espulsione nel caso in cui il permesso di soggiorno non venga rinnovato tempestivamente

31/03/2020 n. 7619 - SEZIONE I

Fatto

Con ordinanza del 25.9.18, il giudice di pace di Torino rigettò l’opposizione proposta da AAAA avverso il decreto d’espulsione emesso dal Prefetto di Torino il 27.6.18, osservando che: la ricorrente era titolare del permesso di soggiorno, emesso dal Questore di Asti il 23.2.16; lo stesso Questore rigettò l’istanza di rinnovo del permesso, con provvedimento emesso il 13.9.18, in quanto la ricorrente aveva tardivamente inviato la documentazione finalizzata al rinnovo del permesso, oltre un anno dalla relativa scadenza, non ottemperando altresì all’invito a presentarsi per i rilievi fotodattiloscopici, prescritti dall’art. 5, comma 2bis TUI; il Prefetto aveva escluso i motivi umanitari o altri gravi motivi di carattere personale, D.P.R. n. 394 del 1999, ex art. 11, comma 1, lett. c) ter, – ovvero di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 -; dall’intervista effettuata ed allegata in atti della Pubblica Amministrazione risultava che la ricorrente non aveva chiesto il termine per la partenza volontaria; era stato congruamente motivato il rischio di fuga della ricorrente.

La AAAA ricorre in cassazione con due motivi.

Non si è costituita l’intimata Prefettura cui il ricorso è stato notificato presso l’Avvocatura dello Stato.

RITENUTO

Con il primo motivo si denunzia l’omessa valutazione delle condizioni che escludono l’espulsione automatica dello straniero, atteso che, pur in caso di ritardo nel rinnovo del permesso di soggiorno, l’espulsione non sarebbe legittima nel caso in cui l’interessato possa dimostrare la persistenza dei requisiti legittimanti il rinnovo stesso.

Con il secondo motivo si deduce l’omessa valutazione della mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno, non sussistendo i presupposti normativi dell’espulsione dello straniero non appartenente all’area UE, in quanto: non era stata accertata la pericolosità della ricorrente, nè sussistevano le fattispecie dell’ingresso illegale e del soggiorno irregolare; l’ordinanza impugnata era stata emessa nella pendenza dei termini per proporre ricorso avverso il diniego di rinnovo, presentato dalla ricorrente il 12.10.18.

I due motivi, in quanto tra loro connessi, sono esaminabili congiuntamente e sono infondati alla luce dell’orientamento di questa Corte – cui il collegio intende dare continuità – secondo cui in tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare, al momento dell’espulsione, l’assenza del permesso di soggiorno perché non richiesto (in assenza di cause di giustificazione), revocato, annullato ovvero negato per mancata tempestiva richiesta di rinnovo, mentre è preclusa ogni valutazione, anche ai fini dell’eventuale disapplicazione, sulla legittimità del relativo provvedimento del Questore trattandosi di sindacato che spetta unicamente al giudice amministrativo, il giudizio innanzi al quale non giustifica la sospensione di quello innanzi al giudice ordinario attesa la carenza, tra i due, di un nesso di pregiudizialità giuridica necessaria, nè la relativa decisione costituisce in alcun modo un antecedente logico rispetto a quella sul decreto di espulsione” (Cass., SU, n. 22217/06; n. 12976/16; n. 15676/18).

Ne consegue che, nel caso concreto, ciò che rileva è l’accertamento, al momento dell’espulsione, della mancanza del permesso di soggiorno perché scaduto e non rinnovato, essendo irrilevante la circostanza della pendenza dei termini per impugnare il diniego di rinnovo.

Inoltre, va rilevato che la ricorrente non ha dedotto di aver presentato una domanda di rinnovo, seppure tardiva.

Nulla per le spese, attesa la mancata costituzione della parte intimata; inoltre, dato l’oggetto del giudizio, non s’applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

pendenza del giudizio di divorzio ed efficacia dei provvedimenti economici adottati in sede di separazione

27/03/2020 n. 7547 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTO
Nel giudizio di separazione personale dei coniugi AAAA e BBBB, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 2 agosto 2017, in parziale accoglimento del gravame della AAAA e in riforma della sentenza impugnata, aumentava a complessivi Euro 750,00 il contributo di mantenimento (di cui Euro 450,00 per la moglie e Euro 300,00 per la figlia minore) imposto al M. da (OMISSIS), in considerazione del fatto che nel giudizio di divorzio le somme dovute dal BBBB erano state determinate in sede presidenziale (in complessivi Euro 800,00) a decorrere dal mese di (OMISSIS), mentre riteneva congruo il contributo di mantenimento determinato in sede di separazione sino al mese di (OMISSIS).

Avverso questa sentenza il BBBB propone ricorso per cassazione, con il quale sostiene che il giudice della separazione avrebbe indebitamente sovrapposto la propria valutazione sulle statuizioni economiche conseguenti alla separazione a quella adottata dal giudice nel parallelo giudizio di divorzio; infatti, egli assume che la Corte territoriale non aveva il potere di rideterminare il contributo di mantenimento in sede di separazione, essendo pendente il giudizio di divorzio nel corso del quale l’ordinanza presidenziale del 14 ottobre 2016 aveva implicitamente valutato l’intero arco temporale dall’inizio dello stesso giudizio, confermando il contributo di mantenimento già fissato dal tribunale in sede di separazione. La AAAA resiste con controricorso e memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, con un unico motivo che imputa alla Corte territoriale di avere disciplinato i rapporti economici tra i coniugi, in relazione ad un periodo già regolato dall’ordinanza del 14 ottobre 2016 resa in sede presidenziale nel parallelo giudizio di divorzio che, pur avendo modificato il contributo economico dovuto dal BBBB a partire da (OMISSIS), aveva implicitamente valutato l’intero arco temporale intercorrente dall’inizio dello stesso giudizio (in data 6 agosto 2012) e confermato l’entità del contributo di mantenimento già inderogabilmente fissato (e non più modificabile) dal tribunale in sede di separazione.

Il ricorso è infondato.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui il giudice della separazione è investito della potestas iudicandi sulla domanda di attribuzione o modifica del contributo di mantenimento per il coniuge e i figli anche quando sia pendente il giudizio di divorzio, a meno che il giudice del divorzio non abbia adottato provvedimenti temporanei e urgenti nella fase presidenziale o istruttoria (Cass. n. 27205 del 2019), i quali sono destinati a sovrapporsi a (e ad assorbire) quelli adottati in sede di separazione solo dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza. Di conseguenza, i provvedimenti economici adottati nel giudizio di separazione anteriormente iniziato sono destinati ad una perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimoniale per effetto delle statuizioni (definitive o provvisorie) rese in sede divorzile (Cass. n. 1779 del 2012).

Si spiega in tal modo perché la pronuncia di divorzio, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporti la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale (o di modifica delle condizioni di separazione) iniziato anteriormente e ancora pendente, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (tra le tante Cass. n. 5510 e 5062 del 2017).

Nella specie, il giudice della separazione con la sentenza impugnata non è intervenuto impropriamente a modificare le statuizioni economiche rese in sede di divorzio (cfr. Cass. n. 17825 del 2013), ma ha fissato la decorrenza del contributo di mantenimento a carico del BBBB fino al mese di settembre 2015, senza dunque interferire con le statuizioni economiche emesse in sede divorzile a decorrere dal mese di (OMISSIS).

Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro4200,00 per spese e accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

responsabilità ex art. 2051 codice civile: spetta all'ente provare che il danno era evitabile

27/03/2020 n. 7578 - Cassazione Civile - Sezione III

MASSIMA 

La responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

FATTI DI CAUSA
Omissis, all’epoca dei fatti un bambino di nove anni, è caduto da uno scivolo del parco giochi del Comune di OMISSIS.

I suoi genitori hanno agito nei confronti dell’ente territoriale sia in proprio che quali rappresentanti del figlio per il risarcimento dei danni, in particolare quelli alla persona, dovuti ad una frattura dell’omero, che il ragazzo ha riportato proprio a seguito di quella caduta.

Secondo gli attori, il danno si sarebbe verificato a causa di un difetto della pedana dello scivolo, e dunque sarebbe danno da ricondurre alla responsabilità da custodia del Comune.

Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo non chiara la dinamica dei fatti già dalla lettura stessa dell’atto di citazione e dal suo confronto con la narrazione fatta nella querela presentata dai genitori subito dopo il fatto; non ha dunque ammesso le prove ritenendole superflue.

La corte di appello ha valutato come inammissibile il gravame, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., ossia stimando che non avesse alcuna possibilità di venire accolto, e di conseguenza lo ha rigettato in limine.

I genitori di Omissis ricorrono per Cassazione con tre motivi, tutti rivolti verso la sentenza di primo grado.

V’è costituzione del Comune, che oltre a chiedere il rigetto nel merito, eccepisce l’inammissibilità del ricorso e deposita memorie.

DIRITTO 
1. I ricorrenti impugnano la decisione di primo grado, in quanto la sentenza di appello ha solamente ritenuto inammissibile in limine l’impugnazione, e non ha dunque pronunciato nel merito.

La decisione di primo grado ritiene infondata la pretesa di risarcimento assumendo come poco chiare le modalità del fatto, ed anzi del tutto contraddittorie, se si confrontano con quelle esposte nella querela.

In particolare, mentre nella citazione si sostiene che il bambino è caduto perchè la pedana non ha retto, nella querela sarebbe caduto inciampando.

Ciò induce il giudice di merito a ritenere superflue le prove richieste, che nulla apporterebbero a chiarimento della vicenda.

2.- I ricorrenti propongono tre motivi, con i quali lamentano l’uso delle presunzioni e la contraddittorietà della motivazione.

2.1- Con il primo motivo lamentano violazione dell’art. 132 c.p.c. e artt. 2729 e 2697 c.c..

Secondo i ricorrenti, il giudice di merito ha errato nel trarre la sua conclusione esclusivamente dalla esposizione dei fatti resa in citazione, che tra l’altro non era affatto lacunosa nè in contraddizione con altre diverse narrazioni.

Piuttosto avrebbe dovuto coerentemente ammettere le prove per consentire la dimostrazione di quei fatti che, dall’esame del solo atto introduttivo, non potevano ovviamente ritenersi come provati, o viceversa come inverosimili.

2.1.- Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione a quanto detto con il primo, ossia per via della illogicità e erroneità della mancata ammissione della prova, che ha portato a decidere in assenza di qualsiasi risultanza istruttoria.

2.2. Con il terzo motivo si lamenta in particolare violazione dell’art. 2051 c.c.. Il giudice di merito aveva ritenuto, in subordine, che comunque non era provato che il difetto della pedana fosse una insidia non visibile.

Secondo i ricorrenti il concetto di insidia è stato erroneamente ricondotto dal giudice alla responsabilità per custodia, che invece non lo contempla e non lo richiede come necessario.

3.- Va però preliminarmente considerato che il Comune di OMISSIS eccepisce l’inesistenza della notifica del ricorso per Cassazione.

Secondo il controricorrente, l’atto è stato notificato al difensore costituito nel primo grado di giudizio, e non a quello intervenuto in appello.

Il difensore domiciliatario del primo grado, infatti, è stato revocato e sostituito in secondo grado da altro difensore, ed era a quest’ultimo che andava notificato il ricorso, non già a quello ormai revocato e non più domiciliatario.

L’eccezione è infondata.

Ritiene il Collegio di dover dare seguito alla decisione delle Sezioni unite, n. 14916/2016, secondo cui ” L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603 01); “Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicchè i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640604 – 01).

La notifica de qua deve pertanto ritenersi non “inesistente”, in quanto compiuta comunque in un luogo che presenta un collegamento con il destinatario, consistente nel domicilio del precedente difensore (da ultimo in tal senso Cass. 1798/ 2018), ma semmai nulla, con conseguente però sanatoria dovuta alla costituzione del destinatario.

4.- Nel merito il ricorso è fondato.

Lo sono tutti e tre i motivi.

I primi due attengono alla decisione del giudice di merito di non ammettere le prove e di ritenere infondata la domanda, semplicemente sulla base della contraddizione tra quanto esposto in citazione e quanto riferito nella querela.

Secondo i ricorrenti la tesi del giudice di merito sarebbe viziata da violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè da contraddittorietà manifesta della motivazione e da violazione delle norme sull’onere della prova (art. 2697 c.c.). La fondatezza die motivi deriva da quanto segue.

Va ricordato innanzitutto che una motivazione è sufficiente quando è tale da giustificare la ratio.

Nel caso presente, il giudice di merito ha ritenuto contraddittoria le versione dei fatti narrata nell’atto di citazione, dove si legge che la “caduta a terra sarebbe dovuta ad una sorta di cedimento strutturale di una o più delle assi in legno del ponte dello scivolo”, mentre nella denuncia-querela il fatto sarebbe stato descritto in modo diverso e contraddittorio rispetto a quello di cui alla citazione, ossia nel senso di “una caduta dovuta ad un inciampo in una delle assi di legno non fissate perfettamente alla struttura del gioco” (p. 7 della sentenza).

E’ di tutta evidenza che non v’è alcuna radicale contraddittorietà tra la descrizione dell’incidente fatta in citazione e quella fatta nell’atto di querela, posto che il fatto, pur se in modo diverso, in entrambi gli atti è unico, e consiste nel “dinamismo” che i ricorrenti attribuiscono allo scivolo quale causa dell’incidente.

Il giudice di merito, ben può non ammettere le prove richieste dalla parte, ma del rifiuto dell’istruttoria deve dare adeguata motivazione, in difetto della quale la sua decisione è ricorribile in Cassazione (Cass. 16214/2019).

La motivazione resa dal giudice, ossia che vi fosse una contraddizione nella narrazione del fatto in due atti diversi, tanto da renderla inverosimile, non solo di per sè non giustifica la ratio della decisione, ma neanche è idonea a farlo in base al suo contenuto, che, come si è visto suppone una contraddizione inesistente.

Inoltre, ed è ciò che è denunciato più precisamente con il secondo motivo, il giudice di primo grado ha ritenuto non provato il fatto sulla base di una contraddizione tra la narrazione contenuta nelle sommarie informazioni e la narrazione contenuta nella citazione, ma, per come risulta dal testo della prima delle due, riportato a pagina 18 del ricorso, anche nelle sommarie informazioni si fa riferimento al fatto che le assi di legno della pedana non erano ben fissate.

Così che la tesi che le due narrazioni si contraddicano l’un l’altra, oltre a non costituire motivazione sufficiente a sorreggere una decisione di rigetto delle prove e della domanda, è frutto di un errore percettivo sul contenuto di una prova, che può essere fatto valere in sede di legittimità (“In materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte” (Cass. 27033/2018; Cass. 9356/2017).

4.1.- Fondato è altresì il terzo motivo.

Con esso i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 2051 c.c., censurando come errata la tesi del giudice di merito secondo cui la responsabilità per cose in custodia sussiste quando quest’ultima, per le sue caratteristiche intrinseche, determina la configurazione nel caso concreto di un’insidia (p. 7 della sentenza), e che la prova che l’insidia non fosse visibile o che fosse evitabile spettava al danneggiato.

I ricorrenti contestano che la norma preveda la necessità di tale requisito.

Il motivo è fondato in quanto la responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

Il ricorso va dunque accolto, e la decisione cassata con rinvio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

presunzione pari responsabilità dei conducenti in caso di incertezza della dinamica del sinistro

20/03/2020 n. 7479 - Cassazione Civile -Sezione III

FATTO

A, danneggiato in un incidente stradale avvenuto in data (OMISSIS) sulla strada provinciale (OMISSIS) tra la moto da lui guidata ed un presunto (perché rimasto sconosciuto) veicolo bianco che invadendo la corsia di marcia del P. ne aveva determinato la perdita di controllo del mezzo e l’impatto con un guardrail, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 939 del 2017 che, confermando la pronuncia di prime cure, ha applicato la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro, di cui all’art. 2054 c.p.c., comma 2. L’applicazione della presunzione di pari responsabilità è stata disposta dalla Corte territoriale, all’esito di ben due perizie cinematiche, nell’impossibilità di addivenire ad una ricostruzione certa dei fatti di causa. Il Giudice d’Appello, per quel che ancora rileva in questa sede, dato atto che, sulla scorta delle prove testimoniali acquisite, il veicolo antagonista aveva invaso la corsia di marcia del P. provocandone lo sbandamento e l’impatto con un garderail, in assenza di elementi certi ed inconfutabili sulla dinamica del sinistro, ha ritenuto di applicare l’art. 2054 c.c., comma 2, in ottemperanza alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l’accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti, nel caso di scontro tra veicoli, non esonera l’altro dall’onere di provare di essersi conformato alle norme sulla circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza. Avverso la sentenza, che ha altresì accolto un motivo di ricorso incidentale disponendo la restituzione di una parte della somma liquidata dalla compagnia in esecuzione della sentenza di primo grado, il P. propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da memoria. Resiste la Unipolsai con controricorso, illustrato da memoria. La causa, già assegnata alla Adunanza Camerale della Terza Sezione Civile del 7/3/2018, è stata, con ordinanza interlocutoria, rimessa alla pubblica udienza per la natura nomofilattica delle questioni in essa trattate.

IN DIRITTO 
Occorre preliminarmente replicare all’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata da parte resistente per il mancato deposito della copia autentica della sentenza impugnata in una al deposito del ricorso. L’eccezione è infondata in quanto detta copia autentica risulta depositata da parte resistente, sì da soddisfare quanto statuito da questa Corte con la pronuncia n. 10648 del 2017 secondo la quale in tutti i casi in cui la sentenza impugnata è presente nel fascicolo del giudizio a quo perché, ad esempio, prodotta da parte resistente, la condizione di procedibilità può dirsi rispettata, poiché il giudicante è posto in condizioni di esaminare il documento e di verificare il rispetto del termine per l’impugnazione.

1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente solleva violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e pone una questione di diritto: se l’art. 2054 c.c., comma 2, sia applicabile anche nel caso in cui vi sia stato, da parte dell’organo giudicante, un accertamento positivo sulla responsabilità di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro e non vi sia alcuna certezza circa l’eventuale corresponsabilità del danneggiato. Secondo il ricorrente infatti la presunzione di pari responsabilità non potrebbe applicarsi in casi siffatti.

1.1 Il motivo non è fondato in ragione della giurisprudenza di questa Corte che fa del criterio di imputazione presuntiva della pari responsabilità di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, un criterio residuale che si applica in tutti i casi in cui non è possibile stabilire l’esatta misura delle diverse responsabilità nella produzione del sinistro. La ratio dell’art. 2054 c.c., comma 2, è proprio quella di offrire un criterio fittizio di imputazione della responsabilità laddove non sia possibile pervenire ad una esatta ricostruzione dei fatti di causa. Ciò che emerge con chiarezza nel caso in esame è proprio l’impossibilità di ricostruire con esattezza cosa sia effettivamente avvenuto, tanto che ben due CTU cinematiche non hanno consentito di sciogliere i dubbi. In questa situazione di assoluta incertezza, il Giudice di merito ha correttamente applicato l’art. 2054 c.c., comma 2, non potendo avere rilevanza, perché afferente al mero campo delle ipotesi, privo di fattuale riscontro, che nell’eziologia dell’incidente sia certamente ravvisabile la responsabilità del conducente di uno dei veicoli coinvolti nel sinistro. In ogni caso, anche laddove la responsabilità prevalente o esclusiva di uno dei due veicoli coinvolti fosse stata acclarata senza alcun ragionevole dubbio il che si ripete non è dato affermare nel caso in esame – anche in tal caso il giudice non sarebbe esonerato dall’onere di accertare che il veicolo danneggiato si fosse attenuto al rispetto delle norme del C.d.S. ed a quelle di comune prudenza.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere non superata la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro nel caso in cui sia accertata la colpa di uno dei conducenti (Cass., 3, n. 1244 del 16/5/2008; Cass., 3, n. 23431 del 4/11/2014). In ogni caso la ratio dell’art. 2054 c.c., comma 2, è proprio quella di fornire un criterio sussidiario in tutti i casi in cui l’accertamento delle condotte non consenta di giungere a conclusioni certe circa l’imputazione della responsabilità del sinistro. Si veda sul punto, ex multiis, Cass., 3 n. 9353 del 4/4/2019 secondo la quale “In tema di scontro tra veicoli, la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall’art. 2054 c.c., comma 2, ha funzione sussidiaria, operando soltanto nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l’evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro”.

2. Conclusivamente il ricorso va rigettato. In ragione della peculiarità della fattispecie si ritiene di compensare le spese del giudizio di cassazione.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del cd. “raddoppio “del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, a seguito di trattazione in pubblica udienza, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2020

bangladesh: la scarsa tutela del diritto alla salute nel paese di origine non giustifica il riconoscimento della protezione internazionale

18/03/2020 n. 7424 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata in data 22.05.2018, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Ancona ha rigettato la domanda di XXXX, cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella umanitaria.

Il giudice di merito ha ritenuto insussistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria in relazione alla natura palesemente economica e privata della sua vicenda di emigrazione ed alla mancanza di credibilità del suo racconto con riferimento al dedotto timore per la sua incolumità personale in caso di rientro in patria (il richiedente aveva riferito di essere fuggito dal Bangladesh a seguito di dissidi con un vicino sul diritto di proprietà di un terreno, sfociati in episodi di violenza privata di cui era stato vittima e in minacce di morte da parte dello stesso vicino).

Ha proposto ricorso per cassazione XXXX affidandolo a due motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta il ricorrente che al medesimo non è stato chiesto dai giudici di merito alcun chiarimento, non sono state approfondite le dichiarazioni dallo stesso rese davanti alla Commissione territoriale, lo stesso non è stato posto, attraverso il suo ascolto, in condizioni di fornire in maniera chiara ed esaustiva le proprie argomentazioni, deduzioni e mezzi istruttori.

2. Il motivo è infondato.

Va osservato che questa Corte ha già statuito che nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, anche ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (Cass. n. 5973/2019).

Dunque, anche nell’ipotesi in cui manchi la videoregistrazione del colloquio (situazione neppure dedotta dal ricorrente), non sussiste l’obbligo del giudice di rinnovare l’audizione del richiedente, il quale, peraltro, nel caso di specie, neppure risulta aver chiesto di essere nuovamente ascoltato dai giudici di merito.

Infine, il ricorrente neppure ha indicato gli elementi fattuali sui quali avrebbe eventualmente dovuto vertere la nuova audizione.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Lamenta il ricorrente che la Corte di Appello ha escluso la verosimiglianza del suo racconto senza approfondire ed analizzare la corrispondenza delle sue dichiarazioni.

Rileva, inoltre che la salute e l’accesso all’alimentazione sono considerati diritti inalienabili dell’individuo, avendo il richiedente diritto a che gli sia garantito un livello di vita adeguato per sè e per la propria famiglia laddove le condizioni sociali ed economiche del Pese di provenienza non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita.

4. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non è sufficiente la generica deduzione della violazione dei diritti fondamentali nel Paese d’origine.

Sul punto, questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini, Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad invocare genericamente la scarsa tutela del diritto alla salute ed alla alimentazione nel suo paese d’origine senza specificare quale fosse la sua condizione personale al momento della partenza, se non che la sua immigrazione fosse stata dettata anche da motivi economici.

Infine, il ricorrente ha lamentato il mancato approfondimento delle sue dichiarazioni senza confrontarsi minimamente con le argomentazioni con cui la Corte di merito ha ritenuto l’inattendibilità del suo racconto.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’interno costituito in giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

miglioramento delle condizioni reddituali dell'ex coniuge collocatario del minore giustifica la riduzione del contributo al mantenimento

13/03/2020 n. 7230 - Cassazione Civile - Sezione VI

MASSIMA 

In  riferimento all’adeguamento a seguito delle mutate condizioni patrimoniali dei coniugi: ” La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che il giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.”

FATTO
La Corte di Appello di Catania, con decisione in data 15/11/2017, ha riformato il decreto di rigetto pronunciato dal Tribunale di Siracusa in data 5-7 luglio 2016 in sede di modifica dell’assegno divorzile a favore della moglie ed a carico del marito ed ha ridotto da 350,00 mensili a 280,00 Euro mensili l’importo dell’assegno divorzile per il mantenimento della figlia minore OMISSIS nata dal matrimonio contratto da OMISSIS1 con OMISSIS2.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso in cassazione OMISSIS1 affidato a sei motivi.

A. OMISSIS2 non ha spiegato difese

DIRITTO 
Con il primo, terzo e quarto motivo di ricorso, tutti contenenti la medesima censura, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 e art. 2727 c.c. e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n.7, art. 13 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 ed art. 111 Cost. in quanto il giudice territoriale non ha tenuto conto delle situazioni economiche delle parti e conseguente sproporzione delle rispettive posizioni economiche degli ex coniugi nonchè dell’impossibilità per il ricorrente di mantenersi con il solo importo residuo a sua disposizione stabilito dalla Cortei considerato che aveva formato una nuova famiglia e che la compagna dalla quale aveva avuto un figlio aspettava un altro figlio. Il ricorrente evidenziava poi che la ex moglie era divenuta nelle more insegnante di ruolo con uno stipendio di 1.400,00 Euro mensili oltre alla disponibilità dell’appartamento coniugale di comune proprietà mentre al contrario il ricorrente aveva avuto altro figlio ed un altro ne aspettava dall’attuale compagna.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 143,155,156 e 2697 c.c. e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n.7, art. 13 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn.3, 4 e 5 ed art. 111 Cost., in quanto il giudice territoriale non ha tenuto conto delle situazioni economiche delle parti e conseguente sproporzione delle rispettive posizioni economiche dei coniugi e dei fatti nuovi sopravvenuti. Inoltre, ha ridotto l’assegno con decorrenza solo dalla data di pubblicazione della decisione e non dalla data della domanda. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e art. 92 c.p.c., comma 2 in riferimento all’art. 360 c.p.c. in quanto il giudice territoriale ha condannato il Salerai alle spese del primo grado di giudizio e compensato quelle di secondo grado sebbene il ricorso fosse fondato.

Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112,114 e 115 c.p.c. e art. 2727 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed art. 111 Cost. in quanto il giudice territoriale ha ridotto l’assegno senza motivare in alcun modo e senza indicare gli elementi posti alla base della decisione.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Infatti nel merito la decisione impugnata ha già valutato ed accolto tutte le ragioni del ricorrente: ha preso in considerazione la situazione economica delle parti e tenuto conto dell’incremento reddituale dell’ex-coniuge per cui ha ridotto l’assegno di mantenimento in favore della figlia da 350,00 Euro stabilito dal giudice di primo grado a 280,00 Euro mensili in quanto la ex moglie era divenuta nelle more insegnante di ruolo con uno stipendio di 1.400,00 Euro mensili oltre alla disponibilità dell’appartamento coniugale di comune proprietà, mentre al contrario il ricorrente aveva avuto un altro figlio ed un altro ancora ne aspettava dall’attuale compagna. Nessuna circostanza risulta essere stata trascurata dal giudice territoriale, che ha accolto, con decisione adeguatamente motivata ed immune da vizi logici, la domanda di riduzione del l’assegno.

La decisione impugnata merita quindi di essere confermata.

La decisione deve essere anche confermata in ordine alla decorrenza della riduzione dell’importo dell’assegno.

Infatti Sez. 1-, Sentenza n. 9533 del 04/04/2019 ha stabilito che in riferimento all’adeguamento a seguito delle mutate condizioni patrimoniali dei coniugi: ” La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che il giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.”

Inoltre il motivo di ricorso è infondato anche per le spese di giudizio, date le ragioni delle parti che hanno indotto il giudice a porre a carico del ricorrente le spese del primo grado di giudizio stante l’accoglimento parziale della domanda.

Il ricorso va rigettato. Nulla per le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta-prima sezione della Corte di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020

costa d'avorio: minori non accompagnati e protezione internazionale

11/03/2020 n. 6913 - Sezione I

Fatto

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, Omissis, cittadino della Costa d’Avorio, ha adito il Tribunale di Catanzaro impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva narrato di aver lasciato il proprio Paese perchè perseguitato dagli spiriti che lo avevano morso a un piede cagionandogli una emorragia inarrestabile, guarita solo allorchè si era recato in Burkina Faso e di non poter tornare al proprio Paese perchè altrimenti si sarebbe di nuovo scatenata l’emorragia.

Con ordinanza del 15/5/2017 il Tribunale ha accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo al richiedente asilo il diritto a un permesso di soggiorno motivi umanitari.

2. L’appello proposto dal Ministero dell’Interno è stato accolto dalla Corte di appello di Catanzaro, a spese compensate, con sentenza del 3/7/2018, a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso Omissis, con atto notificato il 4/2/2019, svolgendo un motivo.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita solo con memoria al fine di poter eventualmente partecipare alla discussione orale.

Diritto
1. Con il motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa il fatto decisivo della minore età del richiedente al momento dell’arrivo in Italia.

Secondo il ricorrente, la Corte era incorsa in contraddizione perchè aveva considerato la tenera età quale fattore di vulnerabilità (pag. 3, terzo capoverso, rigo 20) salvo poi contraddirsi nella valutazione in concreto di tale elemento.

La Corte di appello si era anche contraddetta laddove, dopo aver ricordato i presupposti della concessione della protezione umanitaria quale misura atipica e residuale di tutela di soggetti vulnerabili, non aventi titolo alla protezione internazionale, aveva ravvisato la genericità della motivazione della sentenza di primo grado e aveva dato rilievo ai fini del diniego ad elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Il ricorrente era minorenne non accompagnato quando era pervenuto in Italia il 16/7/2015 e al momento della sua audizione personale (2/4/2016), anche volendo considerare attendibile la data di nascita del 2/2/1998 in luogo di quella (1/1/2000) riportata nel provvedimento di diniego della Commissione.

Il caso non era stato trattato in via prioritaria, come imposto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 28, per i minori non accompagnati; d’altra parte, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, il ricorrente non era espellibile in quanto minore di anni 18.

Le varie circostanze rappresentate (aver lasciato il Paese di origine ed essere entrato in Italia da minorenne, aver ricevuto accoglienza quale minore non accompagnato; aver compiuto la maggiore età nelle more della domanda di asilo, aver allegato una situazione di forte indigenza e instabilità psicologica, aver svolto qualche lavoro con regolare assunzione) erano elementi che il Collegio non avrebbe dovuto trascurare e che sul presupposto di una particolare vulnerabilità del richiedente avrebbero dovuto giustificare il rigetto del gravame.

2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che avalla l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge.

Inoltre la stessa sentenza 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito aderisce al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

3. Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato il principio che la protezione umanitaria si configura come misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Sez. 6 – 1, n. 23604 del 09/10/2017, Rv. 646043 02); il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario che l’accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti (Sez. 1, n. 28990 del 12/11/2018,Rv. 651579 – 03); la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Sez. 6 – 1, n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700 – 01).

4. La Corte di appello ha escluso la situazione di vulnerabilità soggettiva del richiedente, riconosciuta invece dal Giudice di primo grado, negando rilievo alla minore età del B. al momento dell’arrivo in Italia, anche secondo la meno favorevole opzione (per vero motivata solo da uno sbrigativo “come è noto”) fra le due date di nascita alternativamente considerate (1/1/2000 e 2/2/1998).

Il ricorrente è arrivato, solo, in Italia il 16/7/2015; in data 22/12/2015 è stato accolto presso il Centro di Accoglienza di Petilia Policastro, come risulta dal decreto del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro del 5/1/2016; solo in data 12/4/2016 è stato sentito dalla Commissione territoriale, nonostante il disposto del D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 18, che imponeva la trattazione prioritaria della domanda di asilo del minore.

Il giovane è quindi arrivato in Italia, ha proposto domanda, è stato accolto e sentito dalla Commissione Territoriale quando ancora era minorenne, pur secondo il calcolo più sfavorevole adottato dalla Corte di Appello.

Il minore rappresenta una categoria di soggetto vulnerabile come risulta da numerosi indici normativi: D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1-bis, prevede che in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati; il comma 2 della stessa lett. a), inoltre non consente l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’art. 13, comma 1, nei confronti degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; l’art. 19, comma 2-bis, include il minore fra le categorie dei soggetti vulnerabili, per i quali il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate, al pari delle persone affette da disabilità, degli anziani, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali.

D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, con espressa previsione di salvaguardia dei diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, impone di tener conto, sulla base di una valutazione individuale, della specifica situazione delle persone vulnerabili, quali i minori, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, i minori non accompagnati, le vittime della tratta di esseri umani, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

Il successivo comma 2-bis richiama l’attenzione sulla necessità di considerare con carattere di priorità il superiore interesse del minore.

D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 19, prevede che al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale sia fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda e sia garantita l’assistenza del tutore in ogni fase della procedura per l’esame della domanda, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 5.

Se sussistono dubbi in ordine all’età, il minore non accompagnato può, in ogni fase della procedura, essere sottoposto, previo consenso del minore stesso o del suo rappresentante legale, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi al fine di accertarne l’età. Se gli accertamenti effettuati non consentono l’esatta determinazione dell’età si applicano le disposizioni del presente articolo.

Il minore partecipa al colloquio personale secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 3, e gli deve essere garantita adeguata informazione sul significato e le eventuali conseguenze del colloquio personale.

5. La Corte catanzarese, in riforma della decisione di primo grado, ha attribuito valore decisivo alla sopraggiunta maggiore età del ricorrente, senza tener in alcun conto che anche secondo il conteggio più sfavorevole ciò era avvenuto ben dopo l’arrivo in Italia e la richiesta di protezione, in virtù di un automatismo matematico, del tutto indifferente ai tempi del procedimento che non possono essere imputati al richiedente asilo e al parametro di prioritaria trattazione sancito dalla legge.

In siffatto contesto la Corte ha anche ignorato la circostanza dell’assunzione del giovane a tempo determinato, rilevante ai fini del giudizio comparativo, documentata in secondo grado, per rimarcare la mancanza di qualsiasi allegazione di elementi di integrazione lavorativa.

5. In ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con il rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020

protezione internazionale: il richiedente deve compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda

11/03/2020 n. 6922 - Cassazione Civile - sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Ancona con la sentenza in epigrafe indicata, pronunciando ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, ha rigettato l’appello proposto da XXXX avverso l’ordinanza con cui il locale Tribunale aveva disatteso l’opposizione avverso il provvedimento di diniego della competente Commissione territoriale dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

XXXX ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza con tre motivi.

Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente al dichiarato fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente, originario della Nigeria, cristiano pentecostale, nel racconto reso dinanzi alla competente Commissione territoriale aveva dichiarato di essersi allontanato dal proprio Paese perché il padre, medico secondo la medicina tradizionale, si era rifiutato di partecipare a un rito sacrificale su esseri umani ricevendo per questo un maleficio in esito al quale si ammalò e morì in poco tempo.

Dopo aver subito minacce dai componenti della setta, autrice del sortilegio ai danni padre nel perseguito intento che il richiedente ne prendesse il posto nella pratica dei riti sacrificali, ed in esito alla sofferta sottrazione dei beni di famiglia, il ricorrente si era trasferito presso uno zio a Benin City dove, un anno e mezzo dopo, decedeva la madre che lo accusava di averne determinato la morte per non aver aderito alle richieste della setta.

Dopo la morte dello zio, il ricorrente convinto che la setta sarebbe tornata a cercarlo e intimorito per una serie di attentati del gruppo di (OMISSIS), in cui nel frattempo egli si era trasferito trovando ivi un lavoro, e del peggioramento delle condizioni dei cattolici e pentacostali nella zona, decideva di fuggire.

1.1. Tanto esposto, con il primo motivo il ricorrente fa valere la nullità processuale dell’impugnata sentenza per motivazione apparente (art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e dell’art. 111 Cost.).

La Corte di appello aveva ritenuto il racconto non credibile, richiamando, in assenza di qualsivoglia elaborazione logica originale, la motivazione del giudice di primo grado di cui evidenziava la correttezza del ragionamento su incongruenze del racconto, in realtà non presenti.

Il motivo è infondato.

Fermo il principio per il quale, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), – e che tale apprezzamento di fatto diviene censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 05/02/2019 n. 3340; Cass. 20/12/2018 n. 33096), nel resto si osserva.

Quanto alla dedotta apparenza della motivazione, come questa Corte di legittimità ha affermato con costante indirizzo da cui non si ha motivo di discostarsi nella sua apprezzata ragionevolezza, in tema di ricorso per cassazione, è nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la motivazione che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame (Cass. n. 27112 del 25/10/2018).

Ciò posto, la deduzione è infondata.

Nella fattispecie in esame la sentenza enuncia il fatto come definito dal racconto del richiedente protezione per poi evidenziarne, con condivisione delle conclusioni raggiunte dal primo giudice, la non linearità, la non credibilità e la mancanza di riscontri in un apprezzato carattere stereotipato e frequente nelle narrazione degli episodi descritti.

Per i descritti contenuti, in cui chiaro è lo scrutinio delle evidenze fattuali contenute nel racconto, la motivazione ha carattere di autonomia evidenziando il processo decisionale della Corte di merito. Vero è poi che il ricorrente nulla deduce, in applicazione del principio sopra richiamato – che la parte pure pone a fondamento del motivo -, su quelle deduzioni difensive che, portate all’esame del giudice di appello, non avrebbe trovato nell’impugnata decisione alcuna valutazione critica, mancando in tal modo la censura di completezza e quindi di perspicuità e concludenza rispetto al voluto effetto di annullamento.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 14 e del n. 25 del 2008, art. 27, comma 1-bis, per avere la Corte di appello ritenuto erroneamente che quanto narrato dal ricorrente non fosse meritevole di protezione internazionale trattandosi di vicenda privata e per non aver proceduto all’attivazione dei poteri di integrazione istruttori d’ufficio onde verificare la portata della minaccia descritta.

La Corte di merito avrebbe errato nel qualificare la vicenda del dichiarante come privata, non provvedendo a valorizzare nella stessa il ruolo avuto dalla setta, cui era affiliato il padre del richiedente, che in ragione delle infiltrazioni nell’apparato pubblico e della polizia avrebbe reso inutile ogni richiesta di protezione allo Stato.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, stabilisce al comma 1, lett. c), che i responsabili di persecuzioni o del danno grave possono ben essere soggetti non statuali e quindi privati se lo Stato o le organizzazioni che controllano lo Stato non possono o non vogliono fornire protezione.

All’esito di siffatta corretta valutazione della fattispecie la Corte di merito avrebbe dovuto attivare i poteri ufficiosi di indagine sulla capacità delle autorità nigeriane di offrire protezione rispetto alle minacce subite dall’istante.

Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi dell’impugnata sentenza nella parte in cui i giudici territoriali hanno ritenuto la presenza nelle dichiarazioni rese di incongruenze che non ne hanno consentito la valutazione in relazione alle condizioni del paese di origine.

I giudici di appello hanno infatti rilevato che nonostante “l’attenuato onere probatorio”, l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale non può desumersi “da riferimenti generici a situazioni presenti nel paese di provenienza non accompagnati da elementi di maggior dettaglio e da riscontri individualizzanti” (p. 6 sentenza).

L’osservata regola è di piena applicazione del principio fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità per il quale là dove si abbia una intrinseca inattendibilità del richiedente, che venga apprezzata alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, i giudici di merito non sono tenuti a porre in essere alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. 27/06/2018, n. 16925; Cass. 10/4/2015 n. 7333; Cass. 1/3/2013 n. 5224).

In materia di protezione internazionale, il richiedente è infatti tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (Cass. 12/06/2019 n. 15794; Cass. 29/10/2018 n. 27336).

La rispondenza dell’adottata motivazione ai richiamati principi e l’incapacità del rilievo difensivo di scalfirli rende la critica inammissibile.

3. Con il terzo motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La Corte di merito non avrebbe considerato che nel racconto reso il dichiarante aveva riferito che l’ultima sua residenza era in (OMISSIS), zona ritenuta pericolosa per la presenza del gruppo terroristico di (OMISSIS).

L’appellante aveva censurato la decisione di primo grado là dove essa erroneamente aveva ritenuto che il richiedente provenisse dall’Edo State, zona stimata come non pericolosa, e non dal Borno State che veniva ritenuta, invece, nella stessa motivazione di primo grado, come pericolosa o soggetta ad istruzioni di “non rimpatrio”, carattere che sarebbe stato confermato dalla documentazione allegata al ricorso di primo grado e che avrebbe legittimato la parte alla protezione sussidiaria.

Il motivo è inammissibile perchè generico e non autosufficiente.

Il trasferimento a Maiduguri, e per esso della stessa residenza del richiedente con conseguente individuazione del Paese di rimpatrio, non viene dedotto come fatto controverso in giudizio e quindi come fatto che, mancato nella valutazione del giudice di appello ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel suo carattere decisivo avrebbe, ove apprezzato, orientato la decisione impugnata nel senso dell’accoglimento della richiesta di protezione sussidiaria.

In tema di ricorso per cassazione, per effetto della modifica dell’art. 366-bis c.p.c., introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c., (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale) (Cass. 13/12/2017 n. 29883).

Il motivo sul punto ha, invero e piuttosto, carattere illustrativo, mancando per i segnalati principi di specificità neppure indicando a quale forme di protezione sussidiaria il richiedente avrebbe avuto accesso.

La motivazione del giudice di primo grado, che si vorrebbe capace di dare contenuto al motivo di appello, là dove esclude la pericolosità dell’Edo State e ritiene invece quella del Borno State, vale invero quale mero passaggio argomentativo che in nulla sostiene la tempestività della deduzione e la sua appartenenza al dibattito processuale quale fatto controverso.

Per costante indirizzo di questa Corte di legittimità, il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione (Cass. 21/11/2017 n. 27568; Cass. 21/06/2018 n. 16347).

5. Il ricorso è, in via conclusiva, inammissibile.

Nulla sulle spese nella natura impropria dell’intervenuta costituzione della parte intimata per i sopra riportati contenuti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020

riconoscimento del matrimonio celebrato da un ministro di culto non cattolico

09/03/2020 n. 6511 - sezione I

FATTO
1. La Corte di appello di Messina con il decreto in epigrafe indicato ha rigettato il reclamo proposto ex art. 739 c.p.c. da OMISSIS1. e OMISSIS2 avverso il decreto con cui il Tribunale di Patti, pronunciando sul ricorso promosso ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e 96 aveva disatteso la domanda dai primi proposta e diretta ad ottenere: la dichiarazione di legittimità del matrimonio da loro contratto in data (OMISSIS) nel Comune di (OMISSIS), secondo il rito dei “Testimoni di Geova”, con ordine all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di effettuare la trascrizione dell’atto nei Registri, o, in subordine, l’emissione di un decreto sostitutivo del certificato di matrimonio.

I giudici di appello, in adesione alle ragioni della decisione reclamata, hanno ritenuto la non trascrivibilità del matrimonio celebrato con il rito cristiano dei Testimoni di Geova perchè privo di effetti per lo Stato italiano.

La L. n. 1159 del 1929 ed il successivo regolamento di cui al R.D. n. 289 del 1930 rinviano, come disposto dall’art. 7 Cost., ad una “Intesa” tra la Repubblica italiana e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova che, raggiunta in data (OMISSIS), non era ancora efficace in territorio nazionale non essendo stata approvata con legge statale.

2. OMISSIS1e OMISSIS 2 ricorrono per la cassazione dell’indicato decreto con due motivi, illustrati da memoria.

3. Il rappresentante della Procura Generale della Corte di cassazione ha fatto pervenire memoria scritta in cui ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

DIRITTO
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione falsa applicazione della L. n. 1159 del 1929, artt. 3, 8, 9 e 10 e del R.D. n. 289 del 1930, artt. 25-28, del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e 96, della L. n. 385 del 1949, art. 2 (contenente il “Trattato di Amicizia Italia-Usa”), dell’art. 83 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sulla trascrivibilità dei matrimoni celebrati dai ministri dei culti ammessi nello Stato italiano ancorchè privi di Intesa.

La Corte di appello aveva ritenuto la non trascrivibilità del matrimonio celebrato da un ministro di culto della Confessione religiosa dei Testimoni di Geova, la cui nomina era stata approvata dal Ministro dell’Interno, perchè la Congregazione cristiana era priva di “Intesa” con lo Stato Italiano.

Il matrimonio era stato invece legittimamente celebrato secondo le prescrizioni relative ai culti ammessi dallo Stato contenute nella L. n. 1159 del 1929, e relativo decreto di attuazione, il R.D. n. 289 del 1930, e pertanto sussistevano tutte le condizioni per procedere alla trascrizione nei registri dello Stato civile del Comune di Brolo in cui risiedevano i richiedenti.

2. Con il secondo mezzo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 8, 9, 12, 13, in combinato con l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, degli artt. 9 e 10 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE e degli artt. 2, 3, 8, 19 e 29 Cost..

La Corte di appello di Messina, confermando il decreto impugnato, aveva dato atto della insussistenza di un rimedio effettivo ed integrato, per l’assunta decisione, una non consentita ingerenza da parte delle autorità statali, nella vita privata e familiare invece tutelati da Convenzioni Europee e dalla Costituzione, in patente violazione del diritto fondamentale a contrarre un matrimonio valido agli effetti civili.

L’operato diniego, fondato sulla inesistenza di una “Intesa” tra la Congregazione religiosa, cui apparteneva il Ministro di culto celebrante, con lo Stato italiano, costituisce manifesta discriminazione basata sulla religione. Ritenere che una confessione religiosa riconosciuta dallo Stato, seppure priva di “Intesa”, non possa procedere alla celebrazione di matrimoni validi anche agli effetti civili è discriminatorio nei confronti degli appartenenti a detta confessione.

3. Il primo motivo è fondato ed in accoglimento dello stesso il decreto impugnato va annullato con rinvio dinanzi alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, in applicazione dei principi di seguito indicati e precisati.

4. In materia di trascrizione di matrimoni religiosi celebrati secondo il rito proprio di culti diversi da quello cattolico, occorre distinguere, nel vigente quadro normativo, due ipotesi.

L’una avente ad oggetto l’atto di matrimonio celebrato secondo il rito di culti religiosi per i quali esistano “Intese” con lo Stato italiano, nell’osservanza di un percorso di squisita natura politica che trova previsione nella Costituzione italiana (art. 7; Corte Cost. n. 52 del 2016) e l’altra, disciplinata dalla L. 24 giugno 1929, n. 1159, artt. 3, 7 e segg. e dalle norme attuative di cui al R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, secondo la quale il matrimonio celebrato in Italia davanti a un ministro di un culto diverso dalla religione cattolica e con il quale l’Italia non ha stipulato intese produce effetti civili a condizione che: a) la nomina di tale ministro di culto sia stata approvata con decreto dal Ministro dell’Interno; b) l’ufficiale dello stato civile, previo adempimento delle formalità previste, abbia rilasciato l’autorizzazione scritta alla celebrazione del matrimonio.

4.1. All’epoca della celebrazione del matrimonio dei ricorrenti, e quindi nel 1980, il Ministro di culto celebrante apparteneva alla “(OMISSIS)” – culto ammesso nello Stato italiano in ragione del “Trattato di Amicizia, Commercio, Navigazione tra la Repubblica Italiana e gli Stati Uniti di America” del 2 febbraio 1948, ratificato in Italia e reso esecutivo con L. 18 giugno 1949, n. 385 – persona giuridica che godeva in Italia dei diritti attribuiti ad altri Enti morali riconosciuti e che, come tale, era soggetto all’applicazione della L. 24 giugno 1929, n. 1159, contenente “Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”.

L’indicato ente morale non aveva richiesto la stipula di Intese con lo Stato italiano, iniziativa assunta invece, successivamente, dalla diversa “Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova”, con un procedimento ancora aperto in cui non era stata approvata la bozza di intesa del (OMISSIS).

Come infatti ricordano dalla giudice amministrativo la “L. n. 1159 del 1929 e il R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, (…) hanno cessato di avere efficacia e applicabilità (…) esclusivamente nei confronti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica che avevano stipulato con lo Stato italiano “intese” trasfuse in leggi ai sensi dell’art. 8 Cost., ma non nei confronti delle altre associazioni religiose che (…) non avevano stipulato alcuna intesa con lo Stato italiano” (Cons. Stato, 17 aprile 2009, n. 2331).

4.2. La diversa soggettività giuridica dell’ente di appartenenza all’epoca di celebrazione del matrimonio depone, ratione temporis, per l’applicazione del regime dell'”approvazione” del Ministro di culto celebrante, nei termini di cui alla L. n. 1159 del 1929, e non per quello contrassegnato dalla stipula di “Intese”, non ancora concluse tra la “Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova” e lo Stato italiano.

La fattispecie resta pertanto disciplinata dalla L. 24 giugno 1929, n. 1159, artt. 3, 7 e ss. e relative norme di attuazione, per un percorso di accertamento delle condizioni ivi fissate – e, quindi, del riconoscimento del ministro di culto che ha celebrato il matrimonio e dell’autorizzazione scritta alla celebrazione rilasciata dall’ufficiale dello Stato civile – che è rimasto estraneo all’impugnato decreto.

4.3. La Corte di appello, dopo avere erroneamente sussunto, per malgoverno delle norme in applicazione, la fattispecie in esame nella distinta ipotesi delle “Intese” tra Stato italiano e confessioni religiose acattoliche, ha escluso la trascrivibilità dell’atto e quindi l’idoneità a produrre effetto nell’ordinamento italiano.

5. Gli accertamenti in fatto sottesi alla corretta qualificazione della fattispecie ostano a che questa Corte di legittimità possa giungere ad una decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, ed impongono l’annullamento con rinvio nei termini di seguito indicati.

6. In accoglimento del primo motivo di ricorso, correttamente ascritta la fattispecie in esame all’ipotesi di matrimonio celebrato da un Ministro del culto appartenente ad una associazione, la (OMISSIS), nei cui confronti, per il Trattato di amicizia del 02/02/1948, reso esecutivo in Italia con L. 18 giugno 1949, n. 385, trovano perdurante applicazione le disposizioni della L. n. 1159 del 1929 (art. 2) e del R.D. n. 289 del 1930 (art. 12) – e, quindi, il conseguimento del riconoscimento per presa d’atto del Ministro dell’Interno -, la Corte territoriale di Messina provvederà, al fine di accertare la trascrivibilità del matrimonio celebrato da Ministro di culto acattolico nel Comune di (OMISSIS) il (OMISSIS) tra OMISSIS1 e OMISSIS2, a verificare:

– se l’Ufficiale dello Stato civile, dopo aver certificato che nulla ostava alla celebrazione del matrimonio, avesse rilasciato autorizzazione scritta con indicazione:

a) del Ministro di culto dinanzi al quale la celebrazione doveva aver luogo;

b) della data del provvedimento con cui la nomina del Ministro di culto venne approvata nei termini di cui all’art. 3, come previsto dalla L. n. 1159 del 1929, art. 8, u.p..

Il secondo motivo resta assorbito.

7. In accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso ed assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

la presenza di un figlio minore in italia non costituisce motivo per ottenere un permesso per motivi umanitari

09/03/2020 n. 6587 - SEZIONE I

Va anzitutto evidenziata l’insufficienza della qualità di padre convivente di un minore presente sul territorio italiano al fine di giustificare la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, posto che la tutela del minore profugo è affidata ad altri istituti, quali l’autorizzazione alla permanenza sul territorio nazionale del genitore affidatario nell’interesse del minore ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31.

Com’è noto, tale norma prevede che l’espulsione di un minore straniero possa essere adottata solo a condizione che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore, su richiesta del Questore, dal tribunale per i minorenni; quanto al genitore, l’art, 31 prevede che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, possa autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle disposizioni del testo unico.

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