protezione internazionale: il richiedente deve compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda

11/03/2020 n. 6922 - Cassazione Civile - sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Ancona con la sentenza in epigrafe indicata, pronunciando ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, ha rigettato l’appello proposto da XXXX avverso l’ordinanza con cui il locale Tribunale aveva disatteso l’opposizione avverso il provvedimento di diniego della competente Commissione territoriale dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

XXXX ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza con tre motivi.

Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente al dichiarato fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente, originario della Nigeria, cristiano pentecostale, nel racconto reso dinanzi alla competente Commissione territoriale aveva dichiarato di essersi allontanato dal proprio Paese perché il padre, medico secondo la medicina tradizionale, si era rifiutato di partecipare a un rito sacrificale su esseri umani ricevendo per questo un maleficio in esito al quale si ammalò e morì in poco tempo.

Dopo aver subito minacce dai componenti della setta, autrice del sortilegio ai danni padre nel perseguito intento che il richiedente ne prendesse il posto nella pratica dei riti sacrificali, ed in esito alla sofferta sottrazione dei beni di famiglia, il ricorrente si era trasferito presso uno zio a Benin City dove, un anno e mezzo dopo, decedeva la madre che lo accusava di averne determinato la morte per non aver aderito alle richieste della setta.

Dopo la morte dello zio, il ricorrente convinto che la setta sarebbe tornata a cercarlo e intimorito per una serie di attentati del gruppo di (OMISSIS), in cui nel frattempo egli si era trasferito trovando ivi un lavoro, e del peggioramento delle condizioni dei cattolici e pentacostali nella zona, decideva di fuggire.

1.1. Tanto esposto, con il primo motivo il ricorrente fa valere la nullità processuale dell’impugnata sentenza per motivazione apparente (art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e dell’art. 111 Cost.).

La Corte di appello aveva ritenuto il racconto non credibile, richiamando, in assenza di qualsivoglia elaborazione logica originale, la motivazione del giudice di primo grado di cui evidenziava la correttezza del ragionamento su incongruenze del racconto, in realtà non presenti.

Il motivo è infondato.

Fermo il principio per il quale, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), – e che tale apprezzamento di fatto diviene censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 05/02/2019 n. 3340; Cass. 20/12/2018 n. 33096), nel resto si osserva.

Quanto alla dedotta apparenza della motivazione, come questa Corte di legittimità ha affermato con costante indirizzo da cui non si ha motivo di discostarsi nella sua apprezzata ragionevolezza, in tema di ricorso per cassazione, è nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la motivazione che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame (Cass. n. 27112 del 25/10/2018).

Ciò posto, la deduzione è infondata.

Nella fattispecie in esame la sentenza enuncia il fatto come definito dal racconto del richiedente protezione per poi evidenziarne, con condivisione delle conclusioni raggiunte dal primo giudice, la non linearità, la non credibilità e la mancanza di riscontri in un apprezzato carattere stereotipato e frequente nelle narrazione degli episodi descritti.

Per i descritti contenuti, in cui chiaro è lo scrutinio delle evidenze fattuali contenute nel racconto, la motivazione ha carattere di autonomia evidenziando il processo decisionale della Corte di merito. Vero è poi che il ricorrente nulla deduce, in applicazione del principio sopra richiamato – che la parte pure pone a fondamento del motivo -, su quelle deduzioni difensive che, portate all’esame del giudice di appello, non avrebbe trovato nell’impugnata decisione alcuna valutazione critica, mancando in tal modo la censura di completezza e quindi di perspicuità e concludenza rispetto al voluto effetto di annullamento.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 14 e del n. 25 del 2008, art. 27, comma 1-bis, per avere la Corte di appello ritenuto erroneamente che quanto narrato dal ricorrente non fosse meritevole di protezione internazionale trattandosi di vicenda privata e per non aver proceduto all’attivazione dei poteri di integrazione istruttori d’ufficio onde verificare la portata della minaccia descritta.

La Corte di merito avrebbe errato nel qualificare la vicenda del dichiarante come privata, non provvedendo a valorizzare nella stessa il ruolo avuto dalla setta, cui era affiliato il padre del richiedente, che in ragione delle infiltrazioni nell’apparato pubblico e della polizia avrebbe reso inutile ogni richiesta di protezione allo Stato.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, stabilisce al comma 1, lett. c), che i responsabili di persecuzioni o del danno grave possono ben essere soggetti non statuali e quindi privati se lo Stato o le organizzazioni che controllano lo Stato non possono o non vogliono fornire protezione.

All’esito di siffatta corretta valutazione della fattispecie la Corte di merito avrebbe dovuto attivare i poteri ufficiosi di indagine sulla capacità delle autorità nigeriane di offrire protezione rispetto alle minacce subite dall’istante.

Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi dell’impugnata sentenza nella parte in cui i giudici territoriali hanno ritenuto la presenza nelle dichiarazioni rese di incongruenze che non ne hanno consentito la valutazione in relazione alle condizioni del paese di origine.

I giudici di appello hanno infatti rilevato che nonostante “l’attenuato onere probatorio”, l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale non può desumersi “da riferimenti generici a situazioni presenti nel paese di provenienza non accompagnati da elementi di maggior dettaglio e da riscontri individualizzanti” (p. 6 sentenza).

L’osservata regola è di piena applicazione del principio fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità per il quale là dove si abbia una intrinseca inattendibilità del richiedente, che venga apprezzata alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, i giudici di merito non sono tenuti a porre in essere alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. 27/06/2018, n. 16925; Cass. 10/4/2015 n. 7333; Cass. 1/3/2013 n. 5224).

In materia di protezione internazionale, il richiedente è infatti tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (Cass. 12/06/2019 n. 15794; Cass. 29/10/2018 n. 27336).

La rispondenza dell’adottata motivazione ai richiamati principi e l’incapacità del rilievo difensivo di scalfirli rende la critica inammissibile.

3. Con il terzo motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La Corte di merito non avrebbe considerato che nel racconto reso il dichiarante aveva riferito che l’ultima sua residenza era in (OMISSIS), zona ritenuta pericolosa per la presenza del gruppo terroristico di (OMISSIS).

L’appellante aveva censurato la decisione di primo grado là dove essa erroneamente aveva ritenuto che il richiedente provenisse dall’Edo State, zona stimata come non pericolosa, e non dal Borno State che veniva ritenuta, invece, nella stessa motivazione di primo grado, come pericolosa o soggetta ad istruzioni di “non rimpatrio”, carattere che sarebbe stato confermato dalla documentazione allegata al ricorso di primo grado e che avrebbe legittimato la parte alla protezione sussidiaria.

Il motivo è inammissibile perchè generico e non autosufficiente.

Il trasferimento a Maiduguri, e per esso della stessa residenza del richiedente con conseguente individuazione del Paese di rimpatrio, non viene dedotto come fatto controverso in giudizio e quindi come fatto che, mancato nella valutazione del giudice di appello ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel suo carattere decisivo avrebbe, ove apprezzato, orientato la decisione impugnata nel senso dell’accoglimento della richiesta di protezione sussidiaria.

In tema di ricorso per cassazione, per effetto della modifica dell’art. 366-bis c.p.c., introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c., (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale) (Cass. 13/12/2017 n. 29883).

Il motivo sul punto ha, invero e piuttosto, carattere illustrativo, mancando per i segnalati principi di specificità neppure indicando a quale forme di protezione sussidiaria il richiedente avrebbe avuto accesso.

La motivazione del giudice di primo grado, che si vorrebbe capace di dare contenuto al motivo di appello, là dove esclude la pericolosità dell’Edo State e ritiene invece quella del Borno State, vale invero quale mero passaggio argomentativo che in nulla sostiene la tempestività della deduzione e la sua appartenenza al dibattito processuale quale fatto controverso.

Per costante indirizzo di questa Corte di legittimità, il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione (Cass. 21/11/2017 n. 27568; Cass. 21/06/2018 n. 16347).

5. Il ricorso è, in via conclusiva, inammissibile.

Nulla sulle spese nella natura impropria dell’intervenuta costituzione della parte intimata per i sopra riportati contenuti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020

costa d'avorio: minori non accompagnati e protezione internazionale

11/03/2020 n. 6913 - Sezione I

Fatto

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, Omissis, cittadino della Costa d’Avorio, ha adito il Tribunale di Catanzaro impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva narrato di aver lasciato il proprio Paese perchè perseguitato dagli spiriti che lo avevano morso a un piede cagionandogli una emorragia inarrestabile, guarita solo allorchè si era recato in Burkina Faso e di non poter tornare al proprio Paese perchè altrimenti si sarebbe di nuovo scatenata l’emorragia.

Con ordinanza del 15/5/2017 il Tribunale ha accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo al richiedente asilo il diritto a un permesso di soggiorno motivi umanitari.

2. L’appello proposto dal Ministero dell’Interno è stato accolto dalla Corte di appello di Catanzaro, a spese compensate, con sentenza del 3/7/2018, a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso Omissis, con atto notificato il 4/2/2019, svolgendo un motivo.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita solo con memoria al fine di poter eventualmente partecipare alla discussione orale.

Diritto
1. Con il motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa il fatto decisivo della minore età del richiedente al momento dell’arrivo in Italia.

Secondo il ricorrente, la Corte era incorsa in contraddizione perchè aveva considerato la tenera età quale fattore di vulnerabilità (pag. 3, terzo capoverso, rigo 20) salvo poi contraddirsi nella valutazione in concreto di tale elemento.

La Corte di appello si era anche contraddetta laddove, dopo aver ricordato i presupposti della concessione della protezione umanitaria quale misura atipica e residuale di tutela di soggetti vulnerabili, non aventi titolo alla protezione internazionale, aveva ravvisato la genericità della motivazione della sentenza di primo grado e aveva dato rilievo ai fini del diniego ad elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Il ricorrente era minorenne non accompagnato quando era pervenuto in Italia il 16/7/2015 e al momento della sua audizione personale (2/4/2016), anche volendo considerare attendibile la data di nascita del 2/2/1998 in luogo di quella (1/1/2000) riportata nel provvedimento di diniego della Commissione.

Il caso non era stato trattato in via prioritaria, come imposto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 28, per i minori non accompagnati; d’altra parte, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, il ricorrente non era espellibile in quanto minore di anni 18.

Le varie circostanze rappresentate (aver lasciato il Paese di origine ed essere entrato in Italia da minorenne, aver ricevuto accoglienza quale minore non accompagnato; aver compiuto la maggiore età nelle more della domanda di asilo, aver allegato una situazione di forte indigenza e instabilità psicologica, aver svolto qualche lavoro con regolare assunzione) erano elementi che il Collegio non avrebbe dovuto trascurare e che sul presupposto di una particolare vulnerabilità del richiedente avrebbero dovuto giustificare il rigetto del gravame.

2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che avalla l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge.

Inoltre la stessa sentenza 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito aderisce al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

3. Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato il principio che la protezione umanitaria si configura come misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Sez. 6 – 1, n. 23604 del 09/10/2017, Rv. 646043 02); il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario che l’accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti (Sez. 1, n. 28990 del 12/11/2018,Rv. 651579 – 03); la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Sez. 6 – 1, n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700 – 01).

4. La Corte di appello ha escluso la situazione di vulnerabilità soggettiva del richiedente, riconosciuta invece dal Giudice di primo grado, negando rilievo alla minore età del B. al momento dell’arrivo in Italia, anche secondo la meno favorevole opzione (per vero motivata solo da uno sbrigativo “come è noto”) fra le due date di nascita alternativamente considerate (1/1/2000 e 2/2/1998).

Il ricorrente è arrivato, solo, in Italia il 16/7/2015; in data 22/12/2015 è stato accolto presso il Centro di Accoglienza di Petilia Policastro, come risulta dal decreto del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro del 5/1/2016; solo in data 12/4/2016 è stato sentito dalla Commissione territoriale, nonostante il disposto del D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 18, che imponeva la trattazione prioritaria della domanda di asilo del minore.

Il giovane è quindi arrivato in Italia, ha proposto domanda, è stato accolto e sentito dalla Commissione Territoriale quando ancora era minorenne, pur secondo il calcolo più sfavorevole adottato dalla Corte di Appello.

Il minore rappresenta una categoria di soggetto vulnerabile come risulta da numerosi indici normativi: D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1-bis, prevede che in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati; il comma 2 della stessa lett. a), inoltre non consente l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’art. 13, comma 1, nei confronti degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; l’art. 19, comma 2-bis, include il minore fra le categorie dei soggetti vulnerabili, per i quali il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate, al pari delle persone affette da disabilità, degli anziani, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali.

D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, con espressa previsione di salvaguardia dei diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, impone di tener conto, sulla base di una valutazione individuale, della specifica situazione delle persone vulnerabili, quali i minori, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, i minori non accompagnati, le vittime della tratta di esseri umani, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

Il successivo comma 2-bis richiama l’attenzione sulla necessità di considerare con carattere di priorità il superiore interesse del minore.

D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 19, prevede che al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale sia fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda e sia garantita l’assistenza del tutore in ogni fase della procedura per l’esame della domanda, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 5.

Se sussistono dubbi in ordine all’età, il minore non accompagnato può, in ogni fase della procedura, essere sottoposto, previo consenso del minore stesso o del suo rappresentante legale, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi al fine di accertarne l’età. Se gli accertamenti effettuati non consentono l’esatta determinazione dell’età si applicano le disposizioni del presente articolo.

Il minore partecipa al colloquio personale secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 3, e gli deve essere garantita adeguata informazione sul significato e le eventuali conseguenze del colloquio personale.

5. La Corte catanzarese, in riforma della decisione di primo grado, ha attribuito valore decisivo alla sopraggiunta maggiore età del ricorrente, senza tener in alcun conto che anche secondo il conteggio più sfavorevole ciò era avvenuto ben dopo l’arrivo in Italia e la richiesta di protezione, in virtù di un automatismo matematico, del tutto indifferente ai tempi del procedimento che non possono essere imputati al richiedente asilo e al parametro di prioritaria trattazione sancito dalla legge.

In siffatto contesto la Corte ha anche ignorato la circostanza dell’assunzione del giovane a tempo determinato, rilevante ai fini del giudizio comparativo, documentata in secondo grado, per rimarcare la mancanza di qualsiasi allegazione di elementi di integrazione lavorativa.

5. In ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con il rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020

riconoscimento del matrimonio celebrato da un ministro di culto non cattolico

09/03/2020 n. 6511 - sezione I

FATTO
1. La Corte di appello di Messina con il decreto in epigrafe indicato ha rigettato il reclamo proposto ex art. 739 c.p.c. da OMISSIS1. e OMISSIS2 avverso il decreto con cui il Tribunale di Patti, pronunciando sul ricorso promosso ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e 96 aveva disatteso la domanda dai primi proposta e diretta ad ottenere: la dichiarazione di legittimità del matrimonio da loro contratto in data (OMISSIS) nel Comune di (OMISSIS), secondo il rito dei “Testimoni di Geova”, con ordine all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di effettuare la trascrizione dell’atto nei Registri, o, in subordine, l’emissione di un decreto sostitutivo del certificato di matrimonio.

I giudici di appello, in adesione alle ragioni della decisione reclamata, hanno ritenuto la non trascrivibilità del matrimonio celebrato con il rito cristiano dei Testimoni di Geova perchè privo di effetti per lo Stato italiano.

La L. n. 1159 del 1929 ed il successivo regolamento di cui al R.D. n. 289 del 1930 rinviano, come disposto dall’art. 7 Cost., ad una “Intesa” tra la Repubblica italiana e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova che, raggiunta in data (OMISSIS), non era ancora efficace in territorio nazionale non essendo stata approvata con legge statale.

2. OMISSIS1e OMISSIS 2 ricorrono per la cassazione dell’indicato decreto con due motivi, illustrati da memoria.

3. Il rappresentante della Procura Generale della Corte di cassazione ha fatto pervenire memoria scritta in cui ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

DIRITTO
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione falsa applicazione della L. n. 1159 del 1929, artt. 3, 8, 9 e 10 e del R.D. n. 289 del 1930, artt. 25-28, del D.P.R. n. 396 del 2000, artt. 95 e 96, della L. n. 385 del 1949, art. 2 (contenente il “Trattato di Amicizia Italia-Usa”), dell’art. 83 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sulla trascrivibilità dei matrimoni celebrati dai ministri dei culti ammessi nello Stato italiano ancorchè privi di Intesa.

La Corte di appello aveva ritenuto la non trascrivibilità del matrimonio celebrato da un ministro di culto della Confessione religiosa dei Testimoni di Geova, la cui nomina era stata approvata dal Ministro dell’Interno, perchè la Congregazione cristiana era priva di “Intesa” con lo Stato Italiano.

Il matrimonio era stato invece legittimamente celebrato secondo le prescrizioni relative ai culti ammessi dallo Stato contenute nella L. n. 1159 del 1929, e relativo decreto di attuazione, il R.D. n. 289 del 1930, e pertanto sussistevano tutte le condizioni per procedere alla trascrizione nei registri dello Stato civile del Comune di Brolo in cui risiedevano i richiedenti.

2. Con il secondo mezzo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 8, 9, 12, 13, in combinato con l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, degli artt. 9 e 10 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE e degli artt. 2, 3, 8, 19 e 29 Cost..

La Corte di appello di Messina, confermando il decreto impugnato, aveva dato atto della insussistenza di un rimedio effettivo ed integrato, per l’assunta decisione, una non consentita ingerenza da parte delle autorità statali, nella vita privata e familiare invece tutelati da Convenzioni Europee e dalla Costituzione, in patente violazione del diritto fondamentale a contrarre un matrimonio valido agli effetti civili.

L’operato diniego, fondato sulla inesistenza di una “Intesa” tra la Congregazione religiosa, cui apparteneva il Ministro di culto celebrante, con lo Stato italiano, costituisce manifesta discriminazione basata sulla religione. Ritenere che una confessione religiosa riconosciuta dallo Stato, seppure priva di “Intesa”, non possa procedere alla celebrazione di matrimoni validi anche agli effetti civili è discriminatorio nei confronti degli appartenenti a detta confessione.

3. Il primo motivo è fondato ed in accoglimento dello stesso il decreto impugnato va annullato con rinvio dinanzi alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, in applicazione dei principi di seguito indicati e precisati.

4. In materia di trascrizione di matrimoni religiosi celebrati secondo il rito proprio di culti diversi da quello cattolico, occorre distinguere, nel vigente quadro normativo, due ipotesi.

L’una avente ad oggetto l’atto di matrimonio celebrato secondo il rito di culti religiosi per i quali esistano “Intese” con lo Stato italiano, nell’osservanza di un percorso di squisita natura politica che trova previsione nella Costituzione italiana (art. 7; Corte Cost. n. 52 del 2016) e l’altra, disciplinata dalla L. 24 giugno 1929, n. 1159, artt. 3, 7 e segg. e dalle norme attuative di cui al R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, secondo la quale il matrimonio celebrato in Italia davanti a un ministro di un culto diverso dalla religione cattolica e con il quale l’Italia non ha stipulato intese produce effetti civili a condizione che: a) la nomina di tale ministro di culto sia stata approvata con decreto dal Ministro dell’Interno; b) l’ufficiale dello stato civile, previo adempimento delle formalità previste, abbia rilasciato l’autorizzazione scritta alla celebrazione del matrimonio.

4.1. All’epoca della celebrazione del matrimonio dei ricorrenti, e quindi nel 1980, il Ministro di culto celebrante apparteneva alla “(OMISSIS)” – culto ammesso nello Stato italiano in ragione del “Trattato di Amicizia, Commercio, Navigazione tra la Repubblica Italiana e gli Stati Uniti di America” del 2 febbraio 1948, ratificato in Italia e reso esecutivo con L. 18 giugno 1949, n. 385 – persona giuridica che godeva in Italia dei diritti attribuiti ad altri Enti morali riconosciuti e che, come tale, era soggetto all’applicazione della L. 24 giugno 1929, n. 1159, contenente “Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”.

L’indicato ente morale non aveva richiesto la stipula di Intese con lo Stato italiano, iniziativa assunta invece, successivamente, dalla diversa “Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova”, con un procedimento ancora aperto in cui non era stata approvata la bozza di intesa del (OMISSIS).

Come infatti ricordano dalla giudice amministrativo la “L. n. 1159 del 1929 e il R.D. 28 febbraio 1930, n. 289, (…) hanno cessato di avere efficacia e applicabilità (…) esclusivamente nei confronti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica che avevano stipulato con lo Stato italiano “intese” trasfuse in leggi ai sensi dell’art. 8 Cost., ma non nei confronti delle altre associazioni religiose che (…) non avevano stipulato alcuna intesa con lo Stato italiano” (Cons. Stato, 17 aprile 2009, n. 2331).

4.2. La diversa soggettività giuridica dell’ente di appartenenza all’epoca di celebrazione del matrimonio depone, ratione temporis, per l’applicazione del regime dell'”approvazione” del Ministro di culto celebrante, nei termini di cui alla L. n. 1159 del 1929, e non per quello contrassegnato dalla stipula di “Intese”, non ancora concluse tra la “Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova” e lo Stato italiano.

La fattispecie resta pertanto disciplinata dalla L. 24 giugno 1929, n. 1159, artt. 3, 7 e ss. e relative norme di attuazione, per un percorso di accertamento delle condizioni ivi fissate – e, quindi, del riconoscimento del ministro di culto che ha celebrato il matrimonio e dell’autorizzazione scritta alla celebrazione rilasciata dall’ufficiale dello Stato civile – che è rimasto estraneo all’impugnato decreto.

4.3. La Corte di appello, dopo avere erroneamente sussunto, per malgoverno delle norme in applicazione, la fattispecie in esame nella distinta ipotesi delle “Intese” tra Stato italiano e confessioni religiose acattoliche, ha escluso la trascrivibilità dell’atto e quindi l’idoneità a produrre effetto nell’ordinamento italiano.

5. Gli accertamenti in fatto sottesi alla corretta qualificazione della fattispecie ostano a che questa Corte di legittimità possa giungere ad una decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, ed impongono l’annullamento con rinvio nei termini di seguito indicati.

6. In accoglimento del primo motivo di ricorso, correttamente ascritta la fattispecie in esame all’ipotesi di matrimonio celebrato da un Ministro del culto appartenente ad una associazione, la (OMISSIS), nei cui confronti, per il Trattato di amicizia del 02/02/1948, reso esecutivo in Italia con L. 18 giugno 1949, n. 385, trovano perdurante applicazione le disposizioni della L. n. 1159 del 1929 (art. 2) e del R.D. n. 289 del 1930 (art. 12) – e, quindi, il conseguimento del riconoscimento per presa d’atto del Ministro dell’Interno -, la Corte territoriale di Messina provvederà, al fine di accertare la trascrivibilità del matrimonio celebrato da Ministro di culto acattolico nel Comune di (OMISSIS) il (OMISSIS) tra OMISSIS1 e OMISSIS2, a verificare:

– se l’Ufficiale dello Stato civile, dopo aver certificato che nulla ostava alla celebrazione del matrimonio, avesse rilasciato autorizzazione scritta con indicazione:

a) del Ministro di culto dinanzi al quale la celebrazione doveva aver luogo;

b) della data del provvedimento con cui la nomina del Ministro di culto venne approvata nei termini di cui all’art. 3, come previsto dalla L. n. 1159 del 1929, art. 8, u.p..

Il secondo motivo resta assorbito.

7. In accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso ed assorbito il secondo, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

la presenza di un figlio minore in italia non costituisce motivo per ottenere un permesso per motivi umanitari

09/03/2020 n. 6587 - SEZIONE I

Va anzitutto evidenziata l’insufficienza della qualità di padre convivente di un minore presente sul territorio italiano al fine di giustificare la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, posto che la tutela del minore profugo è affidata ad altri istituti, quali l’autorizzazione alla permanenza sul territorio nazionale del genitore affidatario nell’interesse del minore ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31.

Com’è noto, tale norma prevede che l’espulsione di un minore straniero possa essere adottata solo a condizione che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore, su richiesta del Questore, dal tribunale per i minorenni; quanto al genitore, l’art, 31 prevede che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, possa autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle disposizioni del testo unico.

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aumento dell'assegno divorzile solo dopo una valutazione comparativa dei redditi

06/03/2020 n. 6470 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. XXXX ricorre in cassazione con tre motivi avverso il decreto in epigrafe indicato con cui la Corte di appello di Palermo, rigettando il reclamo dalla prima proposto ed in conferma del decreto del locale Tribunale, disponeva a carico dell’ex coniuge, YYYY, l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia (già fissato in Euro 850,00 mensili comprensive delle spese di natura straordinarie) sino all’importo di Euro 1.200,00 mensili per il periodo dal (OMISSIS) e quindi dalla data di deposito del ricorso di modifica fino a quella di inizio del rapporto lavorativo della figlia, KKKK, laureata in ingegneria, con una società multinazionale, nell’acquisita autonomia economica della stessa.

La Corte, nel confermare il primo decreto, revocava altresì il contributo del padre a decorrere dall’ottobre 2014 e l’assegnazione della casa coniugale alla ricorrente e, ancora, in parziale accoglimento della riconvenzionale con cui la signora XXXX aveva richiesto l’aumento fino ad Euro 1.950,00, incrementava l’assegno divorzile da 460 Euro a 500 Euro.

Resiste con controricorso YYYY.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e l’omessa comparazione dei redditi delle parti ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile.

La Corte di appello di Palermo avrebbe pretermesso una valutazione comparativa dei redditi delle parti, limitandosi ad affermare che l’aumento dell’assegno divorzile avrebbe trovato giustificazione nella revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale senza apprezzare l’esiguità dell’incremento, pari a soli 40 Euro, rispetto all'”enorme sproporzione dei redditi delle parti”, come invece richiesto in reclamo.

Il YYYY era imprenditore commerciale di successo con tenore di vita più che agiato e risorse illimitate ed accresciute rispetto all’epoca del divorzio e la ricorrente un avvocato dalle ben più ridotte disponibilità.

Titolare di sette immobili di pregio, l’ex coniuge dopo il divorzio aveva acquisito la disponibilità di un ulteriore appartamento intestato alla seconda moglie ed il possesso e la disponibilità di una prestigiosa villa in (OMISSIS), utilizzata nella stagione estiva, anch’essa intestata all’attuale seconda moglie.

Si sarebbero incrementate anche le quote di partecipazione del primo alla Sodano s.n.c. e sarebbero intervenute le opere di ristrutturazione di due dei tre punti vendita di calzature ed abbigliamento di proprietà.

2. Con il secondo motivo la ricorrente fa valere la violazione dell’art. 337-sexies c.c., in tema di quantificazione dell’assegno divorzile in seguito alla revoca dell’assegnazione dell’ex casa coniugale.

La figlia KKKK si era trasferita da (OMISSIS) a (OMISSIS) per iniziare un rapporto di collaborazione con la KPMG con un contratto di 24 mesi di apprendistato, e, sostenendo ancora gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione, continuava a recarsi mensilmente presso l’abitazione familiare a (OMISSIS) con costi a carico della madre.

La ricorrente sarebbe stata privata di un incremento dell’assegno proporzionato all’onere di reperire una nuova abitazione.

Dalla vendita o dalla locazione della ex casa coniugale nella cui disponibilità era rientrato, il signor YYYY avrebbe tratto un consistente beneficio economico là dove la signora XXXX avrebbe dovuto reperire una diversa soluzione abitativa con conseguente esborso.

3. Con il terzo motivo la ricorrente fa valere la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e art. 337-sexies c.c. e l’assenza di motivazione sul punto.

I giudici di merito avevano ritenuto che la circostanza che i genitori, e quindi anche la ricorrente, non dovessero più mantenere la figlia avrebbe reso congruo l’assegno divorzile senza poi interrogarsi sull’ammontare della quota dei redditi della ricorrente riservata al mantenimento della figlia.

4. I motivi si prestano tutti, ad una valutazione che è in parte di inammissibilità per le ragioni di seguito indicate.

4.1. La ricorrente non deduce quale fosse la quota di reddito riservata al contributo al mantenimento della figlia e tanto nel rapporto di proporzionalità con il padre.

Più puntualmente, la richiedente non allega, nel rispetto del principio di autosufficienza al quale il ricorso per cassazione deve rispondere ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, quale somma sia tornata nella sua libera disponibilità all’esito della revoca del contributo per la figlia, ormai autosufficiente, e tanto per consentire a questa Corte di legittimità di apprezzare, nella ridotta consistenza del contributo al mantenimento della figlia revocato, l’incapacità dello stesso, implementato, in modifica, di soli 40 Euro, di consentire quantomeno alla ricorrente di prendere in locazione un bene presso cui risiedere e tanto nella intervenuta, all’esito dell’apprezzata, dai giudici di merito, autosufficienza della figlia maggiorenne, revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale.

4.2. Per i mancati passaggi, non viene indicato il parametro su cui commisurare l’incremento dell’assegno divorzile nella denunciata insufficienza dell’aumento dispostone e per siffatta carenza i motivi proposti, che tutti muovono dalla segnalata inadeguatezza dell’implemento dell’assegno divorzile, soffrendo dell’indicata comune mancanza di autosufficienza, in via diretta o derivata, vanno dichiarati inammissibili.

4.3. La ricorrente va quindi condannata a rifondere al resistente le spese di lite che qui si liquidano, secondo soccombenza, in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al resistente le spese di lite che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2020

minore non accompagnato e accertamento anagrafico

03/03/2020 n. 5936 - SEZIONE I

La L. n. 47 del 2017, recante “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”, introdotta con il principale obiettivo di rafforzare gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento in favore dei minori stranieri, a completamento del quadro normativo vigente, all’art. 5 ha previsto, per quanto rileva, una procedura unica di identificazione del minore, che costituisce il passaggio fondamentale per l’accertamento della minore età ed a cui consegue la possibilità di applicare le misure di protezione in favore dei minori non accompagnati.

Solo ove sussistano fondati dubbi sull’età e questa non sia accertabile attraverso documenti identificativi (passaporto o altro documento di riconoscimento munito di fotografia), le Forze di Polizia possono richiedere al giudice competente per la tutela, ovverosia il Tribunale per i minorenni, l’autorizzazione all’avvio della procedura multidisciplinare per l’accertamento dell’età.

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il dentista e' responsabile quando sottopone il paziente a cure inutili che ne comportano l'aggravamento delle condizioni di salute

26/02/2020 n. 5128 - SEZIONE III

L’inadempimento rilevante, nell’ambito dell’azione di responsabilità medica, per il risarcimento del danno nelle obbligazioni, così dette, di comportamento non è, dunque, qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del paziente – creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, o comunque genericamente dedotto, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè “astrattamente efficiente alla produzione del danno” (così chiosa Cass. SU 577/2008). Conseguentemente, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 27606 del 29/10/2019; Cass.Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018).

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richiesta di protezione internazionale: il giudizio sulla credibilità del racconto non può fondarsi su considerazioni generali o astratte

20/02/2020 n. 4357 - Sezione I

Il Tribunale di Venezia ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino pakistano Omissis.

A sostegno della decisione ha ritenuto non verosimile il racconto narrato. Il ricorrente aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio paese per il timore di essere ucciso da un gruppo terroristico sunnita che, in un assalto presso la sua abitazione durante una cerimonia religiosa, aveva ucciso molti partecipanti alla stessa. Secondo il Tribunale, il racconto è generico perchè “elenca più che descrivere i gravi fatti posti a sostegno del suo espatrio”. Nessuno degli eventi è stata narrato in modo circostanziato. La documentazione prodotta non è di provenienza certa. E’ inverosimile, infine, che il richiedente chè abbia lasciato in patria la moglie ed I figli minori.

Tale valutazione negativa ha portato ad escludere la sussistenza dei requisiti per il rifugio politico e la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

Quanto alla lettera c), dalle fonti consultate, è emersa una situazione critica in Punjab sia in relazione ai conflitti etnici e politici che, in particolare, a quelli religiosi anche in relazione agli attacchi terroristici. Tuttavia questi ultimi sono in calo anche se perdura una situazione d’instabilità creata dalla presenza sul territorio di gruppi affiliati all’IS e dalla presenza di gruppi radicali. Complessivamente però, si può escludere che la regione stia vivendo una situazione di violenza indiscriminata.

In relazione alla protezione umanitaria incide sulla valutazione d’infondatezza il difetto di credibilità e la persistente condizione di clandestinità del richiedente.

Viene proposto ricorso per cassazione dal cittadino straniero. Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Sono, preliminarmente, sollevate eccezioni d’incostituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis così come modificato dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, lett. g) in relazione all’introduzione del rito camerale; della previsione di un termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato e della prescrizione secondo la quale la procura speciale per proporre ricorso per cassazione deve essere conferita successivamente alla comunicazione del decreto impugnato.

Le eccezioni sono manifestamente infondate secondo il costante orientamento di questa Corte così massimato:

in relazione al rito camerale:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte.(Cass. 17717 del 2018).

In relazione al termine perentorio di 30 giorni.

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, relativa all’eccessiva limitatezza del termine di trenta giorni prescritto per proporre ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale, poichè la previsione di tale termine è espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento. (Cass. 17717 del 2018; 28119 del 2018).

In relazione alla peculiarità del regime della procura speciale nel giudizio di legittimità:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, nella parte in cui stabilisce che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione debba essere conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto da parte della cancelleria, poichè tale previsione non determina una disparità di trattamento tra la parte privata ed il Ministero dell’interno, che non deve rilasciare procura, armonizzandosi con il disposto dell’art. 83 c.p.c., quanto alla specialità della procura, senza escludere l’applicabilità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 (Cass. 17717 del 2018).

Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere il Tribunale escluso l’esame dei riscontri documentali offerti dalla parte perchè non di provenienza certa così da ritenere che i fatti narrati non fossero circostanziati.

Nel secondo motivo il vizio di violazione di legge è rappresentato in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 25 e dell’art. 25 della Convenzione di Ginevra del 1951 dai quali si trae il principio della non compulsabilità delle autorità straniere a fini probatori quando si ritenga che tale attività possa danneggiare il richiedente perchè direttamente od indirettamente responsabili dei fatti narrati.

Nel terzo motivo si censura la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 perchè il Tribunale nell’affermare la non veridicità dei fatti narrati non ha applicato i criteri di credibilità indicati dalla norma, in particolare in relazione al giudizio di non valutabilità delle prove offerte.

Nel quarto motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione al mancato riconoscimento dello status di rifugiato non essendo stata esaminata dal Tribunale la condizione di perseguitato per motivi religiosi rappresentata dal richiedente.

I primi quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente ed accolti per quanto di ragione.

Il tribunale ha ritenuto che i fatti narrati dal ricorrente ancorchè “estremamente gravi” non sono stati riferiti in modo circostanziato. I documenti prodotti non costituiscono un supporto a tale deficit perchè non di provenienza certa e le dichiarazioni rese in udienza sono state confermative delle dichiarazioni rese.

La credibilità delle dichiarazioni del richiedente protezione internazionale deve essere valutata alla luce del paradigma stabilito nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e con una giustificazione argomentativa fondata sull’esame concreto delle dichiarazioni rese e non invece su valutazioni astratte. Il giudizio si deve fondare, perchè così richiesto dalla norma, sull’esame effettivo dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni anche in relazione agli sforzi allegativi e probatori del richiedente. E’ da escludere il rilievo ai fini della credibilità intrinseca della conformità delle produzioni documentali ai criteri processuali interni di ammissibilità. La documentazione deve essere “pertinente” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b) ma non corredata da particolari attestazioni di conformità all’originale, salva l’evidente e motivata falsità riscontrata o la mancanza dei requisiti minimi perchè quanto prodotto possa essere valutato come documento. Non può pertanto escludersi la ricorrenza del requisito stabilito nel comma 5, lettera a), dell’art. 3 sopracitato ovvero lo sforzo di circostanziare i fatti quando sia stato fornito un supporto documentale preciso (cfr. elenco documenti indicati in ricorso, riprodotti ritualmente) e pertinente omettendo di verificarne la rilevanza sulla base di una valutazione del tutto generica di non utilizzabilità.

Si deve aggiungere che la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 si riscontra anche in relazione agli indici di cui alle lettere b) e c). Non è stato valutato se il richiedente abbia fornito tutti gli elementi pertinenti in suo possesso prima di formulare, nonostante i documenti prodotti, una valutazione d’insufficiente specificazione dei fatti e non è stata neanche adombrata l’incoerenza e la contraddittorietà delle dichiarazioni rese (lettera c), salvo il richiamo all’aver lasciato la moglie ed i figli minori in Pakistan. Tale indicazione nella tessitura argomentativa della pronuncia impugnata non ha autonomo rilievo ed è stata valutata unitamente al profilo di rilevanza, ritenuta nettamente prevalente, costituito dalla mancanza di riscontri probatori così da escludere che i fatti esposti potessero essere circostanziati.

Sull’obbligo giuridico, scaturente dall’art. 3, di valutare le produzioni documentali, secondo un criterio di pertinenza e non con criteri formalisticamente ispirati ai principi interni in tema di tipicità della prova ed ammissibilità delle produzioni documentali si richiama Cass. 255534 del 2016, così massimata:

“In tema di riconoscimento dello “status” di rifugiato politico o della protezione internazionale, in presenza di eccezioni di contestazione della conformità dei documenti prodotti dal richiedente agli originali e di sostanziale credibilità delle sue dichiarazioni, non opera il tradizionale principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, ma il giudice – prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali – ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, se del caso utilizzando canali diplomatici, rogatoriali ed amministrativi, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato la protezione sussidiaria ad un cittadino nigeriano limitandosi ad evidenziare l’inverosimiglianza delle allegazioni, la mancanza di riscontri probatori ed il difetto di autenticità dei documenti prodotti, nonchè abbandonandosi a facili espressioni dubitative in relazione ai fatti narrati, senza assumere alcuna posizione di esame attivo).

Sul rispetto della procedimentalizzazione della credibilità si richiama Cass.26921 del 2017, così massimata:

“In tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’ autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale.

Sull’illegittimità di una valutazione di credibilità che si fondi sulla mancanza di riscontri probatori si richiama Cass. 19716 del 2018, così massimata:

“In tema di protezione sussidiaria, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, incombendo al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto. (Nella specie, la S.C., ha cassato la sentenza con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il diniego del riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo il tribunale ritenuto, senza alcun approfondimento istruttorio, che il timore di danno grave dedotto dal richiedente fosse esclusivamente soggettivo in quanto privo di riscontri obiettivi, e il pericolo non fosse più attuale.)

Il tribunale di Venezia non ha fatto buon governo dei principi interpretativi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, sopra richiamati, incentrando il giudizio di non credibilità” su valutazioni astratte e generali, non rivolte al contenuto delle dichiarazioni rese ed alla qualità intrinseca delle stesse rispetto alla situazione oggettiva narrata, non valorizzando lo sforzo di allegazione e prova profuso dal richiedente in ossequio alla prescrizione contenuta nella norma, così da svalorizzare la produzione documentale sulla base di una valutazione negativa fondata sulla mera mancanza di requisiti formali sulla pertinenza della stessa.

All’accoglimento dei primi quattro motivi consegue assorbimento dei rimanenti. Il provvedimento deve essere, in conclusione, cassato con rinvio al giudice del merito in diversa composizione perchè provveda anche sulle spese del presente procedimento.

PQM

Accoglie i primi quattro motivi, assorbiti gli altri, cassa il provvedimento impugnato e rinvia, anche per le spese processuali del presente procedimento, al Tribunale di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

scelta del nuovo nome e modifica dello stato civile anche se il cambio di sesso non è stato ancora completato

17/02/2020 n. 3877 - Sezione I

La Corte d’appello, riformando la decisione di primo grado, richiamate le pronunce della Consulta (sentenze nn. 221/2015 e 180/2017) e di questa Corte (Cass. 15138/2017), ha ritenuto sussistenti i presupposti per dar luogo alla rettificazione prevista dalla L. n. 164 del 1982, art. 1 non rappresentando presupposto imprescindibile il trattamento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali anatomici primari ed avendo accertato che non corrispondono più al sesso attribuito nell’atto di nascita i caratteri sessuali ed identitari attuali del ricorrente, così disponendo la rettificazione di attribuzione di sesso da maschile a femminile, con conseguente ordine all’Ufficiale di Stato Civile di provvedere alle necessarie rettifiche sul relativo registro.

All’attribuzione all’attore del sesso femminile deve necessariamente conseguire anche l’attribuzione di un nuovo nome, corrispondente al sesso.

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sul rilascio della carta di soggiorno ad extracomunitario convivente con cittadina dell'unione europea

17/02/2020 n. 3876 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 121/2018, depositata in data 24/01/2018, ha riformato la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso di XXXX, cittadino dell'(OMISSIS), avverso il provvedimento del 15/4/2013 del Questore di Genova, di rigetto della richiesta, presentata nel (OMISSIS), dello straniero di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE”, essendo nato, a (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), nel (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena. Il Questore aveva respinto l’istanza, per difetto dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, non trattandosi, quanto al richiedente, familiare straniero di cittadino italiano o dell’Unione Europea, di ascendente “a carico” o “assistito personalmente per gravi motivi di salute”, situazioni tutte “non riferibili ad un minorenne”.

In particolare, i giudici d’appello, accogliendo il gravame proposto dal Ministero dell’Interno, hanno sostenuto che il Tribunale aveva ritenuto, implicitamente, insussistenti i presupposti per il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti cittadini UE, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 1 e 2, in difetto di rapporto di coniugio tra il richiedente e la madre del minore ovvero di un rapporto di stabile convivenza tra gli stessi, debitamente attestato, ovvero della qualità, in capo all’istante, di “ascendente a carico” del figlio minore, mentre aveva ritenuto sussistenti i presupposti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, contemplante un permesso di durata limitata e collegato a particolari esigenze del minore, presupposti neppure allegati dal richiedente, che aveva invocato soltanto la relazione parentale genitore/figlio, in assenza di “gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore”; inoltre, ad avviso della Corte di merito, essendo la competenza sui provvedimenti ex art. 31 citato riservata al Tribunale per i minorenni, non poteva operare il meccanismo della transiatio iudicii, in quanto si trattava di procedimento del tutto diverso, per causa petendi e petitum.

Avverso la suddetta pronuncia, XXXX propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, sia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 28 e 30 T.U.I. sia l’omessa motivazione e l’omesso esame di fatto decisivo, rappresentato dalla convivenza more uxorio, dalla presenza di un minore e di un genitore cittadino comunitario, dovendo ritenersi che, difformemente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il giudice di primo grado aveva, per mero errore materiale, fatto richiamo all’art. 31 T.U.I., in luogo dell’art. 30 del T.U.I., comma 1, lett. d), relativa alla posizione del genitore extracomunitario di figlio minore, nato in Italia ed avente cittadinanza italiana, avendo il Tribunale fatto espresso riferimento alla regolare presenza di un minore comunitario residente in Italia ed alla convivenza effettiva tra il richiedente e la madre, pure comunitaria, del minore, ed ad una “situazione comunque tutelata”; con il secondo motivo, si lamenta poi sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2, 3,7 e 14, art. 5, comma 5, artt. 28,30 T.U.I., anche in relazione all’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi, rappresentati dal dritto di soggiorno illimitato della madre e del figlio minore, dovendo ritenersi illogico non assicurare al padre extracomunitario il diritto di continuare a risiedere nel territorio nazionale, insieme al figlio.

2. La seconda censura è fondata, con assorbimento della prima.

Il ricorrente, mentre non muove censure alla statuizione, pure presente nella sentenza impugnata, relativa all’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 31 T.U.I., invoca, da un lato, l’erroneità dell’interpretazione che è stata data dalla Corte d’appello del D.Lgs. n. 30 del 2007, per essere stato escluso “il padre convivente di un minore dal novero dei familiari”, pur “convivendo con lo stesso dalla nascita” e, dall’altro lato, l’applicabilità dell’art. 30, comma 1, lett. d) T.U.I., (“Permesso di soggiorno per motivi famigliari”), sostenendo sia che il Tribunale già ne avrebbe fatto corretta applicazione, al di là dell’erroneo richiamo ad altra disposizione normativa (l’art. 31 T.U.I.), sia che comunque la propria richiesta – di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE” -, respinta dal Questore di Genova, con provvedimento in questo giudizio impugnato, era da accogliere alla luce di tale norma.

Con riguardo al primo profilo, il ricorrente deduce che l’istanza di rilascio della carta di soggiorno è stata fatta quando il minore, nato e vissuto sempre in Italia, aveva un anno di vita e che la convivenza con il minore del padre dalla nascita è “pacifica ed accertata”, mentre quella tra i genitori, il cittadino extracomunitario richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena, non poteva essere dimostrata con documentazione ufficiale proveniente dalla Romania, in quanto la relazione tra i due era nata e si era sviluppata in Italia ed era stata accertata correttamente dal giudice di primo grado.

L’art. 30, comma 1, lett. d), contempla il rilascio di un permesso di soggiorno ” al genitore straniero, anche naturale, di minore italiano residente in Italia. In tal caso il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato anche a prescindere dal possesso di un valido titolo di soggiorno, a condizione che il genitore richiedente non sia stato privato della potestà genitoriale secondo la legge italiana”.

Il ricorrente aveva chiesto il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti UE, in quanto assumeva, documentando, di essere genitore di un bambino nato, nel (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena.

Ora, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28 (“Diritto all’unità familiare”) stabilisce al comma 2 che “ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea” continuano ad applicarsi le disposizioni del D.P.R. n. 1656 del 1965, oggi sostituito dal D.Lgs. n. 30 del 2007.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 10 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) così recita: “Carta di soggiorno per i familiari del cittadino comunitario non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione Europea 1. I familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all’art. 2, trascorsi tre mesi dall’ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la “Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, redatta su modello conforme a quello stabilito con decreto del Ministro dell’interno da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente D.Lgs….. 3. Per il rilascio della Carta di soggiorno, è richiesta la presentazione: a) del passaporto o documento equivalente, in corso di validità; b) di un documento rilasciato dall’autorità competente del Paese di origine o provenienza che attesti la qualità di familiare e, qualora richiesto, di familiare a carico ovvero di membro del nucleo familiare ovvero del familiare affetto da gravi problemi di salute, che richiedono l’assistenza personale del cittadino dell’Unione, titolare di un autonomo diritto di soggiorno; c) dell’attestato della richiesta d’iscrizione anagrafica del familiare cittadino dell’Unione; d) della fotografia dell’interessato, in formato tessera, in quattro esemplari; d-bis) nei casi di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), di documentazione ufficiale attestante l’esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell’Unione)). 4. La carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione ha una validità di cinque anni dalla data del rilascio….”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2, stabilisce che, ai fini del D.Lgs., si intende, per “cittadino dell’Unione”, qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro, e per “familiare”, il coniuge ovvero “il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante” ovvero “i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)” e “gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)”.

Lo stesso D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, prevede poi che il D.Lgs., si applica “a qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonchè ai suoi familiari ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo” e che lo Stato membro ospitante, senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell’interessato, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno di “ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all’art. 2, comma 1, lett. b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente” ovvero del “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)”.

Tale ultimo inciso è stato introdotto per effetto della L. Europea 6 agosto 2013, n. 97, art. 1 (Disposizioni volte a porre rimedio al non corretto recepimento della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari. Procedura di infrazione 2011/2053), con sostituzione delle parole: “dallo Stato del cittadino dell’Unione”, presenti nel precedente testo normativo, con quelle “con documentazione ufficiale”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), prima della Novella del 2013, in attuazione dell’art. 3, par. 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE, – il quale stabilisce che il diritto di ingresso e di soggiorno, in uno Stato membro UE ospitante un cittadino di altro Stato membro, viene riconosciuto anche al partner di quest’ultimo, a condizione che fra i due soggetti sussista una relazione stabile “debitamente attestata” (essendo qualificato familiare “il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”), – aveva introdotto una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare detta “stabile relazione”: infatti, si disponeva che tale rapporto – fra il cittadino dell’altro Stato membro e il suo partner – dovesse essere attestato dallo Stato al quale appartiene il primo, con esclusione, pertanto, non soltanto del documenti ufficiali dello Stato di provenienza del partner (se diverso dall’altro), ma anche dei mezzi di prova non costituiti da documenti.

Ora, la situazione del diritto alla coesione familiare del genitore di minore cittadino dell’U.E. e convivente di cittadina rumena, dell’U.E. quindi, è dunque contemplata espressamente da tali disposizioni, ma, come rilevato nella sentenza impugnata, la richiesta del B. veniva respinta dalla Questura (e, come osservato dalla Corte d’appello, la motivazione di rigetto, sotto tale profilo, era implicitamente recepita dal Tribunale, essendo il provvedimento di accoglimento motivato con richiamo ad altra norma, l’art. 31 T.U.I.), nell’aprile 2013, per insussistenza dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, nel testo vigente ratione temporis, atteso che l’istante non era coniugato con la cittadina rumena madre del minore nè era partner della stessa in forza di unione registrata in uno Stato membro o di attestazione ufficiale, dello Stato del cittadino dell’Unione (essendo intervenuta, solo nell’agosto del 2013, la L. Europea n. 97 del 2013, di correzione dell’inciso contenuto al D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, lett. b)), della stabile relazione nè poteva considerarsi ascendente a carico del figlio minore.

Tale statuizione viene espressamente impugnata dal ricorrente, nella prima parte del secondo motivo; il ricorrente invoca poi anche l’estensione, a suo favore, della portata applicativa dell’art. 30 T.U.I., disposizione questa dettata per la diversa ipotesi di genitore straniero di minore italiano, residente in Italia.

La prima parte della doglianza è fondata, in quanto il presupposto della stabile convivenza doveva essere dimostrato, con documentazione sì dotata di ufficialità, ma non anche necessariamente proveniente dallo Stato membro del partner cittadino comunitario (nella specie, la Romania), stante la modifica introdotta appunto dalla legge Europea n. 97/2013, nata da una procedura di infrazione elevata contro l’Italia per non corretto recepimento della Direttiva 2004/38/CE.

Nè necessariamente la documentazione ufficiale richiesta dal D.Lgs. n. 30 del 2007, si poteva rinvenire esclusivamente, come ritenuto dalla Corte d’appello, a pag. 3 della motivazione, attraverso gli strumenti previsto dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili. Anche perchè la coppia di fatto non poteva neanche ottenere una modalità di riconoscimento giuridico diversa dal matrimonio, dato che al momento di presentazione dell’istanza, nel 2011, il sistema giuridico italiano non prevedeva, per le coppie omosessuali o eterosessuali impegnate in una relazione stabile, la possibilità di avere accesso ad una unione civile o ad una unione registrata che attestasse la loro condizione e garantisse loro alcuni diritti essenziali.

L’art. 3, paragrafo 2, comma 1, lett. b), della direttiva 2004/38/CE riguarda specificamente il partner con il quale il cittadino dell’Unione ha una relazione stabile “debitamente attestata” e la disposizione prevede che lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevoli l’ingresso e il soggiorno di tale partner.

L’espressione “documentazione ufficiale” utilizzata dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla legge Europea n. 97/2013, non contiene alcuna definizione di “ufficialità”.

Queste peraltro sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE (di cui il D.Lgs. n. 30 del 2007, è atto di recepimento in Italia), al punto 2.2.1: “il partner con cui un cittadino dell’Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell’art. 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo”.

Al riguardo, occorre anche sottolineare che, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C-27 del 25 luglio 2008 (caso Metock), negli orientamenti successivi, questa Corte, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che “al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell’Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell’interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d’ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall’aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell’arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell’Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” (principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, Cass. n. 13112 del 2011; 3210 del 2011; Cass. 12745/2013).

Dovrebbe, in conclusione, definitivamente escludersi il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare (Cass. 12745/2013 cit.).

Il diritto di soggiorno del familiare del cittadino italiano è regolato dunque dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 7, comma 1, lett. d) e art. 10. Le due disposizioni normative riguardano specificamente il cittadino dell’Unione e i suoi familiari e sono inserite in un contesto legislativo che mira a garantire la circolazione in ambito UE.

Il provvedimento del Questore di diniego della carta di soggiorno era esclusivamente motivato in relazione alla qualità del richiedente di familiare del minore, cittadino comunitario (rumeno) nato in Italia, ritenuta insussistente, non anche in relazione alla qualità del medesimo di partner convivente della madre del minore, cittadina rumena, residente in Italia.

Il requisito della convivenza tra il familiare extracomunitario e la cittadina comunitaria, residente in Italia, costituiva un presupposto del rilascio della carta, non trattandosi di coniugi (invece, come da tempo chiarito da questa Corte, il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni familiari in favore di un cittadino extraEuropeo, coniuge di un cittadino italiano o dell’UE, disciplinato dal D.Lgs. n. 30 del 2007, non richiede il requisito della convivenza tra i coniugi, salve le conseguenze dell’accertamento di un matrimonio fittizio o di convenienza, ai sensi dell’art. 35 della direttiva 2004/38/CE e, dunque, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1 bis, essendo tale presupposto del tutto estraneo al disposto dell’art. 7, comma 1, lett. d) e artt. 12 e 13 del D.Lgs. citato, Cass. 10925/2019; Cass. 5303/2014).

Nella specie, la relazione more uxorio tra il richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena non poteva essere esaminata separatamente dall’atto di nascita del minore, non contestato dal Ministero, per quanto emerge dagli atti, nonchè da altri documenti attestanti la convivenza tra i genitori del bambino, al fine di poter ritenere assolto l’onere probatorio imposto dalla legge.

Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “in materia di riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2,3 e 10, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all’Unione Europea, di minore, cittadino dell’Unione, e convivente con cittadina dell’Unione, pur costituendo un presupposto la convivenza tra il familiare non appartenente all’U.E. e la cittadina dell’Unione, residente in Italia, non trattandosi di coniugi, la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta ed il cittadino dell’Unione, “debitamente attestata” con “documentazione ufficiale”, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla L. Europea n. 97 del 2013, può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l’epoca di presentazione dell’istanza, e quindi vagliando anche l’atto di nascita del minore o altra documentazione idonea”.

3.Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del ricorso (secondo motivo, assorbito il primo), va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, per nuovo esame.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, assorbito il primo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020