvato per iscritto dalla paziente; le condizioni della paziente si erano mostrate gravi fin dal primo momento, essendo la stessa affetta da una patologia che poteva avere effetti letali; le lesioni riportate a seguito del secondo intervento erano proprie della patologia sofferta e, pertanto, nel caso di specie, le stesse non avrebbero potuto ritenersi conseguenza diretta di un presunto errore chirurgico. La convenuta concluse, quindi, per il rigetto della domanda e, in subordine, chiese la chiamata in causa, in manleva, dell’Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., in virtù di polizza assicurativa precedentemente stipulata.
Si costituì l’Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., la quale eccepì la non operatività della garanzia assicurativa per l’avvenuto decorso del periodo di copertura; in subordine, chiese la condanna a manlevare l’Azienda sanitaria nei limiti del dettato del contratto nel suo complesso e di massimale e, comunque, entro la propria quota di coassicurazione; nel merito, chiese il rigetto della domanda dell’attrice perchè prescritta, oltre che infondata e non provata.
Si costituì tardivamente E.S. respingendo ogni ipotesi di colpa o censura in ordine all’esecuzione degli interventi chirurgici da lui effettuati, senza i quali, a suo avviso, l’esito della malattia sarebbe stato fatale, per l’attrice; chiese, in subordine, di essere manlevato dall’Assitalia, deducendo l’inefficacia e/o nullità della clausola posta dalla compagnia a fondamento dell’eccepita non operatività della garanzia assicurativa.
Con sentenza n. 1673/2011, il Tribunale di Roma condannò l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS) e E.S. al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 583.691,21, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo, nonchè a rifondere alla B. le spese di causa; rigettò la domanda di garanzia proposta nei confronti dell’Assitalia e compensò le spese tra le parti riguardo ai rapporti di garanzia.
Avverso la sentenza di primo grado E.S. propose appello chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto della domanda proposta da B.R. e, in subordine, che l’Assitalia fosse dichiarata tenuta alla manleva. B.R., nel costituirsi in secondo grado, chiese il rigetto dell’impugnazione e, in via incidentale, la declaratoria di responsabilità del medico e dell’ospedale anche in relazione all’intervento del (OMISSIS), con ogni conseguenza in relazione al risarcimento dei danni ulteriori.
Si costituì anche l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)”, chiedendo il rigetto della domanda proposta dalla B. ed eccependo la prescrizione del diritto della stessa; chiese, in via incidentale, dichiararsi l’obbligo dell’INA Assitalia S.p.a. alla manleva.
Si costituì anche la Generali Business Solutions S.C.p.a. mandataria e rappresentante della INA Assitalia S.p.a., che aderì all’appello del Dott. E., tranne che con riferimento alla garanzia, in ordine alla quale chiese la conferma della statuizione di rigetto del Tribunale.
La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1229/2017, pubblicata il 23 febbraio 2017, rigettò l’appello principale e gli appelli incidentali e regolò le spese tra le parti.
Avverso la sentenza della Corte territoriale l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” ha proposto ricorso per cassazione, basato su quattro motivi e illustrato da memoria.
Hanno resistito, con distinti controricorsi, B.R. e Generali Italia S.p.a. (già INA Assitalia S.p.a.).
La B. ha proposto, a sua volta, avverso la medesima sentenza della Corte di merito, ricorso, basato su due motivi, cui hanno resistito, con controricorso, Generali Italia S.p.a. (già INA Assitalia S.p.a.) e, con controricorso contenente ricorso incidentale, articolato su quattro motivi, l’Azienda Ospedaliera. A tale ricorso incidentale ha resistito con controricorso la B..
E.S. e Generali Business Solutions s.c.ap. non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
L’Azienda Ospedaliera e Generali Italia S.p.a. hanno depositato memorie.
Generali Italia S.p.a. ha pure depositato due elenchi di documenti notificati ai sensi dell’art. 372 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve e lungo) di impugnazione in astratto operativi (Cass. 20/03/2015, n. 5695, 28/0372018, n. 7640).
Nel caso all’esame risulta notificato per primo (in data 18 maggio 2017) e, quindi, costituisce ricorso principale, il ricorso proposto da B.R., ancorchè lo stesso risulta depositato in data successiva (7 giugno 2017), rispetto a quella di deposito (6 giugno 2017) del ricorso proposto dall’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e notificato a mezzo pec in data 19 maggio 2017, con ricevute di accettazione e di avvenuta consegna generate pochi minuti dopo le 21 del predetto giorno.
A tal proposito va precisato che il ricorso della predetta Azienda è tempestivo, in quanto a seguito della sentenza n. 75 del 2019 della Corte costituzionale, il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012, inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 114 del 2014, è stato dichiarato illegittimo (in “applicazione della regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione”) nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta (Cass., ord., 18/10/2019, n. 26648; Cass. 11/11/2019, n. 28988).
2. Va precisato che i quattro motivi del ricorso appena richiamato dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e i quattro motivi del ricorso incidentale di detta parte sono perfettamente identici, come rappresentato espressamente dalla medesima struttura sanitaria, che ha precisato di aver provveduto a tanto nel timore che la notificazione del ricorso potesse ritenersi tardiva, ai sensi dell’art. 16-septies del D.L. n. 179 del 2012, norma successivamente, come già detto, dichiarata incostituzionale nei termini sopra precisati.
3. Con il primo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e degli artt. 1223 c.c. e segg. e art. 2043 c.c., nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”, la struttura sanitaria ricorrente assume che l’ E., con il quarto motivo dell’appello principale, fatto proprio anche dalla struttura sanitaria, aveva dedotto che, in presenza di un intervento chirurgico necessario e riuscito (avente conseguenze negative prevedibili), la B., che pure della mancanza del consenso ad esso relativo si doleva, non avesse mai neppure ipotizzato che, in presenza di una informazione completa, non si sarebbe sottoposta a tale intervento (all’evidenza quello del (OMISSIS), v. ricorso p. 19), salvo che in grado di appello e, quindi, tardivamente, sicchè, in base ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e richiamata in ricorso, non avrebbe potuto ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.
Sostiene, in particolare, la ricorrente che l’autonomia del danno da omesso o incompleto consenso sarebbe fonte di danno diverso dal pregiudizio biologico ed è un danno che avrebbe dovuto essere allegato e provato, laddove, invece, nella specie, l’allegazione sarebbe inammissibile perchè tardiva e sarebbe, peraltro, smentita dalle risultanze di causa, risultando provato che la B. intendesse sottoporsi all’intervento in parola e ne conoscesse le possibili implicazioni negative. E tal questione, sostiene la ricorrente, assumerebbe rilievo anche sotto il profilo della violazione e della falsa applicazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., evidenziando che la motivazione della Corte di merito con riferimento ai motivi terzo, quarto e quinto dell’appello principale, non supererebbe l’eccepita mancanza di nesso di causalità diretta (nonchè della sua allegazione e prova) tra l’evento dannoso ed il danno così come liquidato e richiama al riguardo i principi affermati da Cass. 2847/2010.
4. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”, la struttura sanitaria ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1226 c.c. e l’omessa pronuncia su una delle domande da essa formulate con l’appello incidentale; assume, a tale proposito, che sia il Tribunale che la Corte di merito avrebbero affermato la diretta consequenzialità della lesione fisica subita dalla B. dalla omissione o dall’insufficienza dell’informazione preventiva al consenso e il primo Giudice avrebbe liquidato il danno, facendo applicazione delle tabelle in uso presso il Tribunale di Roma per il danno biologico, e la Corte di merito avrebbe confermato la congruità dell’operato del Tribunale.
Rappresenta la ricorrente di aver, con il quarto motivo di appello incidentale – che la Corte di merito non avrebbe esaminato, pur confermando l’operato del Tribunale che quel motivo censurava -, denunciato l’iniquità della pronuncia di primo grado anche nella parte in cui aveva determinato il danno risarcibile in misura pari al danno biologico subito dalla B. in dipendenza dell’intervento cui era stata sottoposta in assenza di valido consenso. Sostiene la struttura sanitaria che “lo sviamento dai criteri di adeguatezza e proporzionalità che, determinando disparità di trattamento ed ingiustizia, rende la valutazione del danno iniquamente eseguita, risiede proprio nell’applicazione di quelle tabelle,… ad un caso diverso (o almeno avente caratteristiche diverse) da quelli per i quali le tabelle sono state create”.
5. I due motivi, che ben possono essere esaminati congiuntamente, vanno accolti nei termini appresso precisati.
5.1. Anzitutto, in base all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che si è affermato nell’ultimo decennio, in tema di consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e di violazione della libertà di autodeterminazione del paziente (Cass. 9/02/2010, n. 2847; Cass. 23/03/2018, n. 7248; Cass., ord., 17/01/2019, n. 1040), e secondo quanto da ultimo affermato, con motivazione ampiamente ricostruttiva di tale elaborazione giurisprudenziale, che è stata pure implementata e perfezionata, da Cass. 11/11/2019, n. 28985, vanno ribaditi i seguenti enunciati:
“La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:
a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne de conseguenze invalidanti);
b) – un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (ex multis Cass. 2854/2015; 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017; Cass. 7248/2018).
Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omessa od insufficiente informazione:
– A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, “hic et nunc”: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale;
– B) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;
– C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato, patologico invalidante del soggetto;
– D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto;
– E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l’esistenza di test assai più attendibili, quali l’amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi) qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente – salva possibilità di provata contestazione della controparte.
Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si, sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:
a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;
c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'”id quod plerumque accidit”.
Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.
5.2. Tanto premesso, risultando nella specie accertata, in fatto, la lesione al diritto all’autodeterminazione con riferimento all’intervento del (OMISSIS), va risarcito il danno ad essa conseguente, mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poichè, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata dal Giudice del merito in relazione alla situazione “differenziale” tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso.
In sintesi, il danno differenziale andrà accertato e quantificato sul piano della causalità giuridica, secondo i principi di cui a Cass. 28986/19, cui integralmente si rinvia.
6. Con il terzo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 180 c.p.c. (nel testo introdotto dal D.L. n. 432 del 1995, in vigore sino al I marzo 2006 per i procedimenti instaurati sino a tale data), dell’art. 345 c.p.c. e degli artt. 1362, 1364, 1175 e 1370 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3”, l’Azienda censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto nuova e, pertanto, insuscettibile di essere delibata in appello, l’eccezione formulata con il quinto motivo incidentale da detta parte ed inerente all’interpretazione della clausola di cui all’art. 8 delle CGA della polizza n. (OMISSIS), sostenendo che l’eccezione sarebbe stata formulata tempestivamente in primo grado con la memoria nei termini di cui all’art. 180 c.p.c., in risposta all’eccezione di inoperatività della polizza proposta all’atto della sua costituzione da INA Assitalia.
7. Con il quarto motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1364,1366, 115 e 1370 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3”, l’Azienda, sul presupposto dell’accoglimento del terzo motivo, sollecita l’esame nel merito del quinto motivo di appello incidentale, con il quale era stata riproposta l’eccezione di cui al terzo motivo, “ritenuta erroneamente tardiva e il cui rigetto comportava l’implicita violazione delle norme indicate in rubrica”, e sostiene che l’interpretazione della clausola in parola operata dal Tribunale non sarebbe conforme ai criteri di ermeneutica contrattuale previsti dal codice civile.
8. I due motivi che precedono ben possono essere unitariamente trattati, essendo strettamente connessi e vanno rigettati in base all’assorbente rilievo che la Corte territoriale, pur avendo rilevato la novità dell’eccezione, ha, comunque, esaminato nel merito la doglianza proposta (v. p. 12 e 13 della sentenza impugnata) e la ricorrente ha omesso del tutto di confrontarsi con la motivazione espressa al riguardo nel merito da detta Corte. Peraltro, l’interpretazione fornita dal giudice del secondo grado di detta clausola risulta plausibile e non adeguatamente censurata, atteso che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di questa Corte, “l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche; ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati” (Cass. 27/03/2007, n. 7500) e che “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (v., ex plurimis, Cass. 28/11/2017, n. 28319); ed invece, va ribadito che nella specie, con il quarto motivo, si censura non l’interpretazione operata dalla Corte di merito ma quella operata dal Tribunale.
Si evidenzia, inoltre, che non sussist4 giudicato “sul significato della rinuncia alle polizze precedenti compiuta dall’Azienda ospedaliera all’art. 8 di polizza” invocato dalla società assicuratrice sulla base dell’ordinanza di questa Corte n. 24192/2018 relativa ad altro giudizio.
9. Con il primo motivo del suo ricorso, rubricato “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2,3, 13 e 32 Cost.; art. 30 Codice Deontologico Medici Chirurghi del 1995; dell’art. 24 Convenzione sui Diritti del Fanciullo firmata a New York il 20/11/1989, ratificata con L. 176/1991; dell’art. 5 Convenzione sui Diritti dell’Uomo e Biomedicina firmata a Oviedo il 4/4/1997, ratificata con L. n. 145 del 2001; dell’art. 3 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE proclamata a Nizza il 7/12/2000; L. n. 219 del 2005, art. 3. Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale; della L. n. 40 del 2004, art. 6. Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; della L. n. 833 del 1978, art. 33. Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale; del combinato degli artt. 111 Cost., 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 651 c.p.p., oltrechè degli artt. 1337 e 1375 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5)”, B.R. lamenta, come dalla medesima sintetizzato, l'”erronea statuizione circa la sussistenza di un valido consenso informato in relazione all’intervento del (OMISSIS) e omesso contraddittorio esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’intervento medesimo, che sono stati oggetto di discussione tra le parti”.
10. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1226,2043, 2056 e 2697 c.c.; artt. 61,62,113,115,116,132,191, 194 c.p.c. e art. 345 c.p.c., comma 3; artt. 118 disp. att. c.p.c.; artt. 2,3, 32 e 111 Cost. e conseguente violazione del principio costituzionale del diritto al risarcimento integrale del danno alla persona, oltrechè per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5)”, la B., come dalla stessa sintetizzato, lamenta l'”errata valutazione degli esiti permanenti; In omesso espletamento di CTU medico-legale al fine di accertare le effettive condizioni di salute e il contestato grado di invalidità; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’intervento medesimo, che sono stati oggetto di discussione tra le parti”.
11. Entrambi i motivi vanno rigettati stante l’accertamento in fatto operato dal giudice del merito sui punti in questione; nè sussistono i lamentati vizi motivazionali, nei limiti in cui tali vizi sono ancora rilevanti a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053), evidenziandosi, peraltro, che: a) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato – come nella specie comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; b) la sussistenza del consensc al trattamento chirurgico del (OMISSIS) è stata ritenuta dalla Corte di merito non solo sulla base dell’annotazione riportata nel diario del giorno (OMISSIS), come sostenuto dalla B., ma anche sulla base delle deduzioni della stessa attrice (v. sentenza impugnata, p. 11); c) le contestazioni circa “l’omessa valutazione di fatti decisivi della controversia oggetto di discussione tra le parti, consistenti nell’ulteriore danno non patrimoniale e dei danni patrimoniali dedotti dall’esponente” e la “motivazione… apparente, illogica e irriducibilmente contraddittoria con cui (il Giudice di appello) non ha… tenuto conto delle specifiche richieste risarcitorie formulate dalla sig.ra B.R. in primo grado e in appello”, così come formulate dalla ricorrente, risultano pure difettare di specificità, non essendo state le domande inerenti a tali richieste testualmente riprodotte nel motivo ad esse relativo e neppure risulta specificamente indicato in quali esatti termini siano stati dalla ricorrente espressamente allegati e precisati tali danni; dette censure, inoltre, non si rapportano specificamente alla motivazione espressa dalla Corte di merito in relazione alla quantificazione dei danni (v. p. 11); d) il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. 29/09/2017, n. 22799; Cass., ord., 20/08/2019, n. 21525).
12. Conclusivamente, vanno accolti i primi due motivi del ricorso dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e rigettati i motivi terzo e quarto di tale ricorso; va rigettato il ricorso di B.R., la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
13. Va disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di B.G.R..
14. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente B., ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso della parte da ultimo indicata, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi del ricorso dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e rigetta i motivi terzo e quarto di tale ricorso; rigetta il ricorso di B.R.; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione; dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di B.R.; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte di B.R., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso della parte da ultimo indicata, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2019.
collocamento del minore: il giudice deve effettuare una valutazione prognostica al fine di individuare il genitore più idoneo
19/05/2020 n. 9143 - Cassazione Civile - Sezione I
FATTI DI CAUSA
1. XXXX, già convivente more uxorio con YYYY., dalla quale aveva avuto un figlio di nome JJJJ, propose ricorso al Tribunale per i minorenni di Lecce, per sentir provvedere, ai sensi dell’art. 333 c.c., alla riorganizzazione delle competenze genitoriali, con l’esclusione della capacità genitoriale della madre e la disciplina dell’affidamento del figlio, in modo tale che egli potesse esercitare i diritti previsti dalla legge.
Si costituì la YYYY, e resistette alla domanda, assumendo che il figlio rifiutava la figura paterna per aver assistito a numerosi episodi di violenza posti in essere dal ricorrente nei confronti di essa resistente.
1.1. Con decreto dell’11 gennaio 2019, il Tribunale per i minorenni dispose il collocamento del padre e del figlio presso un’idonea comunità educativa.
2. Il reclamo proposto dalla YYYY è stato rigettato dalla Corte d’appello di Lecce con decreto dell’8 aprile 2019.
Premesso che il procedimento in esame era stato preceduto dalla proposizione di un analogo ricorso, rigettato dal Tribunale per i minorenni con decreto emesso il 26 marzo 2015, che aveva disposto l’affidamento del minore al Servizio sociale del Comune di Maglie, ai fini dell’immediato avvio di un percorso di mediazione o di attenuazione della conflittualità tra i genitori, e precisato che l’iter mediativo non aveva trovato attuazione, a causa del permanere di un’elevata conflittualità tra le parti, la Corte ha rilevato che erano rimasti ineseguiti anche i provvedimenti da essa adottati con Decreto del 10 giugno 2016, in sede di reclamo avverso il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c., con cui il Tribunale di Lecce aveva disciplinato l’esercizio del diritto di visita spettante al XXXX, mentre erano falliti i tentativi compiuti dal Servizio sociale per avviare un progetto di mediazione e sostegno al minore ed alla genitorialità, in esecuzione di un successivo decreto emesso dal Tribunale di Lecce il 20 luglio 2016.
Ciò posto, la Corte ha richiamato la relazione depositata dai c.t.u. nominati in primo grado, dalla quale emergevano la difficoltà per il minore di accettare la separazione tra i genitori e la conseguente necessità di operare uno specifico intervento con il coinvolgimento di un neuropsichiatra infantile, nonché quella di avviare un percorso di psicoterapia individuale per il trattamento dei dati personologici delle parti, al fine di approfondire certi vissuti traumatici della YYYY, incidenti sul processo di dipendenza attivato con il figlio, e di consentire al XXXX di sviluppare le sue capacità di comprensione, gestione e manifestazione dei vissuti emotivi. Rilevato che le relazioni successivamente trasmesse dai Consultori familiari e dal neuropsichiatra confermavano il rifiuto del minore di interagire con il padre e la presenza di un condizionamento da parte di figure parentali, in primo luogo della madre, ha ritenuto meritevoli di conferma le misure adottate in primo grado, affermando che, ai fini dei provvedimenti previsti dall’art. 333 c.c., non potevano assumere alcun rilievo i comportamenti penalmente illeciti ascritti dalla reclamante al XXXX, in assenza di una pronuncia giudiziaria quanto meno di primo grado. Ha aggiunto che un infortunio subito dal minore mentre si trovava a casa dei nonni era stato ridimensionato e ricondotto a cause accidentali, escludendo inoltre che il piccolo JJJJ avesse potuto subire danni a causa dei maltrattamenti posti in essere dal XXXX nei confronti della P. nel corso della convivenza, interrottasi pochi mesi dopo la sua nascita.
La Corte ha altresì escluso la necessità di disporre una nuova c.t.u., rilevando che le relazioni degli operatori delle strutture socio-sanitarie coinvolte, pur avendo rappresentato le problematiche personologiche del XXXX, avevano concordemente evidenziato la necessità di favorire la relazione tra il minore ed il padre, in autonomia rispetto alla madre, nonché la sostanziale chiusura di quest’ultima verso ogni progetto di mediazione e recupero della genitorialità, a causa di sentimenti personali di rifiuto nei confronti dell’uomo. Ha aggiunto che la scelta del regime residenziale del minore con il padre, in luogo di quello con la madre, costituiva l’unico strumento utilizzabile per ristabilire i rapporti tra padre e figlio, trovando giustificazione nella mancata modificazione dell’atteggiamento della donna, che consentiva di escludere la prospettiva di comportamenti resilienti da parte della stessa.
3. Avverso il predetto decreto la YYYY ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il XXXX ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, proposta dalla difesa del controricorrente in relazione al carattere provvisorio del provvedimento impugnato, costituente espressione di giurisdizione non contenziosa, e quindi inidoneo ad acquistare efficacia di giudicato.
La più recente giurisprudenza di legittimità, rimeditando il proprio precedente orientamento, anche alla luce delle modificazioni normative introdotte in materia di filiazione dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 e dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha infatti riconosciuto la proponibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con cui, in sede di reclamo, la corte d’appello abbia confermato, modificato o revocato provvedimenti de potestate adottati dal tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., osservando che tali provvedimenti hanno carattere decisorio e definitivo, in quanto incidenti su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, nonchè revocabili o modificabili solo in presenza di fatti nuovi, e pertanto idonei ad acquistare efficacia di giudicato rebus sic stantibus (cfr. Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32359; Cass., Sez. I, 25/07/2018, n. 19780; 21/11/2016, n. 13633). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche a provvedimenti, come quelli che dispongano l’affidamento ai servizi sociali, non ablativi ma comunque limitativi della responsabilità genitoriale, in quanto incidenti sulle modalità di esercizio della stessa, essendosi rilevato che tale misura non comporta alcuna modificazione nella qualificazione giuridica del provvedimento (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2018, n. 28998): allo stesso modo, deve ritenersi quindi operante in riferimento al decreto impugnato, con il quale la Corte d’appello, decidendo sul reclamo proposto dalla ricorrente, ha confermato il collocamento del controricorrente e del figlio minore presso una comunità educativa, disposto dal Tribunale per i minorenni a seguito del ricorso proposto dall’uomo ai sensi dell’art. 333 c.c.; non vi è infatti prova del carattere meramente provvisorio ed urgente del provvedimento, il quale, pur non avendo comportato la conclusione del procedimento dinanzi al Giudice minorile, e non prevedendo comunque una soluzione definitiva, risulta idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sulle posizioni delle parti, essendo destinato ad operare almeno fino a quando non venga meno la conflittualità che caratterizza attualmente i rapporti tra le stesse (cfr. Cass., Sez. VI, 24/ 01/2020, n. 1668).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 337-ter c.c., dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 32 Cost., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto irrilevanti i maltrattamenti e le violenze posti in essere dal M. nei confronti di essa ricorrente e del minore, a causa del mancato accertamento degli stessi in sede penale. Premesso infatti che nei confronti dell’uomo risultavano pendenti tre procedimenti penali per i reati di cui agli artt. 572, 582 e 585 c.p., sostiene che, nel richiamare la presunzione di innocenza, la Corte territoriale non ha considerato che la stessa opera come garanzia per l’imputato in sede penale, ma non costituisce prova d’innocenza in sede civile, ed ha quindi omesso di valutare il prevalente interesse del minore, il quale imponeva di procedere all’accertamento dei fatti indipendentemente dall’esito dei giudizi penali, nonchè di decidere sulla base del criterio civilistico del “più probabile che non”, anzichè secondo quello penalistico della certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.
2.1. Il motivo è infondato.
Pur avendo impropriamente richiamato la presunzione d’innocenza, operante esclusivamente in sede penale, la Corte territoriale non ha affatto escluso la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti dalla YYYY al XXXX, essendosi limitata a negare il carattere decisivo dei procedimenti penali pendenti per l’accertamento degli stessi, non ancora pervenuti neppure alla pronuncia di una sentenza di primo grado, ed avendo pertanto proceduto ad un’autonoma valutazione dei predetti comportamenti, all’esito della quale ne ha ridimensionato la portata, sia sotto il profilo materiale che sotto quello della potenziale dannosità per l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore. Non possono pertanto ritenersi violati nè le disposizioni richiamate dalla ricorrente, che individuano l’interesse superiore del minore quale criterio fondamentale di valutazione cui devono ispirarsi tutte le decisioni riguardanti l’affidamento e la protezione dello stesso, nè il principio di autonomia e separazione, cui è improntata la vigente disciplina dei rapporti tra processo civile e processo penale, il quale postula che, al di fuori delle ipotesi di sospensione necessaria e delle altre previste dagli artt. 651 c.p.p. e segg., aventi carattere derogatorio, il processo civile, anche se riguardante un diritto il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che costituiscono oggetto di un giudizio penale, prosegua il suo corso senza essere influenzato da quest’ultimo, ed il giudice civile, pur potendo utilizzare gli elementi di prova acquisiti in sede penale, accerti autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale (cfr. Cass., Sez. VI, 3/07/2018, n. 17316; Cass., Sez. lav., 12/01/2016, n. 287; 10/03/2015, n. 4758).
3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omessa, insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, affermando che l’interesse superiore del minore imponeva di procedere, ai fini della scelta delle misure da adottare concretamente, ad un bilanciamento tra i rischi ed i benefici collegati alle diverse soluzioni, nonchè di formulare un giudizio prognostico in ordine alla possibilità ed ai tempi di recupero del rapporto genitoriale ed alla capacità dei genitori di riprendere un ruolo educativo ed affettivo. Rileva che, nel disporre l’ingresso del minore in comunità, con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, la Corte territoriale ha omesso di valutare se tale soluzione risultasse meno traumatica della continuità affettiva nella dimora materna, nonchè di esaminare l’ipotesi di una riemersione delle violenze familiari, avendo fondato il proprio convincimento su elementi valutativi della genitorialità privi di specificità e significatività, senza tener conto del parere contrario espresso dal curatore del minore, delle conclusioni dei c.t.u. e dei provvedimenti adottati dal Tribunale ordinario, che avevano escluso la sussistenza di comportamenti ostruzionistici di essa ricorrente.
3.1. Il motivo è inammissibile.
In tema di provvedimenti riguardanti i figli, questa Corte, nel confermare il ruolo fondamentale dell’interesse del minore, quale criterio esclusivo di orientamento delle scelte affidate al giudice, ha ripetutamente precisato che il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione non può in ogni caso prescindere dal rispetto del principio della bigenitorialità, nel senso che, pur dovendosi tener conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore (cfr. Cass., Sez. I, 8/04/2019, n. 9764; 23/09/2015, n. 18817; 22/05/2014, n. 11412). A tale criterio si è puntualmente attenuto il decreto impugnato, il quale, nell’esaminare le diverse soluzioni ipotizzabili per il collocamento del minore, ha conferito particolare rilievo all’esigenza di assicurare il recupero del rapporto con il padre, pregiudicato da una lunga interruzione dovuta allo atteggiamento di rifiuto manifestato dalla madre nei confronti dell’ex convivente; in quest’ottica, la Corte territoriale ha valutato il comportamento tenuto da entrambi i genitori nei rapporti con il figlio e la disponibilità manifestata da ciascuno di essi al superamento della conflittualità in atto tra loro, evidenziando gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di tale situazione sullo equilibrato sviluppo del minore, ed attribuendo quindi la preferenza, tra le varie alternative, al collocamento del piccolo JJJJ. con il padre presso una struttura educativa, ritenuto idoneo da un lato ad evitare il grave condizionamento psicologico determinato dal continuo contatto con la madre, dallo altro a consentire il superamento delle problematiche di tipo personologico manifestate dal padre, attraverso adeguati interventi psicoterapeutici. Nel censurare tale apprezzamento, la ricorrente non è in grado di individuare circostanze di fatto non considerate nel decreto impugnato, ma si limita ad insistere su elementi che hanno costituito oggetto di specifica valutazione, quali il distacco dall’ambiente familiare materno o i comportamenti violenti addebitati al padre, nonché sul parere contrario espresso dal curatore del minore e dal c.t.u., non aventi carattere vincolante per la Corte territoriale, la quale, nel discostarsene, ha ampiamente motivato la scelta effettuata. Nel lamentare l’omissione e l’illogicità della motivazione, la ricorrente omette poi d’indicare lacune argomentative o carenze logiche talmente gravi da impedire di ricostruire il ragionamento seguito per giungere alla decisione, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257).
4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 26 e 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77, osservando che, nel disporre il collocamento del minore in comunità con il padre, autore delle violenze e dei maltrattamenti, il decreto impugnato non ha tenuto conto dell’obbligo, emergente dalle predette disposizioni, di prendere in considerazione, ai fini della determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli, gli episodi di violenza rientranti nell’ambito applicativo della Convenzione, in modo tale da evitare di compromettere i diritti e la sicurezza delle vittime o dei bambini.
4.1. Il motivo è infondato.
La Corte di merito, pur avendo ridimensionato la portata degli episodi di violenza addebitati dalla ricorrente all’ex convivente, non ha affatto omesso di adottare le misure volte a garantire i diritti ed i bisogni del minore, nello interesse superiore dello stesso, e di prendere in considerazione, ai fini del suo collocamento, l’esigenza di far sì che il recupero dei rapporti con il padre non vada a detrimento della sua sicurezza: la soluzione adottata, pur non corrispondendo a quella suggerita dal c.t.u., è stata infatti individuata sulla base di ampi approfondimenti istruttori, demandati sia al consulente che ai servizi sociali, conformemente a quanto prescritto dell’art. 26 cit., comma 2, per i bambini che siano stati testimoni di ogni forma di violenza, mentre la scelta di trasferire il minore presso una struttura educativa, invece di collocarlo direttamente presso il padre, risponde proprio alle finalità di tutela previste dell’art. 31, comma 2, essendo volta ad assicurare una graduale ripresa dei rapporti con la collaborazione e sotto la vigilanza di persone professionalmente qualificate.
5. Il ricorso va pertanto rigettato.
La natura della causa e la peculiarità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione delle spese processuali.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020
asportazione ernia dal disco- se la causa è per danno medico non si può mutare in assenza di consenso informato
24/04/2020 n. 8135 - Cassazione civile sez. III,
Nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una “mutatio libelli” e non una mera “emendatio”, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24072; 15 novembre 2013, n. 25764).
L’istanza in discorso costituisce mutamento rilevante al livello della causa petendi, trattandosi di domanda impostata su presupposti di fatto e su conseguenti situazioni giuridiche non prospettati in precedenza, che comportano l’immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere (Cass. 3 settembre 2007, n. 18513).
Determinante ai fini dell’apprezzamento se nella domanda originaria fosse inclusa anche quella risarcitoria per assenza del consenso informato è dunque l’indicazione dei fatti costitutivi.