nascita indesiderata - e' la donna a dover dimostrare che se correttamente informata avrebbe abortito

10/06/2020 n. 11123 - SEZIONE TERZA

In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale”. Diversa questione, concernente la valutazione della prova: in tal caso infatti la portata della sentenza risolutiva del contrasto giurisprudenziale, evidenzia la necessità del ricorso alla prova logica -dovendo indagarsi ora per allora un “fatto psichico” qual è la intenzione volitiva-, escludendo chiaramente che la fattispecie normativa introduca una sorta di “relevatio ab onere probandi” introducendo schemi di accertamento legale dei fatti, atteso che “il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza, nonchè della sua conforme volontà di ricorrervi ” (ibidem, in motivazione, pag. 10), rendendosi comunque necessaria la raccolta di plurimi e distinti elementi fattuali (senza carattere di esaustività: richiesta da parte della donna di esami specifici intesi ad escludere malformazioni; preesistenza di precarie od alterate condizioni di salute psicofisica della donna; condotte da questa tenute in occasione di precedenti gravidanze; pregresse manifestazioni di propositi abortivi in caso di malformazioni fetali; ecc.) indispensabili per poter risalire induttivamente alla prova presuntiva semplice.

Leggi tutto

consenso informato in intervento correttamente eseguito ma con esiti meno ottimistici del prospettato- la prova che se correttamente informato non si sarebbe sottoposto all'intervento spetta al paziente.

26/05/2020 n. 9887 - Corte di Cassazione, sez. III Civile

Con sentenza in data 27. 6.2018 n. 3166 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto da E.E.M.A. , e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la pretesa risarcitoria avanzata dal predetto nei confronti di Istituto Clinico Humanitas Mirasole s.p.a. e del medico S.D. il quale aveva raccolto il consenso informato dell’E.E. , affetto da “pseudoartrosi post traumatica dello scafoide con impotenza funzionale del polso destro su base algica”, prospettandogli la soluzione dell’intervento chirurgico di “emicarpectomia prossimale del polso” che avrebbe garantito un possibile miglioramento dell’articolazione e della sintomatologia dolorosa, la preservazione dal processo degenerativo con il rischio -accettato dal paziente- della perdita del 30% di funzionalità dell’articolazione del polso.
Il Giudice di appello ha rilevato che all’intervento chirurgico, eseguito correttamente senza errori tecnici, ed al trattamento post-operatorio conforme ai protocolli, era purtroppo seguita accanto ad una riduzione della algia anche una perdita complessiva della funzionalità del polso di circa il 68-70%, ma che la doglianza del danneggiato, volta a contestare la inesattezza della informazione sui rischi e l’invalido consenso prestato quale presupposto della richiesta risarcitoria, non aveva fondamento in quanto i CC.TT.UU. aveva accertato che il paziente, prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di circa 33 pari ad 1/3 (valutato come 12-13% grado di IP) e che dopo l’intervento chirurgico la riduzione di funzionalità era pari a circa il 6768%, cioè di quasi a 2/3 (valutato come 17-18% grado di IP), sicché l’incremento corrispondeva a poco più della riduzione di funzionalità prospettata dal medico in sede di acquisizione del consenso informato (34% invece che 30%), non potendo convenirsi con l’assunto del danneggiato secondo cui il sanitario avrebbe fatto riferimento alla riduzione massima in assoluto e non alla riduzione ulteriore -rispetto al preesistente stato invalidante-, in quanto si sarebbe pervenuti al paradosso che il rischio, ove verificatosi, avrebbe prodotto addirittura un miglioramento dello stato pregresso.
La sentenza di appello, notificata in data 28.6.2018, è stata ritualmente impugnata per cassazione da E.E.M.A. con ricorso affidato a quattro motivi ai quali resistono con un unico controricorso l’Istituto di cura ed il medico.

Ragioni della decisione

Primo motivo: violazione art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su motivo di gravame;
Secondo motivo: violazione degli artt. 13 e 32 Cost.;
I motivi, formulati in via di subordinazione alternativa (ove non si ravvisi il vizio di omessa pronuncia, allora la pronuncia deve intendersi viziata per “error juris”) sono scarsamente comprensibili e difettano del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 e 4.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello, nell’esaminare il secondo motivo di gravame, non avrebbe deciso in ordine alla critica mossa alla decisione di primo grado relativa alla mancanza di “esaustività” del consenso informato.
In subordine deduce che l’avere il Giudice territoriale negato rilevanza all’errore commesso dal medico nel dare una informazione eccessivamente ottimistica, determinerebbe una violazione del diritto ad ottenere il ristoro per il danno conseguente alla violazione del diritto alla autodeterminazione.
Dalla lettura del secondo motivo di appello, interamente trascritto a pag. 1314 del ricorso, risulta che l’appellante, dopo avere premesso di essersi recato il 9.8.2010 presso l’Istituto sanitario ed aver ricevuto assicurazioni, dal medico Dott. S. , che la patologia di cui era affetto dal 2004 (inveterata psedudoartrosi post traumatica dello scafoide, con riduzione dell’articolazione del polso dx pari ad 1/3 della mobilità complessiva: patologia a decorso ingravescente a causa dei processi degenerativi osteocartilaginei) avrebbe potuto ottenere benefici qualora si fosse sottoposto all’intervento di “emicarpectomia prossimale polso”, lamentava che il medico gli aveva prospettato una soluzione migliorativa eccessivamente ottimistica, atteso che l’esito dell’intervento non era stato quello sperato, essendo stato indotto il paziente a credere in un diverso risultato, più favorevole: la visita del medico, pertanto, era stata “errata, oltremodo ottimistica, e non adeguatamente spiegata” e la informazione era stata lacunosa ed errata ed ha fornito una prospettiva in termini di efficacia eccessivamente ottimistica per il caso specifico”. In relazione a ciò doveva ritenersi accertata la violazione del diritto alla autodeterminazione del paziente, essendo invalido il consenso prestato, in quanto bene avrebbe potuto lo stesso: 1- preferire di subire il progressivo inevitabile peggioramento della patologia piuttosto che incorrere nel rischio poi verificatosi di una ulteriore riduzione della mobilità; 2- scegliere di differire il tempo dell’intervento; 3- rivolgersi ad altro sanitario.
Il primo motivo è infondato.
La Corte d’appello ha, infatti, preso in esame il secondo motivo di gravame individuando correttamente quale parametro di valutazione la “comunicazione” sottoscritta dal medico in data 9.8.2010 (anno erroneamente indicato in sentenza nel 2012) evidenziando come dalla stessa emergessero plurimi scopi affidati all’intervento, tra i quali anche la diminuzione della sintomatologia algica ed il contrasto alla progressione degenerativa della patologia, obiettivi questi raggiunti a seguito della operazione chirurgica. Il Giudice territoriale ha quindi definito il thema controversum relativo al contenuto informativo, individuandolo nell’errore -prospettato dall’appellante- commesso dal medico nella determinazione della percentuale di rischio di insuccesso, errore che -con accertamento in fatto- ha escluso, ritenendo che la rappresentazione di un possibile peggioramento della mobilità del 30% era da considerarsi adeguata e non imprudentemente sottostimata, atteso che l’ulteriore aggravamento non poteva che intendersi riferita alla preesistente condizione invalidante dell’E.E. , diversamente opinando non vi sarebbe stato alcun rischio peggiorativo, venendo sostanzialmente a coincidere la riduzione di mobilità del 30% con il difetto di mobilità del polso pari ad 1/3 che già affliggeva il paziente.
Nel secondo motivo di gravame, non è dato individuare altri ambiti di indagine pretermessi dalla Corte d’appello, laddove ad una generica doglianza dell’”eccessivo ottimismo” manifestato dal medico (espressione mutuata peraltro dalle valutazioni espresse dai CC.TT.UU. nominati in primo grado) non viene fatto seguito – ad eccezione della questione interpretativa sulla percentuale di rischio di un esito peggiorativo in termini di mobilità del polso ad altri specifici e puntuali elementi di critica alla sentenza di prime cure per la ritenuta esclusione di un inadempimento colpevole all’obbligo informativo da parte del medico, diffondendosi l’appellante sulla individuazione delle scelte a cui aveva dovuto ingiustamente rinunciare, a causa dell’asserito inadempimento del medico, sottoponendosi ad un trattamento non supportato da idoneo consenso.
Se dunque non è dato ravvisare alcuna omissione di pronuncia della Corte territoriale in merito al secondo motivo di gravame, osserva il Collegio che la censura subordinata di vizio inerente l’attività di giudizio non è assistita dai requisiti minimi di ammissibilità.
I principi di diritto enucleati in materia di consenso infornato da questa Corte (da ultimo cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 9996 del 10/04/2019) possono così riassumersi:
– in tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2 e 13 COst., e art. 32 Cost., comma 2.
– la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute. Pertanto, nell’ipotesi di omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute ma che abbia impedito l’accesso ad altri più accurati accertamenti, la lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile ove siano derivate conseguenze dannose di natura non patrimoniale, quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi, salva la possibilità della prova contraria – le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit; al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
Orbene tra gli elementi costitutivi della fattispecie del diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto alla autoderminazione cagionata dalla inesatta od incompleta informazione del medico volta ad acquisire la -valida e consapevole- manifestazione di consenso del paziente, non può prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata certamente diversa, ossia che avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico: ed infatti “la omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito -e l’esito infausto non si sarebbe verificato- non essendo stato voluto dal paziente. La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” che il paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati….” (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, in motivazione).
Ed indipendentemente, pertanto, da eventuali ulteriori profili di incompletezza della informazione (non sarebbe stato accertato il grado di invalidità preesistente e quindi il paziente non poteva valutare la “differenza” peggiorativa in caso di verificazione del rischio prospettato; non era stato specificato che l’intervento “non era risolutivo ma era demolitivo”) indicati nel motivo di ricorso per cassazione – ma dei quali peraltro non risulta nè viene allegato dal ricorrente che fossero stati dedotti nei gradi di merito – appare evidente come la censura in esame risulti priva dei connotati della specificità, non avendo il ricorrente neppure indicate se e quali prove fossero state richieste di acquisire o raccolte nei precedenti gradi di giudizio dirette ad accertare – mediante giudizio controfattuale “ora per allora” – che egli, qualora avesse inteso che il rischio di insuccesso avrebbe potuto produrre una ulteriore limitazione di mobilità, pur riducendo la sintomatologia algica ed impedendo l’evoluzione del fenomeno degenerativo osteoarticolare, avrebbe sicuramente rifiutato di sottoporsi all’intervento di emicarpectomia prossimale.
In difetto di tale indicazione la censura risulta carente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e non supera il vaglio di ammissibilità.
Terzo motivo: violazione art. 112 c.p.c. nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Assume il ricorrente che il danno lamentato non riguardava l’errata esecuzione dell’intervento chirurgico nè quello derivato dalla riduzione della funzionalità del polso conseguitone, bensì si incentrava esclusivamente nel danno derivato dalla violazione del diritto alla autodeterminazione per la insufficiente informazione.
Il motivo è del tutto inconferente oltre che scarsamente intelligibile.
Il motivo è inconferente perché la Corte d’appello ha individuato correttamente l’oggetto della controversia nella dedotta violazione dell’obbligo di fornire una informazione corretta, ritenuta errata secondo il danneggiato con riferimento alla entità del rischio derivante dalla pur corretta esecuzione dell’intervento. Esclusa la decettività della informazione, e ritenuto non infirmato il consenso prestato dal paziente, la Corte d’appello alcuna ulteriore indagine era tenuto a svolgere in ordine ai pregiudizi subiti dal paziente in conseguenza dell’impedimento ad effettuare scelte alternative rispetto a quella di sottoporsi alla esecuzione dell’intervento.
Il motivo non appare chiaramente identificabile nella critica svolta alla sentenza di appello in quanto nella esposizione:
a) si viene a confondere “danno e lesione del diritto” nonché violazione del diritto di autodeterminazione con violazione del diritto alla salute: altro è infatti la condotta violativa del diritto alla autodeterminazione, altro la violazione del diritto alla salute; altro ancora i diversi danni-conseguenza che derivano dalla violazione dei due diritti. La sovrapposizione dei diversi piani operata dal ricorrente appare del tutto evidente laddove nel trascrivere il motivo di appello si ascrive alla categoria unitaria “…danni/lesioni…” le conseguenze derivate dalla inesatta informazione, identificandole nei danni-conseguenza “morali e biologici” correlati invece alla esecuzione dell’intervento (sofferenza psichica patita in ragione dell’intervento e della successiva convalescenza; pregiudizio subito per l’attività chirurgica demolitoria che ha ulteriormente ridotto la funzionalità del polso), od ancora laddove si qualifica erroneamente come danno-conseguenza la “contrazione della libertà di disporre” che individua invece l’”evento-lesivo” del diritto alla autodeterminazione;
b) non è dato in ogni caso individuare in quale omissione di pronuncia sia incorsa la Corte d’appello, che ha esaminato proprio la questione della corretta informazione, sostenendo che il rischio comunicato dal medico ed accettato dal paziente corrispondeva a quello poi verificatosi.
Quarto motivo: omesso esame fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorrente impugna la sentenza di appello, sostenendo che non erano stati affatto considerati “fatti decisivi” che venivano indicati nella assicurazione data dal medico, nella comunicazione del 9.8.2010, che tra gli scopi dell’intervento vi era quello anche del “miglioramento dell’articolarità attualmente molto limitata”: secondo il ricorrente tale scopo era incompatibile con la indicazione del rischio di un peggioramento del deficit iniziale, sicché la possibilità della perdita della funzionalità del 30% doveva considerarsi “in termini assoluti” e non come eventuale rischio di “incremento” della invalidità preesistente i CC.TT.UU. avevano riferito che la previsione di miglioramento formulata dal medico era stata “assolutamente ottimistica” e dunque non era corretta ed aveva ingenerato convincimenti erronei nel paziente.
Il motivo è inammissibile, in quanto, da un lato, viene fatto riferimento al contenuto di un documento (comunicazione 9.8.2010) che il Giudice di appello ha esaminato e valutato, sicché la critica trascende i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, venendo ad impingere sulla attività valutativa di merito delle risultanze istruttorie, non sindacabile in sede di legittimità (la Corte territoriale ha valutato il contenuto informativo della comunicazione ed ha ritenuto in base al proprio convincimento che la indicazione di un rischio di insuccesso quantificato percentualmente in termini di ulteriore invalidità, era idonea a consentire al paziente una adeguata ponderazione nella scelta).
Dall’altro lato non potendo confondersi quello che è un giudizio valutativo degli ausiliari con un “fatto storico”, tanto meno “decisivo”, che soltanto può veicolare il motivo di ricorso per “errore di fatto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dovendo intendersi per “fatto” esclusivamente un accadimento in senso storico-naturalistico.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte soccombente va condannata ala rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di E.E.M.A. riportati nella sentenza.

danno da errato ed insufficiente consenso informato - cartella clinica imperfetta

26/05/2020 n. 9662 - Cassazione civile sez. III,

Nel 2004 Omissis convenne in giudizio il medico E.S. e l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della non diligente esecuzione della prestazione medica fornita dall’ Omissis. in occasione degli interventi chirurgici effettuati il (OMISSIS) e il (OMISSIS) deducendo la negligenza e l’imperizia del predetto medico, il mancato consenso agli interventi effettuati, l’errata scelta terapeutica; l’incompletezza e la parziale erroneità dei dati contenuti nella cartella clinica.

A fondamento della proposta domanda, l’attrice espose che: 1) in data (OMISSIS), a seguito di una paresi facciale destra e ipoacusia dell’orecchio destro, si era sottoposta ad una – risonanza magnetica cerebrale (effettuata presso la Casa di Cura (OMISSIS)) che aveva evidenziato la presenza di neurinomi multipli ad entrambi i nervi acustici (VIII nervo destro e VIII nervo sinistro) nonchè al nervo facciale (VII nervo destro); 2) aveva, quindi, preso contatti con il Prof. E., primario del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” di Roma, per sottoporsi agli interventi di asportazione di tali tumori intracranici; 3) in data (OMISSIS) si era sottoposta al primo intervento con il quale era stato asportato il neurinoma posto nell’angolo ponto-cerebellare destro; 4) nel registro di sala operatoria era stato erroneamente annotato: “Neurinoma dell’angolo ponto-cerebellare sinistro. Atto operatorio: craniectomia suboccipitale sinistra. Rimozione”; 5) all’esito dell’intervento si era avveduta del fatto che nel corso dell’operazione le era stato prelevato dalla gamba sinistra un tratto di nervo surale in vista di un trapianto di nervo poi non effettuato; 6) prima di essere dimessa, aveva concordato con l’ E. che il successivo intervento avrebbe riguardato il neurinoma posto sul settimo nervo facciale destro, causa della paresi del lato destro del volto; 7) contrariamente a quanto concordato, l’intervento avvenuto in data (OMISSIS) aveva avuto ad oggetto l’asportazione del neurinoma dell’VIII nervo cranico, nell’angolo ponto-cerebellare sinistro e tale intervento – per il quale non era stato acquisito previamente alcun consenso da parte della paziente – aveva cagionato la definitiva e totale lesione del nervo acustico, la compromissione del nervo facciale e la conseguente anacusia e paralisi facciale bilaterale, con gravissimo danno estetico e funzionale.

Sostenne, altresì, l’attrice che tali danni le avevano comportato una grave prostrazione psicologica, tale da costringerla ad interventi psicoterapeutici.

Rappresentò, inoltre, la B. che successivamente si era sottoposta presso la Casa di Cura (OMISSIS) a due ulteriori interventi chirurgici, con i quali era stato asportato il neurinoma del VII nervo facciale destro ed effettuati due successivi trapianti di nervo, grazie ai quali aveva recuperato parzialmente la preesistente paralisi facciale destra.

Dedusse, infine, l’attrice che, a seguito di quanto accaduto in data (OMISSIS), aveva sporto querela nei confronti del Prof. E., il quale, all’esito del giudizio penale di primo grado, era stato riconosciuto colpevole del reato di lesioni colpose gravissime e condannato alla pena di tre mesi di reclusione, nonchè al risarcimento di tutti i danni cagionati alla B., da liquidarsi in separato giudizio; tali statuizioni erano state confermate, quanto agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza relativi agli interessi civili, dalla Corte di appello di Roma con sentenza del 23 maggio 2006, che aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto al Prof. E..

Si costituì l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)”, la quale, in via preliminare, eccepì l’avvenuta prescrizione delle pretese dell’attrice; nel merito, evidenziò che la paziente aveva concordato con il Prof. E. un complesso piano terapeutico che prevedeva un primo intervento per rimuovere il neurinoma che interessava il nervo acustico destro, un successivo intervento volto all’asportazione del neurinoma dell’angolo ponto-cerebellare sinistro ed infine un ultimo intervento sul tumore in fossa cranica media; tale piano, nella sua interezza, era stato approvato per iscritto dalla paziente; le condizioni della paziente si erano mostrate gravi fin dal primo momento, essendo la stessa affetta da una patologia che poteva avere effetti letali; le lesioni riportate a seguito del secondo intervento erano proprie della patologia sofferta e, pertanto, nel caso di specie, le stesse non avrebbero potuto ritenersi conseguenza diretta di un presunto errore chirurgico. La convenuta concluse, quindi, per il rigetto della domanda e, in subordine, chiese la chiamata in causa, in manleva, dell’Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., in virtù di polizza assicurativa precedentemente stipulata.

Si costituì l’Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., la quale eccepì la non operatività della garanzia assicurativa per l’avvenuto decorso del periodo di copertura; in subordine, chiese la condanna a manlevare l’Azienda sanitaria nei limiti del dettato del contratto nel suo complesso e di massimale e, comunque, entro la propria quota di coassicurazione; nel merito, chiese il rigetto della domanda dell’attrice perchè prescritta, oltre che infondata e non provata.

Si costituì tardivamente E.S. respingendo ogni ipotesi di colpa o censura in ordine all’esecuzione degli interventi chirurgici da lui effettuati, senza i quali, a suo avviso, l’esito della malattia sarebbe stato fatale, per l’attrice; chiese, in subordine, di essere manlevato dall’Assitalia, deducendo l’inefficacia e/o nullità della clausola posta dalla compagnia a fondamento dell’eccepita non operatività della garanzia assicurativa.

Con sentenza n. 1673/2011, il Tribunale di Roma condannò l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS) e E.S. al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 583.691,21, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo, nonchè a rifondere alla B. le spese di causa; rigettò la domanda di garanzia proposta nei confronti dell’Assitalia e compensò le spese tra le parti riguardo ai rapporti di garanzia.

Avverso la sentenza di primo grado E.S. propose appello chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto della domanda proposta da B.R. e, in subordine, che l’Assitalia fosse dichiarata tenuta alla manleva. B.R., nel costituirsi in secondo grado, chiese il rigetto dell’impugnazione e, in via incidentale, la declaratoria di responsabilità del medico e dell’ospedale anche in relazione all’intervento del (OMISSIS), con ogni conseguenza in relazione al risarcimento dei danni ulteriori.

Si costituì anche l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)”, chiedendo il rigetto della domanda proposta dalla B. ed eccependo la prescrizione del diritto della stessa; chiese, in via incidentale, dichiararsi l’obbligo dell’INA Assitalia S.p.a. alla manleva.

Si costituì anche la Generali Business Solutions S.C.p.a. mandataria e rappresentante della INA Assitalia S.p.a., che aderì all’appello del Dott. E., tranne che con riferimento alla garanzia, in ordine alla quale chiese la conferma della statuizione di rigetto del Tribunale.

La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1229/2017, pubblicata il 23 febbraio 2017, rigettò l’appello principale e gli appelli incidentali e regolò le spese tra le parti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale l’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” ha proposto ricorso per cassazione, basato su quattro motivi e illustrato da memoria.

Hanno resistito, con distinti controricorsi, B.R. e Generali Italia S.p.a. (già INA Assitalia S.p.a.).

La B. ha proposto, a sua volta, avverso la medesima sentenza della Corte di merito, ricorso, basato su due motivi, cui hanno resistito, con controricorso, Generali Italia S.p.a. (già INA Assitalia S.p.a.) e, con controricorso contenente ricorso incidentale, articolato su quattro motivi, l’Azienda Ospedaliera. A tale ricorso incidentale ha resistito con controricorso la B..

E.S. e Generali Business Solutions s.c.ap. non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

L’Azienda Ospedaliera e Generali Italia S.p.a. hanno depositato memorie.

Generali Italia S.p.a. ha pure depositato due elenchi di documenti notificati ai sensi dell’art. 372 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve e lungo) di impugnazione in astratto operativi (Cass. 20/03/2015, n. 5695, 28/0372018, n. 7640).

Nel caso all’esame risulta notificato per primo (in data 18 maggio 2017) e, quindi, costituisce ricorso principale, il ricorso proposto da B.R., ancorchè lo stesso risulta depositato in data successiva (7 giugno 2017), rispetto a quella di deposito (6 giugno 2017) del ricorso proposto dall’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e notificato a mezzo pec in data 19 maggio 2017, con ricevute di accettazione e di avvenuta consegna generate pochi minuti dopo le 21 del predetto giorno.

A tal proposito va precisato che il ricorso della predetta Azienda è tempestivo, in quanto a seguito della sentenza n. 75 del 2019 della Corte costituzionale, il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012, inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 114 del 2014, è stato dichiarato illegittimo (in “applicazione della regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione”) nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta (Cass., ord., 18/10/2019, n. 26648; Cass. 11/11/2019, n. 28988).

2. Va precisato che i quattro motivi del ricorso appena richiamato dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e i quattro motivi del ricorso incidentale di detta parte sono perfettamente identici, come rappresentato espressamente dalla medesima struttura sanitaria, che ha precisato di aver provveduto a tanto nel timore che la notificazione del ricorso potesse ritenersi tardiva, ai sensi dell’art. 16-septies del D.L. n. 179 del 2012, norma successivamente, come già detto, dichiarata incostituzionale nei termini sopra precisati.

3. Con il primo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e degli artt. 1223 c.c. e segg. e art. 2043 c.c., nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”, la struttura sanitaria ricorrente assume che l’ E., con il quarto motivo dell’appello principale, fatto proprio anche dalla struttura sanitaria, aveva dedotto che, in presenza di un intervento chirurgico necessario e riuscito (avente conseguenze negative prevedibili), la B., che pure della mancanza del consenso ad esso relativo si doleva, non avesse mai neppure ipotizzato che, in presenza di una informazione completa, non si sarebbe sottoposta a tale intervento (all’evidenza quello del (OMISSIS), v. ricorso p. 19), salvo che in grado di appello e, quindi, tardivamente, sicchè, in base ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e richiamata in ricorso, non avrebbe potuto ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

Sostiene, in particolare, la ricorrente che l’autonomia del danno da omesso o incompleto consenso sarebbe fonte di danno diverso dal pregiudizio biologico ed è un danno che avrebbe dovuto essere allegato e provato, laddove, invece, nella specie, l’allegazione sarebbe inammissibile perchè tardiva e sarebbe, peraltro, smentita dalle risultanze di causa, risultando provato che la B. intendesse sottoporsi all’intervento in parola e ne conoscesse le possibili implicazioni negative. E tal questione, sostiene la ricorrente, assumerebbe rilievo anche sotto il profilo della violazione e della falsa applicazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., evidenziando che la motivazione della Corte di merito con riferimento ai motivi terzo, quarto e quinto dell’appello principale, non supererebbe l’eccepita mancanza di nesso di causalità diretta (nonchè della sua allegazione e prova) tra l’evento dannoso ed il danno così come liquidato e richiama al riguardo i principi affermati da Cass. 2847/2010.

4. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”, la struttura sanitaria ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1226 c.c. e l’omessa pronuncia su una delle domande da essa formulate con l’appello incidentale; assume, a tale proposito, che sia il Tribunale che la Corte di merito avrebbero affermato la diretta consequenzialità della lesione fisica subita dalla B. dalla omissione o dall’insufficienza dell’informazione preventiva al consenso e il primo Giudice avrebbe liquidato il danno, facendo applicazione delle tabelle in uso presso il Tribunale di Roma per il danno biologico, e la Corte di merito avrebbe confermato la congruità dell’operato del Tribunale.

Rappresenta la ricorrente di aver, con il quarto motivo di appello incidentale – che la Corte di merito non avrebbe esaminato, pur confermando l’operato del Tribunale che quel motivo censurava -, denunciato l’iniquità della pronuncia di primo grado anche nella parte in cui aveva determinato il danno risarcibile in misura pari al danno biologico subito dalla B. in dipendenza dell’intervento cui era stata sottoposta in assenza di valido consenso. Sostiene la struttura sanitaria che “lo sviamento dai criteri di adeguatezza e proporzionalità che, determinando disparità di trattamento ed ingiustizia, rende la valutazione del danno iniquamente eseguita, risiede proprio nell’applicazione di quelle tabelle,… ad un caso diverso (o almeno avente caratteristiche diverse) da quelli per i quali le tabelle sono state create”.

5. I due motivi, che ben possono essere esaminati congiuntamente, vanno accolti nei termini appresso precisati.

5.1. Anzitutto, in base all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che si è affermato nell’ultimo decennio, in tema di consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e di violazione della libertà di autodeterminazione del paziente (Cass. 9/02/2010, n. 2847; Cass. 23/03/2018, n. 7248; Cass., ord., 17/01/2019, n. 1040), e secondo quanto da ultimo affermato, con motivazione ampiamente ricostruttiva di tale elaborazione giurisprudenziale, che è stata pure implementata e perfezionata, da Cass. 11/11/2019, n. 28985, vanno ribaditi i seguenti enunciati:

“La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:

a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne de conseguenze invalidanti);

b) – un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (ex multis Cass. 2854/2015; 24220/2015; Cass. 24074/2017; Cass. 16503/2017; Cass. 7248/2018).

Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omessa od insufficiente informazione:

– A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni, “hic et nunc”: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale;

– B) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;

– C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla eventuale situazione “differenziale” tra il maggiore danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato, patologico invalidante del soggetto;

– D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto;

– E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l’esistenza di test assai più attendibili, quali l’amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi) qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente – salva possibilità di provata contestazione della controparte.

Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si, sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.

Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:

a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;

b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;

c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'”id quod plerumque accidit”.

Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.

5.2. Tanto premesso, risultando nella specie accertata, in fatto, la lesione al diritto all’autodeterminazione con riferimento all’intervento del (OMISSIS), va risarcito il danno ad essa conseguente, mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poichè, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata dal Giudice del merito in relazione alla situazione “differenziale” tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso.

In sintesi, il danno differenziale andrà accertato e quantificato sul piano della causalità giuridica, secondo i principi di cui a Cass. 28986/19, cui integralmente si rinvia.

6. Con il terzo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 180 c.p.c. (nel testo introdotto dal D.L. n. 432 del 1995, in vigore sino al I marzo 2006 per i procedimenti instaurati sino a tale data), dell’art. 345 c.p.c. e degli artt. 1362, 1364, 1175 e 1370 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3”, l’Azienda censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto nuova e, pertanto, insuscettibile di essere delibata in appello, l’eccezione formulata con il quinto motivo incidentale da detta parte ed inerente all’interpretazione della clausola di cui all’art. 8 delle CGA della polizza n. (OMISSIS), sostenendo che l’eccezione sarebbe stata formulata tempestivamente in primo grado con la memoria nei termini di cui all’art. 180 c.p.c., in risposta all’eccezione di inoperatività della polizza proposta all’atto della sua costituzione da INA Assitalia.

7. Con il quarto motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1364,1366, 115 e 1370 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3”, l’Azienda, sul presupposto dell’accoglimento del terzo motivo, sollecita l’esame nel merito del quinto motivo di appello incidentale, con il quale era stata riproposta l’eccezione di cui al terzo motivo, “ritenuta erroneamente tardiva e il cui rigetto comportava l’implicita violazione delle norme indicate in rubrica”, e sostiene che l’interpretazione della clausola in parola operata dal Tribunale non sarebbe conforme ai criteri di ermeneutica contrattuale previsti dal codice civile.

8. I due motivi che precedono ben possono essere unitariamente trattati, essendo strettamente connessi e vanno rigettati in base all’assorbente rilievo che la Corte territoriale, pur avendo rilevato la novità dell’eccezione, ha, comunque, esaminato nel merito la doglianza proposta (v. p. 12 e 13 della sentenza impugnata) e la ricorrente ha omesso del tutto di confrontarsi con la motivazione espressa al riguardo nel merito da detta Corte. Peraltro, l’interpretazione fornita dal giudice del secondo grado di detta clausola risulta plausibile e non adeguatamente censurata, atteso che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di questa Corte, “l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche; ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati” (Cass. 27/03/2007, n. 7500) e che “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (v., ex plurimis, Cass. 28/11/2017, n. 28319); ed invece, va ribadito che nella specie, con il quarto motivo, si censura non l’interpretazione operata dalla Corte di merito ma quella operata dal Tribunale.

Si evidenzia, inoltre, che non sussist4 giudicato “sul significato della rinuncia alle polizze precedenti compiuta dall’Azienda ospedaliera all’art. 8 di polizza” invocato dalla società assicuratrice sulla base dell’ordinanza di questa Corte n. 24192/2018 relativa ad altro giudizio.

9. Con il primo motivo del suo ricorso, rubricato “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2,3, 13 e 32 Cost.; art. 30 Codice Deontologico Medici Chirurghi del 1995; dell’art. 24 Convenzione sui Diritti del Fanciullo firmata a New York il 20/11/1989, ratificata con L. 176/1991; dell’art. 5 Convenzione sui Diritti dell’Uomo e Biomedicina firmata a Oviedo il 4/4/1997, ratificata con L. n. 145 del 2001; dell’art. 3 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE proclamata a Nizza il 7/12/2000; L. n. 219 del 2005, art. 3. Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale; della L. n. 40 del 2004, art. 6. Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; della L. n. 833 del 1978, art. 33. Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale; del combinato degli artt. 111 Cost., 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 651 c.p.p., oltrechè degli artt. 1337 e 1375 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5)”, B.R. lamenta, come dalla medesima sintetizzato, l'”erronea statuizione circa la sussistenza di un valido consenso informato in relazione all’intervento del (OMISSIS) e omesso contraddittorio esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’intervento medesimo, che sono stati oggetto di discussione tra le parti”.

10. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1226,2043, 2056 e 2697 c.c.; artt. 61,62,113,115,116,132,191, 194 c.p.c. e art. 345 c.p.c., comma 3; artt. 118 disp. att. c.p.c.; artt. 2,3, 32 e 111 Cost. e conseguente violazione del principio costituzionale del diritto al risarcimento integrale del danno alla persona, oltrechè per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5)”, la B., come dalla stessa sintetizzato, lamenta l'”errata valutazione degli esiti permanenti; In omesso espletamento di CTU medico-legale al fine di accertare le effettive condizioni di salute e il contestato grado di invalidità; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’intervento medesimo, che sono stati oggetto di discussione tra le parti”.

11. Entrambi i motivi vanno rigettati stante l’accertamento in fatto operato dal giudice del merito sui punti in questione; nè sussistono i lamentati vizi motivazionali, nei limiti in cui tali vizi sono ancora rilevanti a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053), evidenziandosi, peraltro, che: a) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato – come nella specie comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; b) la sussistenza del consensc al trattamento chirurgico del (OMISSIS) è stata ritenuta dalla Corte di merito non solo sulla base dell’annotazione riportata nel diario del giorno (OMISSIS), come sostenuto dalla B., ma anche sulla base delle deduzioni della stessa attrice (v. sentenza impugnata, p. 11); c) le contestazioni circa “l’omessa valutazione di fatti decisivi della controversia oggetto di discussione tra le parti, consistenti nell’ulteriore danno non patrimoniale e dei danni patrimoniali dedotti dall’esponente” e la “motivazione… apparente, illogica e irriducibilmente contraddittoria con cui (il Giudice di appello) non ha… tenuto conto delle specifiche richieste risarcitorie formulate dalla sig.ra B.R. in primo grado e in appello”, così come formulate dalla ricorrente, risultano pure difettare di specificità, non essendo state le domande inerenti a tali richieste testualmente riprodotte nel motivo ad esse relativo e neppure risulta specificamente indicato in quali esatti termini siano stati dalla ricorrente espressamente allegati e precisati tali danni; dette censure, inoltre, non si rapportano specificamente alla motivazione espressa dalla Corte di merito in relazione alla quantificazione dei danni (v. p. 11); d) il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. 29/09/2017, n. 22799; Cass., ord., 20/08/2019, n. 21525).

12. Conclusivamente, vanno accolti i primi due motivi del ricorso dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e rigettati i motivi terzo e quarto di tale ricorso; va rigettato il ricorso di B.R., la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

13. Va disposto che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di B.G.R..

14. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente B., ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso della parte da ultimo indicata, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi del ricorso dell’Azienda Ospedaliera “Complesso Ospedaliero (OMISSIS)” e rigetta i motivi terzo e quarto di tale ricorso; rigetta il ricorso di B.R.; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione; dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di B.R.; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte di B.R., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso della parte da ultimo indicata, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2019.

collocamento del minore: il giudice deve effettuare una valutazione prognostica al fine di individuare il genitore più idoneo

19/05/2020 n. 9143 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. XXXX, già convivente more uxorio con YYYY., dalla quale aveva avuto un figlio di nome JJJJ, propose ricorso al Tribunale per i minorenni di Lecce, per sentir provvedere, ai sensi dell’art. 333 c.c., alla riorganizzazione delle competenze genitoriali, con l’esclusione della capacità genitoriale della madre e la disciplina dell’affidamento del figlio, in modo tale che egli potesse esercitare i diritti previsti dalla legge.

Si costituì la YYYY, e resistette alla domanda, assumendo che il figlio rifiutava la figura paterna per aver assistito a numerosi episodi di violenza posti in essere dal ricorrente nei confronti di essa resistente.

1.1. Con decreto dell’11 gennaio 2019, il Tribunale per i minorenni dispose il collocamento del padre e del figlio presso un’idonea comunità educativa.

2. Il reclamo proposto dalla YYYY è stato rigettato dalla Corte d’appello di Lecce con decreto dell’8 aprile 2019.

Premesso che il procedimento in esame era stato preceduto dalla proposizione di un analogo ricorso, rigettato dal Tribunale per i minorenni con decreto emesso il 26 marzo 2015, che aveva disposto l’affidamento del minore al Servizio sociale del Comune di Maglie, ai fini dell’immediato avvio di un percorso di mediazione o di attenuazione della conflittualità tra i genitori, e precisato che l’iter mediativo non aveva trovato attuazione, a causa del permanere di un’elevata conflittualità tra le parti, la Corte ha rilevato che erano rimasti ineseguiti anche i provvedimenti da essa adottati con Decreto del 10 giugno 2016, in sede di reclamo avverso il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c., con cui il Tribunale di Lecce aveva disciplinato l’esercizio del diritto di visita spettante al XXXX, mentre erano falliti i tentativi compiuti dal Servizio sociale per avviare un progetto di mediazione e sostegno al minore ed alla genitorialità, in esecuzione di un successivo decreto emesso dal Tribunale di Lecce il 20 luglio 2016.

Ciò posto, la Corte ha richiamato la relazione depositata dai c.t.u. nominati in primo grado, dalla quale emergevano la difficoltà per il minore di accettare la separazione tra i genitori e la conseguente necessità di operare uno specifico intervento con il coinvolgimento di un neuropsichiatra infantile, nonché quella di avviare un percorso di psicoterapia individuale per il trattamento dei dati personologici delle parti, al fine di approfondire certi vissuti traumatici della YYYY, incidenti sul processo di dipendenza attivato con il figlio, e di consentire al XXXX di sviluppare le sue capacità di comprensione, gestione e manifestazione dei vissuti emotivi. Rilevato che le relazioni successivamente trasmesse dai Consultori familiari e dal neuropsichiatra confermavano il rifiuto del minore di interagire con il padre e la presenza di un condizionamento da parte di figure parentali, in primo luogo della madre, ha ritenuto meritevoli di conferma le misure adottate in primo grado, affermando che, ai fini dei provvedimenti previsti dall’art. 333 c.c., non potevano assumere alcun rilievo i comportamenti penalmente illeciti ascritti dalla reclamante al XXXX, in assenza di una pronuncia giudiziaria quanto meno di primo grado. Ha aggiunto che un infortunio subito dal minore mentre si trovava a casa dei nonni era stato ridimensionato e ricondotto a cause accidentali, escludendo inoltre che il piccolo JJJJ avesse potuto subire danni a causa dei maltrattamenti posti in essere dal XXXX nei confronti della P. nel corso della convivenza, interrottasi pochi mesi dopo la sua nascita.

La Corte ha altresì escluso la necessità di disporre una nuova c.t.u., rilevando che le relazioni degli operatori delle strutture socio-sanitarie coinvolte, pur avendo rappresentato le problematiche personologiche del XXXX, avevano concordemente evidenziato la necessità di favorire la relazione tra il minore ed il padre, in autonomia rispetto alla madre, nonché la sostanziale chiusura di quest’ultima verso ogni progetto di mediazione e recupero della genitorialità, a causa di sentimenti personali di rifiuto nei confronti dell’uomo. Ha aggiunto che la scelta del regime residenziale del minore con il padre, in luogo di quello con la madre, costituiva l’unico strumento utilizzabile per ristabilire i rapporti tra padre e figlio, trovando giustificazione nella mancata modificazione dell’atteggiamento della donna, che consentiva di escludere la prospettiva di comportamenti resilienti da parte della stessa.

3. Avverso il predetto decreto la YYYY ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il XXXX ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, proposta dalla difesa del controricorrente in relazione al carattere provvisorio del provvedimento impugnato, costituente espressione di giurisdizione non contenziosa, e quindi inidoneo ad acquistare efficacia di giudicato.

La più recente giurisprudenza di legittimità, rimeditando il proprio precedente orientamento, anche alla luce delle modificazioni normative introdotte in materia di filiazione dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 e dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha infatti riconosciuto la proponibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con cui, in sede di reclamo, la corte d’appello abbia confermato, modificato o revocato provvedimenti de potestate adottati dal tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., osservando che tali provvedimenti hanno carattere decisorio e definitivo, in quanto incidenti su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, nonchè revocabili o modificabili solo in presenza di fatti nuovi, e pertanto idonei ad acquistare efficacia di giudicato rebus sic stantibus (cfr. Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32359; Cass., Sez. I, 25/07/2018, n. 19780; 21/11/2016, n. 13633). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche a provvedimenti, come quelli che dispongano l’affidamento ai servizi sociali, non ablativi ma comunque limitativi della responsabilità genitoriale, in quanto incidenti sulle modalità di esercizio della stessa, essendosi rilevato che tale misura non comporta alcuna modificazione nella qualificazione giuridica del provvedimento (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2018, n. 28998): allo stesso modo, deve ritenersi quindi operante in riferimento al decreto impugnato, con il quale la Corte d’appello, decidendo sul reclamo proposto dalla ricorrente, ha confermato il collocamento del controricorrente e del figlio minore presso una comunità educativa, disposto dal Tribunale per i minorenni a seguito del ricorso proposto dall’uomo ai sensi dell’art. 333 c.c.; non vi è infatti prova del carattere meramente provvisorio ed urgente del provvedimento, il quale, pur non avendo comportato la conclusione del procedimento dinanzi al Giudice minorile, e non prevedendo comunque una soluzione definitiva, risulta idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sulle posizioni delle parti, essendo destinato ad operare almeno fino a quando non venga meno la conflittualità che caratterizza attualmente i rapporti tra le stesse (cfr. Cass., Sez. VI, 24/ 01/2020, n. 1668).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 337-ter c.c., dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 32 Cost., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto irrilevanti i maltrattamenti e le violenze posti in essere dal M. nei confronti di essa ricorrente e del minore, a causa del mancato accertamento degli stessi in sede penale. Premesso infatti che nei confronti dell’uomo risultavano pendenti tre procedimenti penali per i reati di cui agli artt. 572, 582 e 585 c.p., sostiene che, nel richiamare la presunzione di innocenza, la Corte territoriale non ha considerato che la stessa opera come garanzia per l’imputato in sede penale, ma non costituisce prova d’innocenza in sede civile, ed ha quindi omesso di valutare il prevalente interesse del minore, il quale imponeva di procedere all’accertamento dei fatti indipendentemente dall’esito dei giudizi penali, nonchè di decidere sulla base del criterio civilistico del “più probabile che non”, anzichè secondo quello penalistico della certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

2.1. Il motivo è infondato.

Pur avendo impropriamente richiamato la presunzione d’innocenza, operante esclusivamente in sede penale, la Corte territoriale non ha affatto escluso la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti dalla YYYY al XXXX, essendosi limitata a negare il carattere decisivo dei procedimenti penali pendenti per l’accertamento degli stessi, non ancora pervenuti neppure alla pronuncia di una sentenza di primo grado, ed avendo pertanto proceduto ad un’autonoma valutazione dei predetti comportamenti, all’esito della quale ne ha ridimensionato la portata, sia sotto il profilo materiale che sotto quello della potenziale dannosità per l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore. Non possono pertanto ritenersi violati nè le disposizioni richiamate dalla ricorrente, che individuano l’interesse superiore del minore quale criterio fondamentale di valutazione cui devono ispirarsi tutte le decisioni riguardanti l’affidamento e la protezione dello stesso, nè il principio di autonomia e separazione, cui è improntata la vigente disciplina dei rapporti tra processo civile e processo penale, il quale postula che, al di fuori delle ipotesi di sospensione necessaria e delle altre previste dagli artt. 651 c.p.p. e segg., aventi carattere derogatorio, il processo civile, anche se riguardante un diritto il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che costituiscono oggetto di un giudizio penale, prosegua il suo corso senza essere influenzato da quest’ultimo, ed il giudice civile, pur potendo utilizzare gli elementi di prova acquisiti in sede penale, accerti autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale (cfr. Cass., Sez. VI, 3/07/2018, n. 17316; Cass., Sez. lav., 12/01/2016, n. 287; 10/03/2015, n. 4758).

3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omessa, insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, affermando che l’interesse superiore del minore imponeva di procedere, ai fini della scelta delle misure da adottare concretamente, ad un bilanciamento tra i rischi ed i benefici collegati alle diverse soluzioni, nonchè di formulare un giudizio prognostico in ordine alla possibilità ed ai tempi di recupero del rapporto genitoriale ed alla capacità dei genitori di riprendere un ruolo educativo ed affettivo. Rileva che, nel disporre l’ingresso del minore in comunità, con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, la Corte territoriale ha omesso di valutare se tale soluzione risultasse meno traumatica della continuità affettiva nella dimora materna, nonchè di esaminare l’ipotesi di una riemersione delle violenze familiari, avendo fondato il proprio convincimento su elementi valutativi della genitorialità privi di specificità e significatività, senza tener conto del parere contrario espresso dal curatore del minore, delle conclusioni dei c.t.u. e dei provvedimenti adottati dal Tribunale ordinario, che avevano escluso la sussistenza di comportamenti ostruzionistici di essa ricorrente.

3.1. Il motivo è inammissibile.

In tema di provvedimenti riguardanti i figli, questa Corte, nel confermare il ruolo fondamentale dell’interesse del minore, quale criterio esclusivo di orientamento delle scelte affidate al giudice, ha ripetutamente precisato che il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione non può in ogni caso prescindere dal rispetto del principio della bigenitorialità, nel senso che, pur dovendosi tener conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore (cfr. Cass., Sez. I, 8/04/2019, n. 9764; 23/09/2015, n. 18817; 22/05/2014, n. 11412). A tale criterio si è puntualmente attenuto il decreto impugnato, il quale, nell’esaminare le diverse soluzioni ipotizzabili per il collocamento del minore, ha conferito particolare rilievo all’esigenza di assicurare il recupero del rapporto con il padre, pregiudicato da una lunga interruzione dovuta allo atteggiamento di rifiuto manifestato dalla madre nei confronti dell’ex convivente; in quest’ottica, la Corte territoriale ha valutato il comportamento tenuto da entrambi i genitori nei rapporti con il figlio e la disponibilità manifestata da ciascuno di essi al superamento della conflittualità in atto tra loro, evidenziando gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di tale situazione sullo equilibrato sviluppo del minore, ed attribuendo quindi la preferenza, tra le varie alternative, al collocamento del piccolo JJJJ. con il padre presso una struttura educativa, ritenuto idoneo da un lato ad evitare il grave condizionamento psicologico determinato dal continuo contatto con la madre, dallo altro a consentire il superamento delle problematiche di tipo personologico manifestate dal padre, attraverso adeguati interventi psicoterapeutici. Nel censurare tale apprezzamento, la ricorrente non è in grado di individuare circostanze di fatto non considerate nel decreto impugnato, ma si limita ad insistere su elementi che hanno costituito oggetto di specifica valutazione, quali il distacco dall’ambiente familiare materno o i comportamenti violenti addebitati al padre, nonché sul parere contrario espresso dal curatore del minore e dal c.t.u., non aventi carattere vincolante per la Corte territoriale, la quale, nel discostarsene, ha ampiamente motivato la scelta effettuata. Nel lamentare l’omissione e l’illogicità della motivazione, la ricorrente omette poi d’indicare lacune argomentative o carenze logiche talmente gravi da impedire di ricostruire il ragionamento seguito per giungere alla decisione, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257).

4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 26 e 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77, osservando che, nel disporre il collocamento del minore in comunità con il padre, autore delle violenze e dei maltrattamenti, il decreto impugnato non ha tenuto conto dell’obbligo, emergente dalle predette disposizioni, di prendere in considerazione, ai fini della determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli, gli episodi di violenza rientranti nell’ambito applicativo della Convenzione, in modo tale da evitare di compromettere i diritti e la sicurezza delle vittime o dei bambini.

4.1. Il motivo è infondato.

La Corte di merito, pur avendo ridimensionato la portata degli episodi di violenza addebitati dalla ricorrente all’ex convivente, non ha affatto omesso di adottare le misure volte a garantire i diritti ed i bisogni del minore, nello interesse superiore dello stesso, e di prendere in considerazione, ai fini del suo collocamento, l’esigenza di far sì che il recupero dei rapporti con il padre non vada a detrimento della sua sicurezza: la soluzione adottata, pur non corrispondendo a quella suggerita dal c.t.u., è stata infatti individuata sulla base di ampi approfondimenti istruttori, demandati sia al consulente che ai servizi sociali, conformemente a quanto prescritto dell’art. 26 cit., comma 2, per i bambini che siano stati testimoni di ogni forma di violenza, mentre la scelta di trasferire il minore presso una struttura educativa, invece di collocarlo direttamente presso il padre, risponde proprio alle finalità di tutela previste dell’art. 31, comma 2, essendo volta ad assicurare una graduale ripresa dei rapporti con la collaborazione e sotto la vigilanza di persone professionalmente qualificate.

5. Il ricorso va pertanto rigettato.

La natura della causa e la peculiarità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione delle spese processuali.

Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020

permesso di soggiorno per motivi umanitari: l'inattendibilità del racconto del richiedente non giustifica il rigetto

21/04/2020 n. 8020 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Caltanissetta confermava l’ordinanza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da XXXX, nato a (Pakinstan), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e ss.; in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. La Corte territoriale riteneva inattendibile il racconto del richiedente – che aveva riferito di temere nel suo paese di essere perseguitato dai talebani, che avrebbero voluto addestrarlo alla guerra santa e a seguito del suo rifiuto ne avevano ucciso il padre rilevandone le contraddittorietà ed incongruenze. Negava quindi il riconoscimento dello status di rifugiato nonché la protezione sussidiaria; riferiva che nel rapporto EASO del 2016 la situazione del Pakistan con riferimento alla regione di provenienza del richiedente appariva critica, registrandosi operazioni a terra da parte delle forze militari pakistane contro gruppi militanti, che avevano continuato attacchi terroristici ed uccisioni mirate, ma che nel report aggiornato all’ottobre 2018 il livello di violenza indiscriminata appariva significativamente ridotto, tanto che il distretto di Nowshera non era preso in considerazione tra i più colpiti da fatti di violenza con esito mortale.

3. Aggiungeva che seppure si profilava un recente radicamento dell’appellante nel territorio nazionale, la complessiva inattendibilità del racconto non dava adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine tale da configurare una specifica condizione di vulnerabilità nel caso di rientro.

4. Per la cassazione della sentenza XXXX, ha proposto ricorso, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c.; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente deduce come primo motivo la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,7,14 e 17; D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 32, comma 3; D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5) comma 6, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello valutato compiutamente la situazione personale dell’odierno ricorrente e la documentazione prodotta in ordine alla situazione del Pakistan, per avere motivato in maniera generica ed insufficiente e, infine, per avere omesso l’esame della domanda di protezione umanitaria. Lamenta che la Corte territoriale, nel negare il riconoscimento della misura di protezione sussidiaria nonché per contraddire il racconto offerto dal richiedente, avrebbe omesso il doveroso vaglio circa la sua credibilità soggettiva e avrebbe omesso di attivare i poteri ufficiosi necessari ad una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale in Pakistan. Sostiene altresì che la Corte d’Appello avrebbe limitato la propria indagine a fonti informative parzialmente non attuali interpretando non correttamente quanto dichiarato alla Commissione territoriale e senza tenere conto di alcune circostanze decisive per la decisione, quale la denuncia sporta nel settembre del 2015 dal padre del ricorrente (che produce).

6. Come secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione è apparente ordine alla valutazione di non credibilità da parte della Corte d’Appello sulla vicenda personale da lui narrata. Sostiene che sarebbe illegittimo il rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria basato esclusivamente sulla non credibilità del racconto del richiedente. Sostiene che la reiezione di tale domanda non può essere frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due richieste principali, senza alcuna indagine sulle condizioni poste a base del peculiare soggiorno temporaneo, da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani, ancorché non sufficienti ad interare le condizioni per le altre forme di protezione.

7. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Questa Corte ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018).

8. Il richiedente è dunque tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositiva, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 15794 del 12/06/2019).

9. Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento di fatto così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12/11/2019, n. 29279).

10. Nel caso, la Corte d’Appello ha compiuto il dovuto esame delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni attendibili ed aggiornate relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicché la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure adeguatamente censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

11. A tale proposito, occorre ribadire, come precisato da Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 e 8054, che l’art. 360 c.p.c., n. 51, nella formulazione vigente, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

12. Nel caso, il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di un documento, ovvero della denuncia sporta dal padre del 2015, e non di un fatto storico. Peraltro, neppure riferisce in quale momento e sede processuale tale denuncia sia stata prodotta, sicché la produzione effettuata in questo giudizio di legittimità risulta inammissibile ex art. 374 c.p.c..

13. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. Questa Corte ha chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019), che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

14. La Corte d’Appello ha motivato il rigetto della domanda di protezione umanitaria sulla base della complessiva inattendibilità del racconto del richiedente, inidoneo a dare adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine, tale da profilare una specifica situazione di vulnerabilità in caso di rientro.

15. Tale soluzione si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo il quale il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti (Cass. n. 10922 del 18/04/2019, Cass. n. 21123 del 07/08/2019).

16. Il giudice di merito, a fronte della documentata integrazione in Italia risultante dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avrebbe dovuto quindi valutare comparativamente la situazione cui incorrerebbe il richiedente in caso di rientro nel Paese di origine, in relazione alla situazione ivi presente in tema di compromissione dei diritti umani fondamentali.

17. Segue l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, e la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione che dovrà procedere a nuovo esame in coerenza con i principi esposti e dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

18. Non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente vittorioso, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2020

nigeria: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è subordinato alla presenza di un'effettiva situazione di vulnerabilità

06/04/2020 n. 7733 - Sezione I

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Leggi tutto

protezione internazionale: se non c'è la videoregistrazione del colloquio il giudice è tenuto a fissare l'udienza di comparizione parti

06/04/2020 n. 7720 - Cassazione Civile -Sezione I

1. AAAA, cittadino (OMISSIS), ricorre avverso il decreto in data 4 maggio 2018 n. 1893/2018, con il quale il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale.

1.1. Con il primo motivo, in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1 e art. 21, comma 1, così come convertito dalla L. n. 46 del 2017, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e art. 77 Cost., comma 4, per mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza nell’emanazione dello stesso decreto legge, per quanto concerne il differimento dell’efficacia temporale, e, quindi, dell’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale.

1.2. Con il secondo motivo, sempre in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, vulnerando il rito camerale ex art. 737 c.p.c., così come disciplinato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, nuovo art. 35-bis, commi 9, 10 e 11 il principio del contraddittorio e quello della parità processuale delle parti.

1.3. Con il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 9, 10 e 11, come introdotti dalle disposizioni del D.L. n. 13 del 2017, art. 6, lett. g), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46 del 2007, avendo il Tribunale omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti obbligatoriamente prevista dalla legge, nonostante l’espressa, corrispondente istanza del ricorrente. In subordine, chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24, commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2, 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU.

1.4. Con il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), art. 14, lett. c) e art. 3 e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva reputato insussistenti i presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione sussidiaria.

1.5. Con il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e succ. mod., nonchè omesso esame di un fatto decisivo e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva giudicato insussistenti i seri motivi di carattere umanitario rilevanti per il rilascio, in suo favore, del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie: segnatamente essendovi stata omessa considerazione delle peripezie affrontate dal deducente nel viaggio migratorio attraverso la Libia.

2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il decreto impugnato deve essere annullato per le ragioni di seguito indicate.

1.Le questioni di legittimità costituzionale delle norme del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 sono già state esaminata da questa Corte e ritenute manifestamente infondate.

1.1. Quella che si chiede di sollevare in riferimento agli art. 3 e 77 Cost., è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù dell’osservazione secondo la quale la disposizione transitoria dettata dal D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, non si pone in contrasto con i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che presiedono all’emanazione dei decreti legge, essendo connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale volto a consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1- n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799 – 02; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

1.2. Quella che si chiede di sollevare in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù del rilievo che il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non venga fissata l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata soltanto alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in assenza della trattazione orale le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01). Inoltre, l’imposizione del rito camerale non contrasta con i principi costituzionali invocati neppure in relazione alla prevista non reclamabilità del decreto di primo grado, trovando la stessa ragionevole giustificazione nell’esigenza di accelerare la definizione dei giudizi in questione, aventi ad oggetto diritti fondamentali, ed essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di escludere l’appellabilità della decisione di primo grado, con riguardo ai giudizi che sollecitano una pronta soluzione, dal momento che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non trova copertura generalizzata a livello costituzionale (Corte Cost., sent. n. 199 del 2017 e 243 del 2014; ord. n. 42 del 2014).

2. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Torino, onde escludere la necessitata fissazione dell’udienza non basta che sia in atti il verbale di audizione dinanzi alla Commissione territoriale: difatti, nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione Territoriale innanzi all’autorità giudiziaria, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, per violazione del principio del contraddittorio.

Tale interpretazione è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 ed 11 che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale. Si tratta di orientamento condiviso da parte di questa Corte di legittimità (Sez. 6 – 1, n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445 01; Sez. 1 -, n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815 – 01; Sez. 6 1, n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463 – 01; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 05), cui il Collegio intende senz’altro dare continuità.

3. In accoglimento del terzo motivo, assorbiti i restanti, il decreto impugnato deve essere, quindi, cassato. Segue il rinvio al Tribunale di Torino, il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio esposto e rinnoverà l’esame dei profili di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo, assorbiti i restanti, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Torino.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

fecondazione medicalmente assistita: solo una persona può essere menzionata come madre

03/04/2020 n. 7668 - Sezione I

FATTO 
1.- La Corte d’appello di Venezia, con decreto del 10 maggio 2018, ha rigettato il reclamo delle signore AAAA e BBBB avverso il decreto del Tribunale di Treviso che, a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile, aveva rigettato la loro richiesta di ricevere la dichiarazione congiunta di riconoscimento della bambina, CCCC, nata a (OMISSIS) da fecondazione assistita praticata all’estero da BBBB.

1.1.- La Corte, premesso che la domanda aveva ad oggetto la rettifica, inammissibile nei termini richiesti, di un atto di nascita formato in Italia, ha osservato che l’ufficiale di stato civile non aveva il potere di inserire in un atto dello stato civile dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle consentite dalla legge (art. 11, comma 3) – come quella relativa alla presunta filiazione tra la nata e la S., quale seconda madre -, ostandovi il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, che vieta di manipolare o integrare gli atti dello stato civile.

2.- BBBB e AAAA ricorrono per cassazione, sulla base di sette motivi, illustrati da memoria, notificato al PG presso la Corte d’appello di Venezia.

DIRITTO 
1.- La preliminare richiesta del Procuratore Generale di rimessione alle Sezioni Unite non può essere accolta, avendo il ricorso ad oggetto una tipologia di controversia, in tema di diritti della persona, sulla quale la Sezione può esercitare appieno la funzione nomofilattica di cui all’art. 65 ord. giud..

2.- Il decreto impugnato, laddove – per escludere il potere dell’ufficiale di stato civile di modificare l’atto di nascita di CCCC nel senso invocato, inserendovi il riferimento alla doppia maternità delle signore BBBB e AAAA – ha osservato che si trattava di atti redatti secondo formule e modalità tipiche e predeterminate con decreti del Ministero dell’interno, ha in realtà inteso implicitamente e, per quanto si dirà, correttamente – pronunciarsi sul fondo della domanda. La quale sostanzialmente contestava la “corrispondenza” “dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa” (cfr. Cass. n. 13000 del 2019, n. 21094 del 2009) e chiedeva di ripristinarla, emendando l’atto medesimo da un presunto vizio relativo all’esatta indicazione dei genitori, ciò non essendo precluso dal tipo di procedimento instaurato, di rettificazione degli atti dello stato civile, che anche nella disciplina vigente, dettata dal D.P.R. n. 396 del 2000, è volto ad eliminare le “difformità tra la situazione di fatto, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dall’atto dello stato civile, per un vizio comunque o da chiunque originato nel procedimento di formazione di esso” per un vizio dell’atto stesso (cfr. Cass. cit.).

Nel suddetto procedimento, infatti, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio rispetto alla realtà generativa e di discendenza genetica e biologica nonchè, come nella specie, alla prospettata realtà fattuale derivante dal consenso prestato dalla S. come madre (intenzionale).

3.- In tal senso definita la materia del contendere, sulla quale è calibrata l’effettiva ratio decidendi enucleabile dalla decisione impugnata, le ulteriori argomentazioni motivazionali – circa l’ipotizzata nullità della procura alle liti per conflitto di interessi di BBBB, quale rappresentante della minore, e il difetto di legittimazione ad agire di quest’ultima – sono svolte dalla Corte veneziana in via incidentale e ad abundantiam. Si spiega dunque perchè i primi tre motivi di ricorso siano inammissibili per difetto di interesse, appuntandosi su argomentazioni prive di influenza sul dispositivo della decisione impugnata (cfr. Cass. n. 8755 del 2018, n. 22380 del 2014, n. 23635 del 2010).

4.- Gli altri motivi, dal quarto al settimo, devono essere esaminati congiuntamente, essendo reciprocamente connessi.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000 cit., art. 11, comma 3 e art. 12, comma 1, per avere affermato che l’ufficiale di stato civile non ha il potere-dovere di adeguare le formule ministeriali previste per la redazione dell’atto di nascita, inserendovi le annotazioni necessarie in relazione alle circostanze della fattispecie concreta.

Con il quinto motivo, che denunciano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000 cit., art. 11, comma 3 e art. 12, comma 1, anche in relazione all’art. 451 c.c., le ricorrenti assumono che la Corte di merito avrebbe ignorato il principio secondo cui gli atti dello stato civile devono rispecchiare la disciplina sostanziale degli status che è posta a base degli effetti giuridici da certificare, disconoscendo la liceità del percorso riproduttivo seguito dalle ricorrenti; di conseguenza, sarebbe stata somministrata al nato una tutela dimidiata solo perchè il partner consenziente e convivente della partoriente era di sesso femminile, con violazione del principio di bigenitorialità.

Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Cedu, in tema di tutela della vita privata e familiare e di non discriminazione, e dell’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991.

Il settimo motivo denuncia omessa pronuncia sulla domanda di rettificazione dei dati personali, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 7, comma 3, lett. b) e art. 13 del Regolamento UE n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, e violazione del diritto alla corretta rappresentazione dei dati personali.

4.1.- I suddetti motivi, pur cogliendo in parte la ratio decidendi a sostegno della decisione impugnata, sono infondati.

Premesso che una delle ricorrenti, entrambe cittadine italiane conviventi, è madre biologica della piccola L. (che ha partorito) e della quale ha la responsabilità genitoriale ( C.F.) e che l’altra ( S.D.) dichiara di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita cui si è sottoposta la C., la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) cui possono accedere solo le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi” (L. n. 40 del 2004, art. 5), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (art. 12, comma 2).

Tale divieto – desumibile anche da altre disposizioni (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; D.P.R. 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 7, comma 1, lett. a) che implicitamente (ma chiaramente) postulano che una sola persona abbia diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.

La Corte costituzionale lo ha ritenuto conforme a Costituzione con la sentenza n. 221 del 2019. La quale ha premesso che “la possibilità dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quo modo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale”, ma al suddetto interrogativo la Corte ha dato risposta negativa seguendo “due idee di base”.

La prima “attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o in fertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”.

La seconda “attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre”.

La validità delle suddette conclusioni non è inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – ampiamente richiamati dalle ricorrenti – sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali (cfr. Cass. n. 12962 del 2016) e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 19599 del 2016, n. 14878 del 2017).

Ed infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, “vi è (…) una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela (…) l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (…) La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole (…) che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza””.

Per altro verso, “il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione” (in tal senso, Corte Cost. n. 221 del 2019). La possibilità di ottenere il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne dello stesso sesso si giustifica in virtù del fatto che diverso è il parametro normativo applicabile. A venire in rilievo, in tal caso, è il principio di ordine pubblico (L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 16 e art. 64, comma 1, lett. g) con il quale si è ritenuto non contrastare il divieto normativamente imposto in Italia alle coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle PMA, in relazione ad atti validamente formati all’estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità (e conservazione) dello “status filiationis” acquisito all’estero, unitamente al valore della circolazione degli atti giuridici, quale manifestazione dell’apertura dell’ordinamento alle istanze internazionalistiche, delle quali può dirsi espressione anche il sistema del diritto internazionale privato, alla luce dell’art. 117 Cost., comma 1. E ciò diversamente dalle coppie omosessuali maschili, per le quali la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la pratica distinta della maternità surrogata (o gestazione per altri) che è vietata da una disposizione (L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6) che si è ritenuta espressiva di un principio di ordine pubblico, a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, salva la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione (Cass., sez. un., n. 12193 del 2019).

Non è dunque pertinente il riferimento, sul quale le ricorrenti insistono, alla nozione ristretta di ordine pubblico, essendo l’atto di nascita che si chiede di rettificare formato in Italia (dove la bambina è nata) e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita sia avvenuta all’estero.

5.- Il ricorso è rigettato. Le spese sono compensate, in considerazione della complessità e novità delle questioni dibattute.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2020

protezione internazionale: l'omosessualità del richiedente deve essere provata

31/03/2020 n. 7623 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. – OMISSIS ricorre per un unico articolato motivo, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 28 maggio 2018 con cui la Corte d’appello di Ancona, pronunciando su appello dell’amministrazione ed in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la sua domanda di protezione internazionale o umanitaria, in conformità con quanto aveva inizialmente fatto la competente Commissione territoriale.

2. – Non spiega difese l’amministrazione intimata.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 8, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 9, comma 2, art. 13, comma 1 bis, e art. 27, comma 1, violazione e falsa applicazione dei suddetti articoli di legge anche quale conseguenza della violazione dell’art. 116 c.p.c., violazione dell’obbligo di congruità dell’esame e di cooperazione istruttoria.

Secondo il ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che dalla sua stessa narrazione non potesse desumersi la condizione di omosessualità posta a fondamento della domanda di protezione, risultando che egli avesse intrattenuto soltanto due relazioni omosessuali, una in età adolescenziale, l’altra mercenaria. Il giudice di merito, inoltre, nel valutare come incongruente, generico e non credibile il racconto del richiedente, non aveva indicato le ragioni su cui aveva basato il proprio convincimento, nè aveva doverosamente proceduto a richiedere al medesimo gli eventuali chiarimenti ritenuti necessari. Parimenti, la Corte territoriale non avrebbe potuto porre in dubbio l’orientamento sessuale del richiedente per il fatto che, una volta stabilitosi in Italia, egli non risultava aver frequentato ambienti gay. Erronea, ancora, era l’affermazione contenuta in sentenza in ordine all’assenza di una prova documentale della condizione di omosessualità, con l’aggiunta, addirittura, che la narrazione svolta fosse priva di riscontro per la mancanza di prove “dell’esistenza di un eventuale procedimento penale nei suoi confronti, nè di attività di ricerca da parte della polizia del Gambia, nè di atti persecutori nei suoi confronti”. Infine la Corte d’appello avrebbe mancato di approfondire la situazione del Paese di origine.

2. – Il ricorso è inammissibile.

2.1. – L’inammissibilità discende anzitutto dalla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dal momento che il ricorrente ha posto a sostegno del ricorso le dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, il provvedimento di quest’organo nonché le argomentazioni difensive rappresentate nell’atto introduttivo del giudizio di fronte al Tribunale: ebbene, nessuno di tali atti è “localizzato” (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475), ed anzi non risulta dal ricorso neppure che siano stati prodotti i fascicoli di parte delle fasi di merito.

L’assenza di tale documentazione, d’altronde, non rileva soltanto sul piano, peraltro insuperabile, dell’inosservanza dell’adempimento formale prescritto dalla norma, ma ridonda su quello contenutistico, giacchè la Corte di cassazione non è neppure posta in condizioni di scrutinare la doglianza del ricorrente, nel suo nucleo essenziale, laddove egli afferma che il giudice d’appello si sarebbe limitato a richiamare “quanto già dedotto dalla Commissione territoriale” ed avrebbe “completamente omesso di valutare le ragioni introduttive del giudizio e accolte dal Giudice di primo grado”.

2.2. – Il ricorso è inoltre inammissibile per violazione del numero 3 dello stesso art. 366 c.p.c., il quale richiede che il ricorso contenga a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa.

Si è accennato che, nel caso in esame, il Tribunale aveva accolto la domanda del richiedente, accordandogli “lo status di rifugiato” (tanto riferisce il ricorrente a pagina 5 del ricorso). Orbene, nulla è detto in ricorso nè della domanda rivolta al Tribunale, nè del contenuto della decisione di quest’ultimo, nè del contenuto dell’atto d’appello dell’amministrazione, nè delle difese svolte dal OMISSIS, nè dell’eventuale riproposizione, da parte sua, di domande ed eccezioni non accolte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.: sicchè questa Corte non è in grado di verificare se le questioni sollevate siano tuttora “vive”, ovvero – e questa è la essenziale ragione della previsione normativa – se si tratti di questioni coperte da giudicato o comunque abbandonate.

2.3. – In ogni caso il ricorso è inammissibile perché totalmente versato in fatto.

Nel motivo, difatti, non si discorre affatto del significato e della portata applicativa delle norme richiamate in rubrica, ma solo della concreta applicazione che il giudice di merito ne ha fatto, ritenendo che la narrazione posta dal richiedente a fondamento della domanda fosse generica, scarsamente credibile e stereotipata.

Come è noto, infatti, dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va difatti tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Ciò detto, vale osservare che la Corte territoriale, nel ritenere sostanzialmente implausibile la narrazione del richiedente, ha, contrariamente a quanto da questi sostenuto in ricorso, esplicitato le ragioni del proprio opinamento in modo sintetico, ma ben comprensibile. OMISSIS, difatti, aveva sostenuto di essersi sforzato di mantenere segreta la sua relazione omosessuale con un cittadino canadese, e, tuttavia, non si sa come, un mattino si erano presentati presso la sua abitazione uomini delle forze dell’ordine che avevano sparato a sua sorella ed arrestato la madre ed il cittadino canadese, mentre lui era immediatamente scappato: al che la Corte territoriale ha obiettato che siffatti eventi presupponevano la pendenza di un procedimento penale contro di lui, del quale non vi era invece alcuna traccia non solo documentale ma neppure narrativa. Quanto alla situazione del Gambia, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza del giuramento del nuovo presidente del Paese, in data 18 febbraio 2017, e la sua promessa di democrazia, libertà, progresso e benessere, a chiusura della precedente dittatura. E proprio tale complessiva valutazione di merito il ricorrente ha inammissibilmente attaccato, con lo scopo di ribaltarla.

3. – Nulla per le spese. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020