permesso di soggiorno per motivi umanitari: l'inattendibilità del racconto del richiedente non giustifica il rigetto

21/04/2020 n. 8020 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Caltanissetta confermava l’ordinanza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da XXXX, nato a (Pakinstan), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e ss.; in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. La Corte territoriale riteneva inattendibile il racconto del richiedente – che aveva riferito di temere nel suo paese di essere perseguitato dai talebani, che avrebbero voluto addestrarlo alla guerra santa e a seguito del suo rifiuto ne avevano ucciso il padre rilevandone le contraddittorietà ed incongruenze. Negava quindi il riconoscimento dello status di rifugiato nonché la protezione sussidiaria; riferiva che nel rapporto EASO del 2016 la situazione del Pakistan con riferimento alla regione di provenienza del richiedente appariva critica, registrandosi operazioni a terra da parte delle forze militari pakistane contro gruppi militanti, che avevano continuato attacchi terroristici ed uccisioni mirate, ma che nel report aggiornato all’ottobre 2018 il livello di violenza indiscriminata appariva significativamente ridotto, tanto che il distretto di Nowshera non era preso in considerazione tra i più colpiti da fatti di violenza con esito mortale.

3. Aggiungeva che seppure si profilava un recente radicamento dell’appellante nel territorio nazionale, la complessiva inattendibilità del racconto non dava adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine tale da configurare una specifica condizione di vulnerabilità nel caso di rientro.

4. Per la cassazione della sentenza XXXX, ha proposto ricorso, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c.; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente deduce come primo motivo la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,7,14 e 17; D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 32, comma 3; D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5) comma 6, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello valutato compiutamente la situazione personale dell’odierno ricorrente e la documentazione prodotta in ordine alla situazione del Pakistan, per avere motivato in maniera generica ed insufficiente e, infine, per avere omesso l’esame della domanda di protezione umanitaria. Lamenta che la Corte territoriale, nel negare il riconoscimento della misura di protezione sussidiaria nonché per contraddire il racconto offerto dal richiedente, avrebbe omesso il doveroso vaglio circa la sua credibilità soggettiva e avrebbe omesso di attivare i poteri ufficiosi necessari ad una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale in Pakistan. Sostiene altresì che la Corte d’Appello avrebbe limitato la propria indagine a fonti informative parzialmente non attuali interpretando non correttamente quanto dichiarato alla Commissione territoriale e senza tenere conto di alcune circostanze decisive per la decisione, quale la denuncia sporta nel settembre del 2015 dal padre del ricorrente (che produce).

6. Come secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione è apparente ordine alla valutazione di non credibilità da parte della Corte d’Appello sulla vicenda personale da lui narrata. Sostiene che sarebbe illegittimo il rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria basato esclusivamente sulla non credibilità del racconto del richiedente. Sostiene che la reiezione di tale domanda non può essere frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due richieste principali, senza alcuna indagine sulle condizioni poste a base del peculiare soggiorno temporaneo, da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani, ancorché non sufficienti ad interare le condizioni per le altre forme di protezione.

7. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Questa Corte ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018).

8. Il richiedente è dunque tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositiva, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 15794 del 12/06/2019).

9. Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento di fatto così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12/11/2019, n. 29279).

10. Nel caso, la Corte d’Appello ha compiuto il dovuto esame delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni attendibili ed aggiornate relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicché la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure adeguatamente censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

11. A tale proposito, occorre ribadire, come precisato da Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 e 8054, che l’art. 360 c.p.c., n. 51, nella formulazione vigente, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

12. Nel caso, il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di un documento, ovvero della denuncia sporta dal padre del 2015, e non di un fatto storico. Peraltro, neppure riferisce in quale momento e sede processuale tale denuncia sia stata prodotta, sicché la produzione effettuata in questo giudizio di legittimità risulta inammissibile ex art. 374 c.p.c..

13. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. Questa Corte ha chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019), che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

14. La Corte d’Appello ha motivato il rigetto della domanda di protezione umanitaria sulla base della complessiva inattendibilità del racconto del richiedente, inidoneo a dare adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine, tale da profilare una specifica situazione di vulnerabilità in caso di rientro.

15. Tale soluzione si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo il quale il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti (Cass. n. 10922 del 18/04/2019, Cass. n. 21123 del 07/08/2019).

16. Il giudice di merito, a fronte della documentata integrazione in Italia risultante dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avrebbe dovuto quindi valutare comparativamente la situazione cui incorrerebbe il richiedente in caso di rientro nel Paese di origine, in relazione alla situazione ivi presente in tema di compromissione dei diritti umani fondamentali.

17. Segue l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, e la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione che dovrà procedere a nuovo esame in coerenza con i principi esposti e dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

18. Non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente vittorioso, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2020

nigeria: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è subordinato alla presenza di un'effettiva situazione di vulnerabilità

06/04/2020 n. 7733 - Sezione I

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

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protezione internazionale: se non c'è la videoregistrazione del colloquio il giudice è tenuto a fissare l'udienza di comparizione parti

06/04/2020 n. 7720 - Cassazione Civile -Sezione I

1. AAAA, cittadino (OMISSIS), ricorre avverso il decreto in data 4 maggio 2018 n. 1893/2018, con il quale il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale.

1.1. Con il primo motivo, in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1 e art. 21, comma 1, così come convertito dalla L. n. 46 del 2017, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e art. 77 Cost., comma 4, per mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza nell’emanazione dello stesso decreto legge, per quanto concerne il differimento dell’efficacia temporale, e, quindi, dell’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale.

1.2. Con il secondo motivo, sempre in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, vulnerando il rito camerale ex art. 737 c.p.c., così come disciplinato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, nuovo art. 35-bis, commi 9, 10 e 11 il principio del contraddittorio e quello della parità processuale delle parti.

1.3. Con il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 9, 10 e 11, come introdotti dalle disposizioni del D.L. n. 13 del 2017, art. 6, lett. g), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46 del 2007, avendo il Tribunale omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti obbligatoriamente prevista dalla legge, nonostante l’espressa, corrispondente istanza del ricorrente. In subordine, chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24, commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2, 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU.

1.4. Con il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), art. 14, lett. c) e art. 3 e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva reputato insussistenti i presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione sussidiaria.

1.5. Con il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e succ. mod., nonchè omesso esame di un fatto decisivo e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva giudicato insussistenti i seri motivi di carattere umanitario rilevanti per il rilascio, in suo favore, del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie: segnatamente essendovi stata omessa considerazione delle peripezie affrontate dal deducente nel viaggio migratorio attraverso la Libia.

2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il decreto impugnato deve essere annullato per le ragioni di seguito indicate.

1.Le questioni di legittimità costituzionale delle norme del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 sono già state esaminata da questa Corte e ritenute manifestamente infondate.

1.1. Quella che si chiede di sollevare in riferimento agli art. 3 e 77 Cost., è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù dell’osservazione secondo la quale la disposizione transitoria dettata dal D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, non si pone in contrasto con i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che presiedono all’emanazione dei decreti legge, essendo connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale volto a consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1- n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799 – 02; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

1.2. Quella che si chiede di sollevare in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù del rilievo che il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non venga fissata l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata soltanto alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in assenza della trattazione orale le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01). Inoltre, l’imposizione del rito camerale non contrasta con i principi costituzionali invocati neppure in relazione alla prevista non reclamabilità del decreto di primo grado, trovando la stessa ragionevole giustificazione nell’esigenza di accelerare la definizione dei giudizi in questione, aventi ad oggetto diritti fondamentali, ed essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di escludere l’appellabilità della decisione di primo grado, con riguardo ai giudizi che sollecitano una pronta soluzione, dal momento che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non trova copertura generalizzata a livello costituzionale (Corte Cost., sent. n. 199 del 2017 e 243 del 2014; ord. n. 42 del 2014).

2. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Torino, onde escludere la necessitata fissazione dell’udienza non basta che sia in atti il verbale di audizione dinanzi alla Commissione territoriale: difatti, nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione Territoriale innanzi all’autorità giudiziaria, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, per violazione del principio del contraddittorio.

Tale interpretazione è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 ed 11 che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale. Si tratta di orientamento condiviso da parte di questa Corte di legittimità (Sez. 6 – 1, n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445 01; Sez. 1 -, n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815 – 01; Sez. 6 1, n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463 – 01; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 05), cui il Collegio intende senz’altro dare continuità.

3. In accoglimento del terzo motivo, assorbiti i restanti, il decreto impugnato deve essere, quindi, cassato. Segue il rinvio al Tribunale di Torino, il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio esposto e rinnoverà l’esame dei profili di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo, assorbiti i restanti, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Torino.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

fecondazione medicalmente assistita: solo una persona può essere menzionata come madre

03/04/2020 n. 7668 - Sezione I

FATTO 
1.- La Corte d’appello di Venezia, con decreto del 10 maggio 2018, ha rigettato il reclamo delle signore AAAA e BBBB avverso il decreto del Tribunale di Treviso che, a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile, aveva rigettato la loro richiesta di ricevere la dichiarazione congiunta di riconoscimento della bambina, CCCC, nata a (OMISSIS) da fecondazione assistita praticata all’estero da BBBB.

1.1.- La Corte, premesso che la domanda aveva ad oggetto la rettifica, inammissibile nei termini richiesti, di un atto di nascita formato in Italia, ha osservato che l’ufficiale di stato civile non aveva il potere di inserire in un atto dello stato civile dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle consentite dalla legge (art. 11, comma 3) – come quella relativa alla presunta filiazione tra la nata e la S., quale seconda madre -, ostandovi il D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, che vieta di manipolare o integrare gli atti dello stato civile.

2.- BBBB e AAAA ricorrono per cassazione, sulla base di sette motivi, illustrati da memoria, notificato al PG presso la Corte d’appello di Venezia.

DIRITTO 
1.- La preliminare richiesta del Procuratore Generale di rimessione alle Sezioni Unite non può essere accolta, avendo il ricorso ad oggetto una tipologia di controversia, in tema di diritti della persona, sulla quale la Sezione può esercitare appieno la funzione nomofilattica di cui all’art. 65 ord. giud..

2.- Il decreto impugnato, laddove – per escludere il potere dell’ufficiale di stato civile di modificare l’atto di nascita di CCCC nel senso invocato, inserendovi il riferimento alla doppia maternità delle signore BBBB e AAAA – ha osservato che si trattava di atti redatti secondo formule e modalità tipiche e predeterminate con decreti del Ministero dell’interno, ha in realtà inteso implicitamente e, per quanto si dirà, correttamente – pronunciarsi sul fondo della domanda. La quale sostanzialmente contestava la “corrispondenza” “dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa” (cfr. Cass. n. 13000 del 2019, n. 21094 del 2009) e chiedeva di ripristinarla, emendando l’atto medesimo da un presunto vizio relativo all’esatta indicazione dei genitori, ciò non essendo precluso dal tipo di procedimento instaurato, di rettificazione degli atti dello stato civile, che anche nella disciplina vigente, dettata dal D.P.R. n. 396 del 2000, è volto ad eliminare le “difformità tra la situazione di fatto, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dall’atto dello stato civile, per un vizio comunque o da chiunque originato nel procedimento di formazione di esso” per un vizio dell’atto stesso (cfr. Cass. cit.).

Nel suddetto procedimento, infatti, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio rispetto alla realtà generativa e di discendenza genetica e biologica nonchè, come nella specie, alla prospettata realtà fattuale derivante dal consenso prestato dalla S. come madre (intenzionale).

3.- In tal senso definita la materia del contendere, sulla quale è calibrata l’effettiva ratio decidendi enucleabile dalla decisione impugnata, le ulteriori argomentazioni motivazionali – circa l’ipotizzata nullità della procura alle liti per conflitto di interessi di BBBB, quale rappresentante della minore, e il difetto di legittimazione ad agire di quest’ultima – sono svolte dalla Corte veneziana in via incidentale e ad abundantiam. Si spiega dunque perchè i primi tre motivi di ricorso siano inammissibili per difetto di interesse, appuntandosi su argomentazioni prive di influenza sul dispositivo della decisione impugnata (cfr. Cass. n. 8755 del 2018, n. 22380 del 2014, n. 23635 del 2010).

4.- Gli altri motivi, dal quarto al settimo, devono essere esaminati congiuntamente, essendo reciprocamente connessi.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000 cit., art. 11, comma 3 e art. 12, comma 1, per avere affermato che l’ufficiale di stato civile non ha il potere-dovere di adeguare le formule ministeriali previste per la redazione dell’atto di nascita, inserendovi le annotazioni necessarie in relazione alle circostanze della fattispecie concreta.

Con il quinto motivo, che denunciano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000 cit., art. 11, comma 3 e art. 12, comma 1, anche in relazione all’art. 451 c.c., le ricorrenti assumono che la Corte di merito avrebbe ignorato il principio secondo cui gli atti dello stato civile devono rispecchiare la disciplina sostanziale degli status che è posta a base degli effetti giuridici da certificare, disconoscendo la liceità del percorso riproduttivo seguito dalle ricorrenti; di conseguenza, sarebbe stata somministrata al nato una tutela dimidiata solo perchè il partner consenziente e convivente della partoriente era di sesso femminile, con violazione del principio di bigenitorialità.

Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Cedu, in tema di tutela della vita privata e familiare e di non discriminazione, e dell’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991.

Il settimo motivo denuncia omessa pronuncia sulla domanda di rettificazione dei dati personali, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 7, comma 3, lett. b) e art. 13 del Regolamento UE n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, e violazione del diritto alla corretta rappresentazione dei dati personali.

4.1.- I suddetti motivi, pur cogliendo in parte la ratio decidendi a sostegno della decisione impugnata, sono infondati.

Premesso che una delle ricorrenti, entrambe cittadine italiane conviventi, è madre biologica della piccola L. (che ha partorito) e della quale ha la responsabilità genitoriale ( C.F.) e che l’altra ( S.D.) dichiara di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita cui si è sottoposta la C., la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) cui possono accedere solo le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi” (L. n. 40 del 2004, art. 5), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (art. 12, comma 2).

Tale divieto – desumibile anche da altre disposizioni (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; D.P.R. 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 7, comma 1, lett. a) che implicitamente (ma chiaramente) postulano che una sola persona abbia diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa.

La Corte costituzionale lo ha ritenuto conforme a Costituzione con la sentenza n. 221 del 2019. La quale ha premesso che “la possibilità dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quo modo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale”, ma al suddetto interrogativo la Corte ha dato risposta negativa seguendo “due idee di base”.

La prima “attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o in fertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”.

La seconda “attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre”.

La validità delle suddette conclusioni non è inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – ampiamente richiamati dalle ricorrenti – sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali (cfr. Cass. n. 12962 del 2016) e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 19599 del 2016, n. 14878 del 2017).

Ed infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, “vi è (…) una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela (…) l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (…) La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole (…) che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza””.

Per altro verso, “il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione” (in tal senso, Corte Cost. n. 221 del 2019). La possibilità di ottenere il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichiarativi del rapporto di filiazione da due donne dello stesso sesso si giustifica in virtù del fatto che diverso è il parametro normativo applicabile. A venire in rilievo, in tal caso, è il principio di ordine pubblico (L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 16 e art. 64, comma 1, lett. g) con il quale si è ritenuto non contrastare il divieto normativamente imposto in Italia alle coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle PMA, in relazione ad atti validamente formati all’estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità (e conservazione) dello “status filiationis” acquisito all’estero, unitamente al valore della circolazione degli atti giuridici, quale manifestazione dell’apertura dell’ordinamento alle istanze internazionalistiche, delle quali può dirsi espressione anche il sistema del diritto internazionale privato, alla luce dell’art. 117 Cost., comma 1. E ciò diversamente dalle coppie omosessuali maschili, per le quali la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso la pratica distinta della maternità surrogata (o gestazione per altri) che è vietata da una disposizione (L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6) che si è ritenuta espressiva di un principio di ordine pubblico, a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, salva la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione (Cass., sez. un., n. 12193 del 2019).

Non è dunque pertinente il riferimento, sul quale le ricorrenti insistono, alla nozione ristretta di ordine pubblico, essendo l’atto di nascita che si chiede di rettificare formato in Italia (dove la bambina è nata) e non rilevando che la pratica fecondativa medicalmente assistita sia avvenuta all’estero.

5.- Il ricorso è rigettato. Le spese sono compensate, in considerazione della complessità e novità delle questioni dibattute.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2020

protezione internazionale: l'omosessualità del richiedente deve essere provata

31/03/2020 n. 7623 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. – OMISSIS ricorre per un unico articolato motivo, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 28 maggio 2018 con cui la Corte d’appello di Ancona, pronunciando su appello dell’amministrazione ed in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la sua domanda di protezione internazionale o umanitaria, in conformità con quanto aveva inizialmente fatto la competente Commissione territoriale.

2. – Non spiega difese l’amministrazione intimata.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 8, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 9, comma 2, art. 13, comma 1 bis, e art. 27, comma 1, violazione e falsa applicazione dei suddetti articoli di legge anche quale conseguenza della violazione dell’art. 116 c.p.c., violazione dell’obbligo di congruità dell’esame e di cooperazione istruttoria.

Secondo il ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che dalla sua stessa narrazione non potesse desumersi la condizione di omosessualità posta a fondamento della domanda di protezione, risultando che egli avesse intrattenuto soltanto due relazioni omosessuali, una in età adolescenziale, l’altra mercenaria. Il giudice di merito, inoltre, nel valutare come incongruente, generico e non credibile il racconto del richiedente, non aveva indicato le ragioni su cui aveva basato il proprio convincimento, nè aveva doverosamente proceduto a richiedere al medesimo gli eventuali chiarimenti ritenuti necessari. Parimenti, la Corte territoriale non avrebbe potuto porre in dubbio l’orientamento sessuale del richiedente per il fatto che, una volta stabilitosi in Italia, egli non risultava aver frequentato ambienti gay. Erronea, ancora, era l’affermazione contenuta in sentenza in ordine all’assenza di una prova documentale della condizione di omosessualità, con l’aggiunta, addirittura, che la narrazione svolta fosse priva di riscontro per la mancanza di prove “dell’esistenza di un eventuale procedimento penale nei suoi confronti, nè di attività di ricerca da parte della polizia del Gambia, nè di atti persecutori nei suoi confronti”. Infine la Corte d’appello avrebbe mancato di approfondire la situazione del Paese di origine.

2. – Il ricorso è inammissibile.

2.1. – L’inammissibilità discende anzitutto dalla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dal momento che il ricorrente ha posto a sostegno del ricorso le dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, il provvedimento di quest’organo nonché le argomentazioni difensive rappresentate nell’atto introduttivo del giudizio di fronte al Tribunale: ebbene, nessuno di tali atti è “localizzato” (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475), ed anzi non risulta dal ricorso neppure che siano stati prodotti i fascicoli di parte delle fasi di merito.

L’assenza di tale documentazione, d’altronde, non rileva soltanto sul piano, peraltro insuperabile, dell’inosservanza dell’adempimento formale prescritto dalla norma, ma ridonda su quello contenutistico, giacchè la Corte di cassazione non è neppure posta in condizioni di scrutinare la doglianza del ricorrente, nel suo nucleo essenziale, laddove egli afferma che il giudice d’appello si sarebbe limitato a richiamare “quanto già dedotto dalla Commissione territoriale” ed avrebbe “completamente omesso di valutare le ragioni introduttive del giudizio e accolte dal Giudice di primo grado”.

2.2. – Il ricorso è inoltre inammissibile per violazione del numero 3 dello stesso art. 366 c.p.c., il quale richiede che il ricorso contenga a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa.

Si è accennato che, nel caso in esame, il Tribunale aveva accolto la domanda del richiedente, accordandogli “lo status di rifugiato” (tanto riferisce il ricorrente a pagina 5 del ricorso). Orbene, nulla è detto in ricorso nè della domanda rivolta al Tribunale, nè del contenuto della decisione di quest’ultimo, nè del contenuto dell’atto d’appello dell’amministrazione, nè delle difese svolte dal OMISSIS, nè dell’eventuale riproposizione, da parte sua, di domande ed eccezioni non accolte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.: sicchè questa Corte non è in grado di verificare se le questioni sollevate siano tuttora “vive”, ovvero – e questa è la essenziale ragione della previsione normativa – se si tratti di questioni coperte da giudicato o comunque abbandonate.

2.3. – In ogni caso il ricorso è inammissibile perché totalmente versato in fatto.

Nel motivo, difatti, non si discorre affatto del significato e della portata applicativa delle norme richiamate in rubrica, ma solo della concreta applicazione che il giudice di merito ne ha fatto, ritenendo che la narrazione posta dal richiedente a fondamento della domanda fosse generica, scarsamente credibile e stereotipata.

Come è noto, infatti, dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va difatti tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Ciò detto, vale osservare che la Corte territoriale, nel ritenere sostanzialmente implausibile la narrazione del richiedente, ha, contrariamente a quanto da questi sostenuto in ricorso, esplicitato le ragioni del proprio opinamento in modo sintetico, ma ben comprensibile. OMISSIS, difatti, aveva sostenuto di essersi sforzato di mantenere segreta la sua relazione omosessuale con un cittadino canadese, e, tuttavia, non si sa come, un mattino si erano presentati presso la sua abitazione uomini delle forze dell’ordine che avevano sparato a sua sorella ed arrestato la madre ed il cittadino canadese, mentre lui era immediatamente scappato: al che la Corte territoriale ha obiettato che siffatti eventi presupponevano la pendenza di un procedimento penale contro di lui, del quale non vi era invece alcuna traccia non solo documentale ma neppure narrativa. Quanto alla situazione del Gambia, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza del giuramento del nuovo presidente del Paese, in data 18 febbraio 2017, e la sua promessa di democrazia, libertà, progresso e benessere, a chiusura della precedente dittatura. E proprio tale complessiva valutazione di merito il ricorrente ha inammissibilmente attaccato, con lo scopo di ribaltarla.

3. – Nulla per le spese. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

espulsione nel caso in cui il permesso di soggiorno non venga rinnovato tempestivamente

31/03/2020 n. 7619 - SEZIONE I

Fatto

Con ordinanza del 25.9.18, il giudice di pace di Torino rigettò l’opposizione proposta da AAAA avverso il decreto d’espulsione emesso dal Prefetto di Torino il 27.6.18, osservando che: la ricorrente era titolare del permesso di soggiorno, emesso dal Questore di Asti il 23.2.16; lo stesso Questore rigettò l’istanza di rinnovo del permesso, con provvedimento emesso il 13.9.18, in quanto la ricorrente aveva tardivamente inviato la documentazione finalizzata al rinnovo del permesso, oltre un anno dalla relativa scadenza, non ottemperando altresì all’invito a presentarsi per i rilievi fotodattiloscopici, prescritti dall’art. 5, comma 2bis TUI; il Prefetto aveva escluso i motivi umanitari o altri gravi motivi di carattere personale, D.P.R. n. 394 del 1999, ex art. 11, comma 1, lett. c) ter, – ovvero di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 -; dall’intervista effettuata ed allegata in atti della Pubblica Amministrazione risultava che la ricorrente non aveva chiesto il termine per la partenza volontaria; era stato congruamente motivato il rischio di fuga della ricorrente.

La AAAA ricorre in cassazione con due motivi.

Non si è costituita l’intimata Prefettura cui il ricorso è stato notificato presso l’Avvocatura dello Stato.

RITENUTO

Con il primo motivo si denunzia l’omessa valutazione delle condizioni che escludono l’espulsione automatica dello straniero, atteso che, pur in caso di ritardo nel rinnovo del permesso di soggiorno, l’espulsione non sarebbe legittima nel caso in cui l’interessato possa dimostrare la persistenza dei requisiti legittimanti il rinnovo stesso.

Con il secondo motivo si deduce l’omessa valutazione della mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno, non sussistendo i presupposti normativi dell’espulsione dello straniero non appartenente all’area UE, in quanto: non era stata accertata la pericolosità della ricorrente, nè sussistevano le fattispecie dell’ingresso illegale e del soggiorno irregolare; l’ordinanza impugnata era stata emessa nella pendenza dei termini per proporre ricorso avverso il diniego di rinnovo, presentato dalla ricorrente il 12.10.18.

I due motivi, in quanto tra loro connessi, sono esaminabili congiuntamente e sono infondati alla luce dell’orientamento di questa Corte – cui il collegio intende dare continuità – secondo cui in tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare, al momento dell’espulsione, l’assenza del permesso di soggiorno perché non richiesto (in assenza di cause di giustificazione), revocato, annullato ovvero negato per mancata tempestiva richiesta di rinnovo, mentre è preclusa ogni valutazione, anche ai fini dell’eventuale disapplicazione, sulla legittimità del relativo provvedimento del Questore trattandosi di sindacato che spetta unicamente al giudice amministrativo, il giudizio innanzi al quale non giustifica la sospensione di quello innanzi al giudice ordinario attesa la carenza, tra i due, di un nesso di pregiudizialità giuridica necessaria, nè la relativa decisione costituisce in alcun modo un antecedente logico rispetto a quella sul decreto di espulsione” (Cass., SU, n. 22217/06; n. 12976/16; n. 15676/18).

Ne consegue che, nel caso concreto, ciò che rileva è l’accertamento, al momento dell’espulsione, della mancanza del permesso di soggiorno perché scaduto e non rinnovato, essendo irrilevante la circostanza della pendenza dei termini per impugnare il diniego di rinnovo.

Inoltre, va rilevato che la ricorrente non ha dedotto di aver presentato una domanda di rinnovo, seppure tardiva.

Nulla per le spese, attesa la mancata costituzione della parte intimata; inoltre, dato l’oggetto del giudizio, non s’applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

pendenza del giudizio di divorzio ed efficacia dei provvedimenti economici adottati in sede di separazione

27/03/2020 n. 7547 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTO
Nel giudizio di separazione personale dei coniugi AAAA e BBBB, la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 2 agosto 2017, in parziale accoglimento del gravame della AAAA e in riforma della sentenza impugnata, aumentava a complessivi Euro 750,00 il contributo di mantenimento (di cui Euro 450,00 per la moglie e Euro 300,00 per la figlia minore) imposto al M. da (OMISSIS), in considerazione del fatto che nel giudizio di divorzio le somme dovute dal BBBB erano state determinate in sede presidenziale (in complessivi Euro 800,00) a decorrere dal mese di (OMISSIS), mentre riteneva congruo il contributo di mantenimento determinato in sede di separazione sino al mese di (OMISSIS).

Avverso questa sentenza il BBBB propone ricorso per cassazione, con il quale sostiene che il giudice della separazione avrebbe indebitamente sovrapposto la propria valutazione sulle statuizioni economiche conseguenti alla separazione a quella adottata dal giudice nel parallelo giudizio di divorzio; infatti, egli assume che la Corte territoriale non aveva il potere di rideterminare il contributo di mantenimento in sede di separazione, essendo pendente il giudizio di divorzio nel corso del quale l’ordinanza presidenziale del 14 ottobre 2016 aveva implicitamente valutato l’intero arco temporale dall’inizio dello stesso giudizio, confermando il contributo di mantenimento già fissato dal tribunale in sede di separazione. La AAAA resiste con controricorso e memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, con un unico motivo che imputa alla Corte territoriale di avere disciplinato i rapporti economici tra i coniugi, in relazione ad un periodo già regolato dall’ordinanza del 14 ottobre 2016 resa in sede presidenziale nel parallelo giudizio di divorzio che, pur avendo modificato il contributo economico dovuto dal BBBB a partire da (OMISSIS), aveva implicitamente valutato l’intero arco temporale intercorrente dall’inizio dello stesso giudizio (in data 6 agosto 2012) e confermato l’entità del contributo di mantenimento già inderogabilmente fissato (e non più modificabile) dal tribunale in sede di separazione.

Il ricorso è infondato.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui il giudice della separazione è investito della potestas iudicandi sulla domanda di attribuzione o modifica del contributo di mantenimento per il coniuge e i figli anche quando sia pendente il giudizio di divorzio, a meno che il giudice del divorzio non abbia adottato provvedimenti temporanei e urgenti nella fase presidenziale o istruttoria (Cass. n. 27205 del 2019), i quali sono destinati a sovrapporsi a (e ad assorbire) quelli adottati in sede di separazione solo dal momento in cui sono adottati o ne è disposta la decorrenza. Di conseguenza, i provvedimenti economici adottati nel giudizio di separazione anteriormente iniziato sono destinati ad una perdurante vigenza fino all’introduzione di un nuovo regolamento patrimoniale per effetto delle statuizioni (definitive o provvisorie) rese in sede divorzile (Cass. n. 1779 del 2012).

Si spiega in tal modo perché la pronuncia di divorzio, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporti la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale (o di modifica delle condizioni di separazione) iniziato anteriormente e ancora pendente, ove esista l’interesse di una delle parti all’operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali (tra le tante Cass. n. 5510 e 5062 del 2017).

Nella specie, il giudice della separazione con la sentenza impugnata non è intervenuto impropriamente a modificare le statuizioni economiche rese in sede di divorzio (cfr. Cass. n. 17825 del 2013), ma ha fissato la decorrenza del contributo di mantenimento a carico del BBBB fino al mese di settembre 2015, senza dunque interferire con le statuizioni economiche emesse in sede divorzile a decorrere dal mese di (OMISSIS).

Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro4200,00 per spese e accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

responsabilità ex art. 2051 codice civile: spetta all'ente provare che il danno era evitabile

27/03/2020 n. 7578 - Cassazione Civile - Sezione III

MASSIMA 

La responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

FATTI DI CAUSA
Omissis, all’epoca dei fatti un bambino di nove anni, è caduto da uno scivolo del parco giochi del Comune di OMISSIS.

I suoi genitori hanno agito nei confronti dell’ente territoriale sia in proprio che quali rappresentanti del figlio per il risarcimento dei danni, in particolare quelli alla persona, dovuti ad una frattura dell’omero, che il ragazzo ha riportato proprio a seguito di quella caduta.

Secondo gli attori, il danno si sarebbe verificato a causa di un difetto della pedana dello scivolo, e dunque sarebbe danno da ricondurre alla responsabilità da custodia del Comune.

Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo non chiara la dinamica dei fatti già dalla lettura stessa dell’atto di citazione e dal suo confronto con la narrazione fatta nella querela presentata dai genitori subito dopo il fatto; non ha dunque ammesso le prove ritenendole superflue.

La corte di appello ha valutato come inammissibile il gravame, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., ossia stimando che non avesse alcuna possibilità di venire accolto, e di conseguenza lo ha rigettato in limine.

I genitori di Omissis ricorrono per Cassazione con tre motivi, tutti rivolti verso la sentenza di primo grado.

V’è costituzione del Comune, che oltre a chiedere il rigetto nel merito, eccepisce l’inammissibilità del ricorso e deposita memorie.

DIRITTO 
1. I ricorrenti impugnano la decisione di primo grado, in quanto la sentenza di appello ha solamente ritenuto inammissibile in limine l’impugnazione, e non ha dunque pronunciato nel merito.

La decisione di primo grado ritiene infondata la pretesa di risarcimento assumendo come poco chiare le modalità del fatto, ed anzi del tutto contraddittorie, se si confrontano con quelle esposte nella querela.

In particolare, mentre nella citazione si sostiene che il bambino è caduto perchè la pedana non ha retto, nella querela sarebbe caduto inciampando.

Ciò induce il giudice di merito a ritenere superflue le prove richieste, che nulla apporterebbero a chiarimento della vicenda.

2.- I ricorrenti propongono tre motivi, con i quali lamentano l’uso delle presunzioni e la contraddittorietà della motivazione.

2.1- Con il primo motivo lamentano violazione dell’art. 132 c.p.c. e artt. 2729 e 2697 c.c..

Secondo i ricorrenti, il giudice di merito ha errato nel trarre la sua conclusione esclusivamente dalla esposizione dei fatti resa in citazione, che tra l’altro non era affatto lacunosa nè in contraddizione con altre diverse narrazioni.

Piuttosto avrebbe dovuto coerentemente ammettere le prove per consentire la dimostrazione di quei fatti che, dall’esame del solo atto introduttivo, non potevano ovviamente ritenersi come provati, o viceversa come inverosimili.

2.1.- Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione a quanto detto con il primo, ossia per via della illogicità e erroneità della mancata ammissione della prova, che ha portato a decidere in assenza di qualsiasi risultanza istruttoria.

2.2. Con il terzo motivo si lamenta in particolare violazione dell’art. 2051 c.c.. Il giudice di merito aveva ritenuto, in subordine, che comunque non era provato che il difetto della pedana fosse una insidia non visibile.

Secondo i ricorrenti il concetto di insidia è stato erroneamente ricondotto dal giudice alla responsabilità per custodia, che invece non lo contempla e non lo richiede come necessario.

3.- Va però preliminarmente considerato che il Comune di OMISSIS eccepisce l’inesistenza della notifica del ricorso per Cassazione.

Secondo il controricorrente, l’atto è stato notificato al difensore costituito nel primo grado di giudizio, e non a quello intervenuto in appello.

Il difensore domiciliatario del primo grado, infatti, è stato revocato e sostituito in secondo grado da altro difensore, ed era a quest’ultimo che andava notificato il ricorso, non già a quello ormai revocato e non più domiciliatario.

L’eccezione è infondata.

Ritiene il Collegio di dover dare seguito alla decisione delle Sezioni unite, n. 14916/2016, secondo cui ” L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603 01); “Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicchè i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640604 – 01).

La notifica de qua deve pertanto ritenersi non “inesistente”, in quanto compiuta comunque in un luogo che presenta un collegamento con il destinatario, consistente nel domicilio del precedente difensore (da ultimo in tal senso Cass. 1798/ 2018), ma semmai nulla, con conseguente però sanatoria dovuta alla costituzione del destinatario.

4.- Nel merito il ricorso è fondato.

Lo sono tutti e tre i motivi.

I primi due attengono alla decisione del giudice di merito di non ammettere le prove e di ritenere infondata la domanda, semplicemente sulla base della contraddizione tra quanto esposto in citazione e quanto riferito nella querela.

Secondo i ricorrenti la tesi del giudice di merito sarebbe viziata da violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè da contraddittorietà manifesta della motivazione e da violazione delle norme sull’onere della prova (art. 2697 c.c.). La fondatezza die motivi deriva da quanto segue.

Va ricordato innanzitutto che una motivazione è sufficiente quando è tale da giustificare la ratio.

Nel caso presente, il giudice di merito ha ritenuto contraddittoria le versione dei fatti narrata nell’atto di citazione, dove si legge che la “caduta a terra sarebbe dovuta ad una sorta di cedimento strutturale di una o più delle assi in legno del ponte dello scivolo”, mentre nella denuncia-querela il fatto sarebbe stato descritto in modo diverso e contraddittorio rispetto a quello di cui alla citazione, ossia nel senso di “una caduta dovuta ad un inciampo in una delle assi di legno non fissate perfettamente alla struttura del gioco” (p. 7 della sentenza).

E’ di tutta evidenza che non v’è alcuna radicale contraddittorietà tra la descrizione dell’incidente fatta in citazione e quella fatta nell’atto di querela, posto che il fatto, pur se in modo diverso, in entrambi gli atti è unico, e consiste nel “dinamismo” che i ricorrenti attribuiscono allo scivolo quale causa dell’incidente.

Il giudice di merito, ben può non ammettere le prove richieste dalla parte, ma del rifiuto dell’istruttoria deve dare adeguata motivazione, in difetto della quale la sua decisione è ricorribile in Cassazione (Cass. 16214/2019).

La motivazione resa dal giudice, ossia che vi fosse una contraddizione nella narrazione del fatto in due atti diversi, tanto da renderla inverosimile, non solo di per sè non giustifica la ratio della decisione, ma neanche è idonea a farlo in base al suo contenuto, che, come si è visto suppone una contraddizione inesistente.

Inoltre, ed è ciò che è denunciato più precisamente con il secondo motivo, il giudice di primo grado ha ritenuto non provato il fatto sulla base di una contraddizione tra la narrazione contenuta nelle sommarie informazioni e la narrazione contenuta nella citazione, ma, per come risulta dal testo della prima delle due, riportato a pagina 18 del ricorso, anche nelle sommarie informazioni si fa riferimento al fatto che le assi di legno della pedana non erano ben fissate.

Così che la tesi che le due narrazioni si contraddicano l’un l’altra, oltre a non costituire motivazione sufficiente a sorreggere una decisione di rigetto delle prove e della domanda, è frutto di un errore percettivo sul contenuto di una prova, che può essere fatto valere in sede di legittimità (“In materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte” (Cass. 27033/2018; Cass. 9356/2017).

4.1.- Fondato è altresì il terzo motivo.

Con esso i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 2051 c.c., censurando come errata la tesi del giudice di merito secondo cui la responsabilità per cose in custodia sussiste quando quest’ultima, per le sue caratteristiche intrinseche, determina la configurazione nel caso concreto di un’insidia (p. 7 della sentenza), e che la prova che l’insidia non fosse visibile o che fosse evitabile spettava al danneggiato.

I ricorrenti contestano che la norma preveda la necessità di tale requisito.

Il motivo è fondato in quanto la responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

Il ricorso va dunque accolto, e la decisione cassata con rinvio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

bangladesh: la scarsa tutela del diritto alla salute nel paese di origine non giustifica il riconoscimento della protezione internazionale

18/03/2020 n. 7424 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata in data 22.05.2018, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Ancona ha rigettato la domanda di XXXX, cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella umanitaria.

Il giudice di merito ha ritenuto insussistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria in relazione alla natura palesemente economica e privata della sua vicenda di emigrazione ed alla mancanza di credibilità del suo racconto con riferimento al dedotto timore per la sua incolumità personale in caso di rientro in patria (il richiedente aveva riferito di essere fuggito dal Bangladesh a seguito di dissidi con un vicino sul diritto di proprietà di un terreno, sfociati in episodi di violenza privata di cui era stato vittima e in minacce di morte da parte dello stesso vicino).

Ha proposto ricorso per cassazione XXXX affidandolo a due motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta il ricorrente che al medesimo non è stato chiesto dai giudici di merito alcun chiarimento, non sono state approfondite le dichiarazioni dallo stesso rese davanti alla Commissione territoriale, lo stesso non è stato posto, attraverso il suo ascolto, in condizioni di fornire in maniera chiara ed esaustiva le proprie argomentazioni, deduzioni e mezzi istruttori.

2. Il motivo è infondato.

Va osservato che questa Corte ha già statuito che nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, anche ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (Cass. n. 5973/2019).

Dunque, anche nell’ipotesi in cui manchi la videoregistrazione del colloquio (situazione neppure dedotta dal ricorrente), non sussiste l’obbligo del giudice di rinnovare l’audizione del richiedente, il quale, peraltro, nel caso di specie, neppure risulta aver chiesto di essere nuovamente ascoltato dai giudici di merito.

Infine, il ricorrente neppure ha indicato gli elementi fattuali sui quali avrebbe eventualmente dovuto vertere la nuova audizione.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Lamenta il ricorrente che la Corte di Appello ha escluso la verosimiglianza del suo racconto senza approfondire ed analizzare la corrispondenza delle sue dichiarazioni.

Rileva, inoltre che la salute e l’accesso all’alimentazione sono considerati diritti inalienabili dell’individuo, avendo il richiedente diritto a che gli sia garantito un livello di vita adeguato per sè e per la propria famiglia laddove le condizioni sociali ed economiche del Pese di provenienza non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita.

4. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non è sufficiente la generica deduzione della violazione dei diritti fondamentali nel Paese d’origine.

Sul punto, questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini, Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad invocare genericamente la scarsa tutela del diritto alla salute ed alla alimentazione nel suo paese d’origine senza specificare quale fosse la sua condizione personale al momento della partenza, se non che la sua immigrazione fosse stata dettata anche da motivi economici.

Infine, il ricorrente ha lamentato il mancato approfondimento delle sue dichiarazioni senza confrontarsi minimamente con le argomentazioni con cui la Corte di merito ha ritenuto l’inattendibilità del suo racconto.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’interno costituito in giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

miglioramento delle condizioni reddituali dell'ex coniuge collocatario del minore giustifica la riduzione del contributo al mantenimento

13/03/2020 n. 7230 - Cassazione Civile - Sezione VI

MASSIMA 

In  riferimento all’adeguamento a seguito delle mutate condizioni patrimoniali dei coniugi: ” La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che il giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.”

FATTO
La Corte di Appello di Catania, con decisione in data 15/11/2017, ha riformato il decreto di rigetto pronunciato dal Tribunale di Siracusa in data 5-7 luglio 2016 in sede di modifica dell’assegno divorzile a favore della moglie ed a carico del marito ed ha ridotto da 350,00 mensili a 280,00 Euro mensili l’importo dell’assegno divorzile per il mantenimento della figlia minore OMISSIS nata dal matrimonio contratto da OMISSIS1 con OMISSIS2.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso in cassazione OMISSIS1 affidato a sei motivi.

A. OMISSIS2 non ha spiegato difese

DIRITTO 
Con il primo, terzo e quarto motivo di ricorso, tutti contenenti la medesima censura, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 e art. 2727 c.c. e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n.7, art. 13 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 ed art. 111 Cost. in quanto il giudice territoriale non ha tenuto conto delle situazioni economiche delle parti e conseguente sproporzione delle rispettive posizioni economiche degli ex coniugi nonchè dell’impossibilità per il ricorrente di mantenersi con il solo importo residuo a sua disposizione stabilito dalla Cortei considerato che aveva formato una nuova famiglia e che la compagna dalla quale aveva avuto un figlio aspettava un altro figlio. Il ricorrente evidenziava poi che la ex moglie era divenuta nelle more insegnante di ruolo con uno stipendio di 1.400,00 Euro mensili oltre alla disponibilità dell’appartamento coniugale di comune proprietà mentre al contrario il ricorrente aveva avuto altro figlio ed un altro ne aspettava dall’attuale compagna.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 143,155,156 e 2697 c.c. e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n.7, art. 13 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn.3, 4 e 5 ed art. 111 Cost., in quanto il giudice territoriale non ha tenuto conto delle situazioni economiche delle parti e conseguente sproporzione delle rispettive posizioni economiche dei coniugi e dei fatti nuovi sopravvenuti. Inoltre, ha ridotto l’assegno con decorrenza solo dalla data di pubblicazione della decisione e non dalla data della domanda. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e art. 92 c.p.c., comma 2 in riferimento all’art. 360 c.p.c. in quanto il giudice territoriale ha condannato il Salerai alle spese del primo grado di giudizio e compensato quelle di secondo grado sebbene il ricorso fosse fondato.

Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112,114 e 115 c.p.c. e art. 2727 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed art. 111 Cost. in quanto il giudice territoriale ha ridotto l’assegno senza motivare in alcun modo e senza indicare gli elementi posti alla base della decisione.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Infatti nel merito la decisione impugnata ha già valutato ed accolto tutte le ragioni del ricorrente: ha preso in considerazione la situazione economica delle parti e tenuto conto dell’incremento reddituale dell’ex-coniuge per cui ha ridotto l’assegno di mantenimento in favore della figlia da 350,00 Euro stabilito dal giudice di primo grado a 280,00 Euro mensili in quanto la ex moglie era divenuta nelle more insegnante di ruolo con uno stipendio di 1.400,00 Euro mensili oltre alla disponibilità dell’appartamento coniugale di comune proprietà, mentre al contrario il ricorrente aveva avuto un altro figlio ed un altro ancora ne aspettava dall’attuale compagna. Nessuna circostanza risulta essere stata trascurata dal giudice territoriale, che ha accolto, con decisione adeguatamente motivata ed immune da vizi logici, la domanda di riduzione del l’assegno.

La decisione impugnata merita quindi di essere confermata.

La decisione deve essere anche confermata in ordine alla decorrenza della riduzione dell’importo dell’assegno.

Infatti Sez. 1-, Sentenza n. 9533 del 04/04/2019 ha stabilito che in riferimento all’adeguamento a seguito delle mutate condizioni patrimoniali dei coniugi: ” La natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, e anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che il giudice d’appello, nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio.”

Inoltre il motivo di ricorso è infondato anche per le spese di giudizio, date le ragioni delle parti che hanno indotto il giudice a porre a carico del ricorrente le spese del primo grado di giudizio stante l’accoglimento parziale della domanda.

Il ricorso va rigettato. Nulla per le spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta-prima sezione della Corte di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020