aumento dell'assegno divorzile solo dopo una valutazione comparativa dei redditi

06/03/2020 n. 6470 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. XXXX ricorre in cassazione con tre motivi avverso il decreto in epigrafe indicato con cui la Corte di appello di Palermo, rigettando il reclamo dalla prima proposto ed in conferma del decreto del locale Tribunale, disponeva a carico dell’ex coniuge, YYYY, l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia (già fissato in Euro 850,00 mensili comprensive delle spese di natura straordinarie) sino all’importo di Euro 1.200,00 mensili per il periodo dal (OMISSIS) e quindi dalla data di deposito del ricorso di modifica fino a quella di inizio del rapporto lavorativo della figlia, KKKK, laureata in ingegneria, con una società multinazionale, nell’acquisita autonomia economica della stessa.

La Corte, nel confermare il primo decreto, revocava altresì il contributo del padre a decorrere dall’ottobre 2014 e l’assegnazione della casa coniugale alla ricorrente e, ancora, in parziale accoglimento della riconvenzionale con cui la signora XXXX aveva richiesto l’aumento fino ad Euro 1.950,00, incrementava l’assegno divorzile da 460 Euro a 500 Euro.

Resiste con controricorso YYYY.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e l’omessa comparazione dei redditi delle parti ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile.

La Corte di appello di Palermo avrebbe pretermesso una valutazione comparativa dei redditi delle parti, limitandosi ad affermare che l’aumento dell’assegno divorzile avrebbe trovato giustificazione nella revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale senza apprezzare l’esiguità dell’incremento, pari a soli 40 Euro, rispetto all'”enorme sproporzione dei redditi delle parti”, come invece richiesto in reclamo.

Il YYYY era imprenditore commerciale di successo con tenore di vita più che agiato e risorse illimitate ed accresciute rispetto all’epoca del divorzio e la ricorrente un avvocato dalle ben più ridotte disponibilità.

Titolare di sette immobili di pregio, l’ex coniuge dopo il divorzio aveva acquisito la disponibilità di un ulteriore appartamento intestato alla seconda moglie ed il possesso e la disponibilità di una prestigiosa villa in (OMISSIS), utilizzata nella stagione estiva, anch’essa intestata all’attuale seconda moglie.

Si sarebbero incrementate anche le quote di partecipazione del primo alla Sodano s.n.c. e sarebbero intervenute le opere di ristrutturazione di due dei tre punti vendita di calzature ed abbigliamento di proprietà.

2. Con il secondo motivo la ricorrente fa valere la violazione dell’art. 337-sexies c.c., in tema di quantificazione dell’assegno divorzile in seguito alla revoca dell’assegnazione dell’ex casa coniugale.

La figlia KKKK si era trasferita da (OMISSIS) a (OMISSIS) per iniziare un rapporto di collaborazione con la KPMG con un contratto di 24 mesi di apprendistato, e, sostenendo ancora gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione, continuava a recarsi mensilmente presso l’abitazione familiare a (OMISSIS) con costi a carico della madre.

La ricorrente sarebbe stata privata di un incremento dell’assegno proporzionato all’onere di reperire una nuova abitazione.

Dalla vendita o dalla locazione della ex casa coniugale nella cui disponibilità era rientrato, il signor YYYY avrebbe tratto un consistente beneficio economico là dove la signora XXXX avrebbe dovuto reperire una diversa soluzione abitativa con conseguente esborso.

3. Con il terzo motivo la ricorrente fa valere la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e art. 337-sexies c.c. e l’assenza di motivazione sul punto.

I giudici di merito avevano ritenuto che la circostanza che i genitori, e quindi anche la ricorrente, non dovessero più mantenere la figlia avrebbe reso congruo l’assegno divorzile senza poi interrogarsi sull’ammontare della quota dei redditi della ricorrente riservata al mantenimento della figlia.

4. I motivi si prestano tutti, ad una valutazione che è in parte di inammissibilità per le ragioni di seguito indicate.

4.1. La ricorrente non deduce quale fosse la quota di reddito riservata al contributo al mantenimento della figlia e tanto nel rapporto di proporzionalità con il padre.

Più puntualmente, la richiedente non allega, nel rispetto del principio di autosufficienza al quale il ricorso per cassazione deve rispondere ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, quale somma sia tornata nella sua libera disponibilità all’esito della revoca del contributo per la figlia, ormai autosufficiente, e tanto per consentire a questa Corte di legittimità di apprezzare, nella ridotta consistenza del contributo al mantenimento della figlia revocato, l’incapacità dello stesso, implementato, in modifica, di soli 40 Euro, di consentire quantomeno alla ricorrente di prendere in locazione un bene presso cui risiedere e tanto nella intervenuta, all’esito dell’apprezzata, dai giudici di merito, autosufficienza della figlia maggiorenne, revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale.

4.2. Per i mancati passaggi, non viene indicato il parametro su cui commisurare l’incremento dell’assegno divorzile nella denunciata insufficienza dell’aumento dispostone e per siffatta carenza i motivi proposti, che tutti muovono dalla segnalata inadeguatezza dell’implemento dell’assegno divorzile, soffrendo dell’indicata comune mancanza di autosufficienza, in via diretta o derivata, vanno dichiarati inammissibili.

4.3. La ricorrente va quindi condannata a rifondere al resistente le spese di lite che qui si liquidano, secondo soccombenza, in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al resistente le spese di lite che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2020

minore non accompagnato e accertamento anagrafico

03/03/2020 n. 5936 - SEZIONE I

La L. n. 47 del 2017, recante “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”, introdotta con il principale obiettivo di rafforzare gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento in favore dei minori stranieri, a completamento del quadro normativo vigente, all’art. 5 ha previsto, per quanto rileva, una procedura unica di identificazione del minore, che costituisce il passaggio fondamentale per l’accertamento della minore età ed a cui consegue la possibilità di applicare le misure di protezione in favore dei minori non accompagnati.

Solo ove sussistano fondati dubbi sull’età e questa non sia accertabile attraverso documenti identificativi (passaporto o altro documento di riconoscimento munito di fotografia), le Forze di Polizia possono richiedere al giudice competente per la tutela, ovverosia il Tribunale per i minorenni, l’autorizzazione all’avvio della procedura multidisciplinare per l’accertamento dell’età.

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il dentista e' responsabile quando sottopone il paziente a cure inutili che ne comportano l'aggravamento delle condizioni di salute

26/02/2020 n. 5128 - SEZIONE III

L’inadempimento rilevante, nell’ambito dell’azione di responsabilità medica, per il risarcimento del danno nelle obbligazioni, così dette, di comportamento non è, dunque, qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del paziente – creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, o comunque genericamente dedotto, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè “astrattamente efficiente alla produzione del danno” (così chiosa Cass. SU 577/2008). Conseguentemente, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 27606 del 29/10/2019; Cass.Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018).

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richiesta di protezione internazionale: il giudizio sulla credibilità del racconto non può fondarsi su considerazioni generali o astratte

20/02/2020 n. 4357 - Sezione I

Il Tribunale di Venezia ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino pakistano Omissis.

A sostegno della decisione ha ritenuto non verosimile il racconto narrato. Il ricorrente aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio paese per il timore di essere ucciso da un gruppo terroristico sunnita che, in un assalto presso la sua abitazione durante una cerimonia religiosa, aveva ucciso molti partecipanti alla stessa. Secondo il Tribunale, il racconto è generico perchè “elenca più che descrivere i gravi fatti posti a sostegno del suo espatrio”. Nessuno degli eventi è stata narrato in modo circostanziato. La documentazione prodotta non è di provenienza certa. E’ inverosimile, infine, che il richiedente chè abbia lasciato in patria la moglie ed I figli minori.

Tale valutazione negativa ha portato ad escludere la sussistenza dei requisiti per il rifugio politico e la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

Quanto alla lettera c), dalle fonti consultate, è emersa una situazione critica in Punjab sia in relazione ai conflitti etnici e politici che, in particolare, a quelli religiosi anche in relazione agli attacchi terroristici. Tuttavia questi ultimi sono in calo anche se perdura una situazione d’instabilità creata dalla presenza sul territorio di gruppi affiliati all’IS e dalla presenza di gruppi radicali. Complessivamente però, si può escludere che la regione stia vivendo una situazione di violenza indiscriminata.

In relazione alla protezione umanitaria incide sulla valutazione d’infondatezza il difetto di credibilità e la persistente condizione di clandestinità del richiedente.

Viene proposto ricorso per cassazione dal cittadino straniero. Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Sono, preliminarmente, sollevate eccezioni d’incostituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis così come modificato dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, lett. g) in relazione all’introduzione del rito camerale; della previsione di un termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato e della prescrizione secondo la quale la procura speciale per proporre ricorso per cassazione deve essere conferita successivamente alla comunicazione del decreto impugnato.

Le eccezioni sono manifestamente infondate secondo il costante orientamento di questa Corte così massimato:

in relazione al rito camerale:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte.(Cass. 17717 del 2018).

In relazione al termine perentorio di 30 giorni.

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, relativa all’eccessiva limitatezza del termine di trenta giorni prescritto per proporre ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale, poichè la previsione di tale termine è espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento. (Cass. 17717 del 2018; 28119 del 2018).

In relazione alla peculiarità del regime della procura speciale nel giudizio di legittimità:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, nella parte in cui stabilisce che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione debba essere conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto da parte della cancelleria, poichè tale previsione non determina una disparità di trattamento tra la parte privata ed il Ministero dell’interno, che non deve rilasciare procura, armonizzandosi con il disposto dell’art. 83 c.p.c., quanto alla specialità della procura, senza escludere l’applicabilità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 (Cass. 17717 del 2018).

Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere il Tribunale escluso l’esame dei riscontri documentali offerti dalla parte perchè non di provenienza certa così da ritenere che i fatti narrati non fossero circostanziati.

Nel secondo motivo il vizio di violazione di legge è rappresentato in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 25 e dell’art. 25 della Convenzione di Ginevra del 1951 dai quali si trae il principio della non compulsabilità delle autorità straniere a fini probatori quando si ritenga che tale attività possa danneggiare il richiedente perchè direttamente od indirettamente responsabili dei fatti narrati.

Nel terzo motivo si censura la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 perchè il Tribunale nell’affermare la non veridicità dei fatti narrati non ha applicato i criteri di credibilità indicati dalla norma, in particolare in relazione al giudizio di non valutabilità delle prove offerte.

Nel quarto motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione al mancato riconoscimento dello status di rifugiato non essendo stata esaminata dal Tribunale la condizione di perseguitato per motivi religiosi rappresentata dal richiedente.

I primi quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente ed accolti per quanto di ragione.

Il tribunale ha ritenuto che i fatti narrati dal ricorrente ancorchè “estremamente gravi” non sono stati riferiti in modo circostanziato. I documenti prodotti non costituiscono un supporto a tale deficit perchè non di provenienza certa e le dichiarazioni rese in udienza sono state confermative delle dichiarazioni rese.

La credibilità delle dichiarazioni del richiedente protezione internazionale deve essere valutata alla luce del paradigma stabilito nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e con una giustificazione argomentativa fondata sull’esame concreto delle dichiarazioni rese e non invece su valutazioni astratte. Il giudizio si deve fondare, perchè così richiesto dalla norma, sull’esame effettivo dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni anche in relazione agli sforzi allegativi e probatori del richiedente. E’ da escludere il rilievo ai fini della credibilità intrinseca della conformità delle produzioni documentali ai criteri processuali interni di ammissibilità. La documentazione deve essere “pertinente” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b) ma non corredata da particolari attestazioni di conformità all’originale, salva l’evidente e motivata falsità riscontrata o la mancanza dei requisiti minimi perchè quanto prodotto possa essere valutato come documento. Non può pertanto escludersi la ricorrenza del requisito stabilito nel comma 5, lettera a), dell’art. 3 sopracitato ovvero lo sforzo di circostanziare i fatti quando sia stato fornito un supporto documentale preciso (cfr. elenco documenti indicati in ricorso, riprodotti ritualmente) e pertinente omettendo di verificarne la rilevanza sulla base di una valutazione del tutto generica di non utilizzabilità.

Si deve aggiungere che la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 si riscontra anche in relazione agli indici di cui alle lettere b) e c). Non è stato valutato se il richiedente abbia fornito tutti gli elementi pertinenti in suo possesso prima di formulare, nonostante i documenti prodotti, una valutazione d’insufficiente specificazione dei fatti e non è stata neanche adombrata l’incoerenza e la contraddittorietà delle dichiarazioni rese (lettera c), salvo il richiamo all’aver lasciato la moglie ed i figli minori in Pakistan. Tale indicazione nella tessitura argomentativa della pronuncia impugnata non ha autonomo rilievo ed è stata valutata unitamente al profilo di rilevanza, ritenuta nettamente prevalente, costituito dalla mancanza di riscontri probatori così da escludere che i fatti esposti potessero essere circostanziati.

Sull’obbligo giuridico, scaturente dall’art. 3, di valutare le produzioni documentali, secondo un criterio di pertinenza e non con criteri formalisticamente ispirati ai principi interni in tema di tipicità della prova ed ammissibilità delle produzioni documentali si richiama Cass. 255534 del 2016, così massimata:

“In tema di riconoscimento dello “status” di rifugiato politico o della protezione internazionale, in presenza di eccezioni di contestazione della conformità dei documenti prodotti dal richiedente agli originali e di sostanziale credibilità delle sue dichiarazioni, non opera il tradizionale principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, ma il giudice – prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali – ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, se del caso utilizzando canali diplomatici, rogatoriali ed amministrativi, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato la protezione sussidiaria ad un cittadino nigeriano limitandosi ad evidenziare l’inverosimiglianza delle allegazioni, la mancanza di riscontri probatori ed il difetto di autenticità dei documenti prodotti, nonchè abbandonandosi a facili espressioni dubitative in relazione ai fatti narrati, senza assumere alcuna posizione di esame attivo).

Sul rispetto della procedimentalizzazione della credibilità si richiama Cass.26921 del 2017, così massimata:

“In tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’ autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale.

Sull’illegittimità di una valutazione di credibilità che si fondi sulla mancanza di riscontri probatori si richiama Cass. 19716 del 2018, così massimata:

“In tema di protezione sussidiaria, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, incombendo al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto. (Nella specie, la S.C., ha cassato la sentenza con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il diniego del riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo il tribunale ritenuto, senza alcun approfondimento istruttorio, che il timore di danno grave dedotto dal richiedente fosse esclusivamente soggettivo in quanto privo di riscontri obiettivi, e il pericolo non fosse più attuale.)

Il tribunale di Venezia non ha fatto buon governo dei principi interpretativi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, sopra richiamati, incentrando il giudizio di non credibilità” su valutazioni astratte e generali, non rivolte al contenuto delle dichiarazioni rese ed alla qualità intrinseca delle stesse rispetto alla situazione oggettiva narrata, non valorizzando lo sforzo di allegazione e prova profuso dal richiedente in ossequio alla prescrizione contenuta nella norma, così da svalorizzare la produzione documentale sulla base di una valutazione negativa fondata sulla mera mancanza di requisiti formali sulla pertinenza della stessa.

All’accoglimento dei primi quattro motivi consegue assorbimento dei rimanenti. Il provvedimento deve essere, in conclusione, cassato con rinvio al giudice del merito in diversa composizione perchè provveda anche sulle spese del presente procedimento.

PQM

Accoglie i primi quattro motivi, assorbiti gli altri, cassa il provvedimento impugnato e rinvia, anche per le spese processuali del presente procedimento, al Tribunale di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

scelta del nuovo nome e modifica dello stato civile anche se il cambio di sesso non è stato ancora completato

17/02/2020 n. 3877 - Sezione I

La Corte d’appello, riformando la decisione di primo grado, richiamate le pronunce della Consulta (sentenze nn. 221/2015 e 180/2017) e di questa Corte (Cass. 15138/2017), ha ritenuto sussistenti i presupposti per dar luogo alla rettificazione prevista dalla L. n. 164 del 1982, art. 1 non rappresentando presupposto imprescindibile il trattamento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali anatomici primari ed avendo accertato che non corrispondono più al sesso attribuito nell’atto di nascita i caratteri sessuali ed identitari attuali del ricorrente, così disponendo la rettificazione di attribuzione di sesso da maschile a femminile, con conseguente ordine all’Ufficiale di Stato Civile di provvedere alle necessarie rettifiche sul relativo registro.

All’attribuzione all’attore del sesso femminile deve necessariamente conseguire anche l’attribuzione di un nuovo nome, corrispondente al sesso.

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sul rilascio della carta di soggiorno ad extracomunitario convivente con cittadina dell'unione europea

17/02/2020 n. 3876 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 121/2018, depositata in data 24/01/2018, ha riformato la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso di XXXX, cittadino dell'(OMISSIS), avverso il provvedimento del 15/4/2013 del Questore di Genova, di rigetto della richiesta, presentata nel (OMISSIS), dello straniero di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE”, essendo nato, a (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), nel (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena. Il Questore aveva respinto l’istanza, per difetto dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, non trattandosi, quanto al richiedente, familiare straniero di cittadino italiano o dell’Unione Europea, di ascendente “a carico” o “assistito personalmente per gravi motivi di salute”, situazioni tutte “non riferibili ad un minorenne”.

In particolare, i giudici d’appello, accogliendo il gravame proposto dal Ministero dell’Interno, hanno sostenuto che il Tribunale aveva ritenuto, implicitamente, insussistenti i presupposti per il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti cittadini UE, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 1 e 2, in difetto di rapporto di coniugio tra il richiedente e la madre del minore ovvero di un rapporto di stabile convivenza tra gli stessi, debitamente attestato, ovvero della qualità, in capo all’istante, di “ascendente a carico” del figlio minore, mentre aveva ritenuto sussistenti i presupposti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, contemplante un permesso di durata limitata e collegato a particolari esigenze del minore, presupposti neppure allegati dal richiedente, che aveva invocato soltanto la relazione parentale genitore/figlio, in assenza di “gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore”; inoltre, ad avviso della Corte di merito, essendo la competenza sui provvedimenti ex art. 31 citato riservata al Tribunale per i minorenni, non poteva operare il meccanismo della transiatio iudicii, in quanto si trattava di procedimento del tutto diverso, per causa petendi e petitum.

Avverso la suddetta pronuncia, XXXX propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, sia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 28 e 30 T.U.I. sia l’omessa motivazione e l’omesso esame di fatto decisivo, rappresentato dalla convivenza more uxorio, dalla presenza di un minore e di un genitore cittadino comunitario, dovendo ritenersi che, difformemente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il giudice di primo grado aveva, per mero errore materiale, fatto richiamo all’art. 31 T.U.I., in luogo dell’art. 30 del T.U.I., comma 1, lett. d), relativa alla posizione del genitore extracomunitario di figlio minore, nato in Italia ed avente cittadinanza italiana, avendo il Tribunale fatto espresso riferimento alla regolare presenza di un minore comunitario residente in Italia ed alla convivenza effettiva tra il richiedente e la madre, pure comunitaria, del minore, ed ad una “situazione comunque tutelata”; con il secondo motivo, si lamenta poi sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2, 3,7 e 14, art. 5, comma 5, artt. 28,30 T.U.I., anche in relazione all’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi, rappresentati dal dritto di soggiorno illimitato della madre e del figlio minore, dovendo ritenersi illogico non assicurare al padre extracomunitario il diritto di continuare a risiedere nel territorio nazionale, insieme al figlio.

2. La seconda censura è fondata, con assorbimento della prima.

Il ricorrente, mentre non muove censure alla statuizione, pure presente nella sentenza impugnata, relativa all’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 31 T.U.I., invoca, da un lato, l’erroneità dell’interpretazione che è stata data dalla Corte d’appello del D.Lgs. n. 30 del 2007, per essere stato escluso “il padre convivente di un minore dal novero dei familiari”, pur “convivendo con lo stesso dalla nascita” e, dall’altro lato, l’applicabilità dell’art. 30, comma 1, lett. d) T.U.I., (“Permesso di soggiorno per motivi famigliari”), sostenendo sia che il Tribunale già ne avrebbe fatto corretta applicazione, al di là dell’erroneo richiamo ad altra disposizione normativa (l’art. 31 T.U.I.), sia che comunque la propria richiesta – di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE” -, respinta dal Questore di Genova, con provvedimento in questo giudizio impugnato, era da accogliere alla luce di tale norma.

Con riguardo al primo profilo, il ricorrente deduce che l’istanza di rilascio della carta di soggiorno è stata fatta quando il minore, nato e vissuto sempre in Italia, aveva un anno di vita e che la convivenza con il minore del padre dalla nascita è “pacifica ed accertata”, mentre quella tra i genitori, il cittadino extracomunitario richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena, non poteva essere dimostrata con documentazione ufficiale proveniente dalla Romania, in quanto la relazione tra i due era nata e si era sviluppata in Italia ed era stata accertata correttamente dal giudice di primo grado.

L’art. 30, comma 1, lett. d), contempla il rilascio di un permesso di soggiorno ” al genitore straniero, anche naturale, di minore italiano residente in Italia. In tal caso il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato anche a prescindere dal possesso di un valido titolo di soggiorno, a condizione che il genitore richiedente non sia stato privato della potestà genitoriale secondo la legge italiana”.

Il ricorrente aveva chiesto il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti UE, in quanto assumeva, documentando, di essere genitore di un bambino nato, nel (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena.

Ora, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28 (“Diritto all’unità familiare”) stabilisce al comma 2 che “ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea” continuano ad applicarsi le disposizioni del D.P.R. n. 1656 del 1965, oggi sostituito dal D.Lgs. n. 30 del 2007.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 10 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) così recita: “Carta di soggiorno per i familiari del cittadino comunitario non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione Europea 1. I familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all’art. 2, trascorsi tre mesi dall’ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la “Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, redatta su modello conforme a quello stabilito con decreto del Ministro dell’interno da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente D.Lgs….. 3. Per il rilascio della Carta di soggiorno, è richiesta la presentazione: a) del passaporto o documento equivalente, in corso di validità; b) di un documento rilasciato dall’autorità competente del Paese di origine o provenienza che attesti la qualità di familiare e, qualora richiesto, di familiare a carico ovvero di membro del nucleo familiare ovvero del familiare affetto da gravi problemi di salute, che richiedono l’assistenza personale del cittadino dell’Unione, titolare di un autonomo diritto di soggiorno; c) dell’attestato della richiesta d’iscrizione anagrafica del familiare cittadino dell’Unione; d) della fotografia dell’interessato, in formato tessera, in quattro esemplari; d-bis) nei casi di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), di documentazione ufficiale attestante l’esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell’Unione)). 4. La carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione ha una validità di cinque anni dalla data del rilascio….”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2, stabilisce che, ai fini del D.Lgs., si intende, per “cittadino dell’Unione”, qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro, e per “familiare”, il coniuge ovvero “il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante” ovvero “i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)” e “gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)”.

Lo stesso D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, prevede poi che il D.Lgs., si applica “a qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonchè ai suoi familiari ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo” e che lo Stato membro ospitante, senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell’interessato, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno di “ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all’art. 2, comma 1, lett. b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente” ovvero del “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)”.

Tale ultimo inciso è stato introdotto per effetto della L. Europea 6 agosto 2013, n. 97, art. 1 (Disposizioni volte a porre rimedio al non corretto recepimento della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari. Procedura di infrazione 2011/2053), con sostituzione delle parole: “dallo Stato del cittadino dell’Unione”, presenti nel precedente testo normativo, con quelle “con documentazione ufficiale”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), prima della Novella del 2013, in attuazione dell’art. 3, par. 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE, – il quale stabilisce che il diritto di ingresso e di soggiorno, in uno Stato membro UE ospitante un cittadino di altro Stato membro, viene riconosciuto anche al partner di quest’ultimo, a condizione che fra i due soggetti sussista una relazione stabile “debitamente attestata” (essendo qualificato familiare “il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”), – aveva introdotto una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare detta “stabile relazione”: infatti, si disponeva che tale rapporto – fra il cittadino dell’altro Stato membro e il suo partner – dovesse essere attestato dallo Stato al quale appartiene il primo, con esclusione, pertanto, non soltanto del documenti ufficiali dello Stato di provenienza del partner (se diverso dall’altro), ma anche dei mezzi di prova non costituiti da documenti.

Ora, la situazione del diritto alla coesione familiare del genitore di minore cittadino dell’U.E. e convivente di cittadina rumena, dell’U.E. quindi, è dunque contemplata espressamente da tali disposizioni, ma, come rilevato nella sentenza impugnata, la richiesta del B. veniva respinta dalla Questura (e, come osservato dalla Corte d’appello, la motivazione di rigetto, sotto tale profilo, era implicitamente recepita dal Tribunale, essendo il provvedimento di accoglimento motivato con richiamo ad altra norma, l’art. 31 T.U.I.), nell’aprile 2013, per insussistenza dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, nel testo vigente ratione temporis, atteso che l’istante non era coniugato con la cittadina rumena madre del minore nè era partner della stessa in forza di unione registrata in uno Stato membro o di attestazione ufficiale, dello Stato del cittadino dell’Unione (essendo intervenuta, solo nell’agosto del 2013, la L. Europea n. 97 del 2013, di correzione dell’inciso contenuto al D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, lett. b)), della stabile relazione nè poteva considerarsi ascendente a carico del figlio minore.

Tale statuizione viene espressamente impugnata dal ricorrente, nella prima parte del secondo motivo; il ricorrente invoca poi anche l’estensione, a suo favore, della portata applicativa dell’art. 30 T.U.I., disposizione questa dettata per la diversa ipotesi di genitore straniero di minore italiano, residente in Italia.

La prima parte della doglianza è fondata, in quanto il presupposto della stabile convivenza doveva essere dimostrato, con documentazione sì dotata di ufficialità, ma non anche necessariamente proveniente dallo Stato membro del partner cittadino comunitario (nella specie, la Romania), stante la modifica introdotta appunto dalla legge Europea n. 97/2013, nata da una procedura di infrazione elevata contro l’Italia per non corretto recepimento della Direttiva 2004/38/CE.

Nè necessariamente la documentazione ufficiale richiesta dal D.Lgs. n. 30 del 2007, si poteva rinvenire esclusivamente, come ritenuto dalla Corte d’appello, a pag. 3 della motivazione, attraverso gli strumenti previsto dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili. Anche perchè la coppia di fatto non poteva neanche ottenere una modalità di riconoscimento giuridico diversa dal matrimonio, dato che al momento di presentazione dell’istanza, nel 2011, il sistema giuridico italiano non prevedeva, per le coppie omosessuali o eterosessuali impegnate in una relazione stabile, la possibilità di avere accesso ad una unione civile o ad una unione registrata che attestasse la loro condizione e garantisse loro alcuni diritti essenziali.

L’art. 3, paragrafo 2, comma 1, lett. b), della direttiva 2004/38/CE riguarda specificamente il partner con il quale il cittadino dell’Unione ha una relazione stabile “debitamente attestata” e la disposizione prevede che lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevoli l’ingresso e il soggiorno di tale partner.

L’espressione “documentazione ufficiale” utilizzata dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla legge Europea n. 97/2013, non contiene alcuna definizione di “ufficialità”.

Queste peraltro sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE (di cui il D.Lgs. n. 30 del 2007, è atto di recepimento in Italia), al punto 2.2.1: “il partner con cui un cittadino dell’Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell’art. 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo”.

Al riguardo, occorre anche sottolineare che, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C-27 del 25 luglio 2008 (caso Metock), negli orientamenti successivi, questa Corte, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che “al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell’Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell’interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d’ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall’aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell’arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell’Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” (principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, Cass. n. 13112 del 2011; 3210 del 2011; Cass. 12745/2013).

Dovrebbe, in conclusione, definitivamente escludersi il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare (Cass. 12745/2013 cit.).

Il diritto di soggiorno del familiare del cittadino italiano è regolato dunque dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 7, comma 1, lett. d) e art. 10. Le due disposizioni normative riguardano specificamente il cittadino dell’Unione e i suoi familiari e sono inserite in un contesto legislativo che mira a garantire la circolazione in ambito UE.

Il provvedimento del Questore di diniego della carta di soggiorno era esclusivamente motivato in relazione alla qualità del richiedente di familiare del minore, cittadino comunitario (rumeno) nato in Italia, ritenuta insussistente, non anche in relazione alla qualità del medesimo di partner convivente della madre del minore, cittadina rumena, residente in Italia.

Il requisito della convivenza tra il familiare extracomunitario e la cittadina comunitaria, residente in Italia, costituiva un presupposto del rilascio della carta, non trattandosi di coniugi (invece, come da tempo chiarito da questa Corte, il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni familiari in favore di un cittadino extraEuropeo, coniuge di un cittadino italiano o dell’UE, disciplinato dal D.Lgs. n. 30 del 2007, non richiede il requisito della convivenza tra i coniugi, salve le conseguenze dell’accertamento di un matrimonio fittizio o di convenienza, ai sensi dell’art. 35 della direttiva 2004/38/CE e, dunque, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1 bis, essendo tale presupposto del tutto estraneo al disposto dell’art. 7, comma 1, lett. d) e artt. 12 e 13 del D.Lgs. citato, Cass. 10925/2019; Cass. 5303/2014).

Nella specie, la relazione more uxorio tra il richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena non poteva essere esaminata separatamente dall’atto di nascita del minore, non contestato dal Ministero, per quanto emerge dagli atti, nonchè da altri documenti attestanti la convivenza tra i genitori del bambino, al fine di poter ritenere assolto l’onere probatorio imposto dalla legge.

Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “in materia di riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2,3 e 10, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all’Unione Europea, di minore, cittadino dell’Unione, e convivente con cittadina dell’Unione, pur costituendo un presupposto la convivenza tra il familiare non appartenente all’U.E. e la cittadina dell’Unione, residente in Italia, non trattandosi di coniugi, la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta ed il cittadino dell’Unione, “debitamente attestata” con “documentazione ufficiale”, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla L. Europea n. 97 del 2013, può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l’epoca di presentazione dell’istanza, e quindi vagliando anche l’atto di nascita del minore o altra documentazione idonea”.

3.Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del ricorso (secondo motivo, assorbito il primo), va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, per nuovo esame.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, assorbito il primo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all'immagine ed all'identità personale in conseguenza di una videoripresa

21/06/2018 n. 16358 - sez I

RITENUTO CHE:

La Corte di appello di Roma, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’appello principale proposto da RTI SPA (di seguito RTI) e l’appello incidentale proposto da UC ed ha confermato la decisione del primo giudice che – in controversia concernente la richiesta di risarcimento danni proposta da UC per la lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all’immagine ed all’identità personale in conseguenza di una videoripresa realizzata dal TM , prodotto dalla società convenuta, e trasmessa senza avere ottenuto il consenso o la liberatoria – aveva accolto la domanda del C, ritenendo che la messa in onda della videoripresa senza il consenso scritto avesse costituito violazione delle leggi sulla tutela dei dati personali ed aveva condannato la convenuta società, ai sensi dell’art.2049 cod. civ., al pagamento di €.20.000,00=, oltre interessi legali, a titolo di risarcimento, e spese. La vicenda aveva riguardato una video ripresa che aveva visto come protagonista inconsapevole il C, avvicinato in una discoteca da una ragazza, complice della produzione televisiva, che lo aveva invitato ad uscire per recarsi all’interno della sua autovettura, dove lo aveva interpellato su comportamenti ed opinioni attinenti alla sfera sessuale ed all’uso dei contraccettivi, nonché circa la sua intenzione di avere rapporti sessuali senza precauzioni. La Corte di appello ha confermato che non risultava acquisito un valido consenso al trattamento dei dati personali ed ha condannato la società al risarcimento dei danni. La RTI ha proposto ricorso per cassazione con quattro mezzi corredati da memoria ex art.378 cod. proc. civ.; UC ha replicato con controricorso. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.

CONSIDERATO CHE:

1.1. Con il primo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge n.675 del 31 dicembre 1996, applicabile ratione temporis, essendo stato trasmesso il servizio in causa nel 2001, antecedentemente all’entrata in vigore del d.lgs. n.196/2003, e dell’art.2712 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.)
– la ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il consenso dovesse essere espresso in forma scritta ad substantiam, laddove – alla stregua della norma – la forma scritta rilevava solo a fini probatori, di guisa che l’assenza non incideva sulla validità dell’atto negoziale, ma spiegava efficacia solo sul piano processuale, limitando la possibilità di prova per testi ai sensi dell’art.2725 cod. civ.; a sostegno invoca la formulazione dell’art.23 del d.lgs. n.196/2003, che ha sostituito l’art.11 cit. Sulla scorta di tale premessa, afferma che nel caso di specie il consenso alla diffusione delle immagini era stato documentato da una videoregistrazione, dalla quale emergeva – a suo dire – la piena consapevolezza del C circa il fatto di essere stato ripreso e la volontà di non opporsi alla diffusione del girato e sostiene l’equipollenza della documentazione del consenso mediante videoregistrazione a quello reso in forma scritta.
1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art.360, primo comma, n.5, cod. proc. civ.) individuato nel contegno tenuto nell’occasione della ripresa dal C e nell’immediatezza con il TM e l’operatore – a dire della ricorrente – incompatibile con la volontà di opporsi alla diffusione dell’immagine.
1.3. Con il terzo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art.96 della legge 22 aprile 1941, n.633 del diritto d’autore (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente sostiene che la Corte di appello ha errato anche perché il consenso all’utilizzazione dell’immagine può essere anche tacito e sostiene che, giacché l’immagine integra un dato personale, la legge sul diritto d’autore si pone come legge speciale relativa a questo specifico dato personale destinata a prevalere sulla legge n.675/1996.
1.4. Con il quarto motivo – Violazione falsa applicazione degli artt.2059, 2727 e 2729 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto provato presuntivamente il danno non patrimoniale lamentato dal C in relazione al pregiudizio rispetto al proprio rapporto sentimentale ed al pregiudizio sul luogo di lavoro, deducendo che questi non aveva provato i danni non patrimoniali lamentati.
2.1. I motivi primo e terzo possono essere trattati congiuntamente perché connessi e vanno respinti. 2.2.1. Innanzi tutto va affermato che la fattispecie in esame non è sussumibile nell’ambito di applicazione dell’art.96 della legge n.633/1941, – come prospettato nel terzo motivo – in quanto la lesione lamentata non involge il diritto all’immagine intesa come “ritratto”, disciplinato da detta norma e rispetto alla quale è ravvisabile anche la possibilità del consenso all’utilizzo anche implicito o tacito (Cass 01/09/2008, n. 21995).
2.2.2. La presente controversia, così come accertata dalla Corte di appello, senza contestazioni sul punto, verte infatti su una videoripresa, che ha caratteristiche complesse in quanto non è circoscritta alla mera riproduzione dell’immagine del C, ma consiste nella registrazione, sia in video che in sonoro, di un incontro artatamente preordinato in specifiche circostanze di tempo e di luogo (all’uscita di una discoteca, in un autovettura munita di sistemi di registrazione) allo scopo di realizzazione uno programma televisivo, e delle risposte rese dall’inconsapevole C alle domande poste da un soggetto provocatore su temi privati e sensibili afferenti anche alla sfera sessuale.
2.2.3. La Corte di appello, nell’esporre la complessiva ratio, ha rimarcato questi aspetti fattuali, puntualizzando che nel caso di specie ricorreva un trattamento di dati personali – statuizione, questa, non censurata – e, quindi ha confermato la decisione di primo grado concernente la necessità del consenso scritto, insistendo sulla necessità del consenso espresso e consapevole anche in merito ai limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione, alla luce della normativa applicata.
2.2.4. Ne consegue che il terzo motivo è inammissibile poiché invoca l’applicazione della disciplina del diritto d’autore, non pertinente alla fattispecie accertata che ricade sotto la tutela di dati personali.
2.3.1. Il primo motivo, concernente la forma del consenso, è infondato.
2.3.2. Secondo la disciplina della tutela dei dati personali, vigente ratione temporis, il trattamento dei dati personali richiede il consenso dell’interessato, che deve essere espresso in forma specifica, previa informativa, deve essere documentato (art. 11 della legge n. 675/96) e deve essere reso per iscritto con riferimento ai dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art.22, legge cit.).
2.3.3. La Corte di appello ha dato corretta applicazione a dette disposizioni e la decisione risulta immune da vizi.
2.3.4. Va peraltro rimarcato che confligge con il dettato normativo la possibilità di ritenere acquisito il consenso in via implicita o per equipollenza, come propugnato dalla ricorrente. La società ha assunto che il consenso sarebbe stato prestato perché – come evincibile dalla registrazione – dal contegno del Csi comprenderebbe che questi aveva riconosciuto i componenti del TM, compreso che era stato oggetto di una ripresa destinata ad essere trasmessa nello show Le Iene ed espresso una valutazione positiva del servizio attraverso le battute formulate. La censura strutturata sulla non necessità ad substantiam della forma scritta del consenso e sull’idoneità della stessa videoregistrazione a fornire prova equipollente a quella scritta, non coglie la ratio decidendi espressa dalla Corte di appello ed è, sotto questo profilo, inammissibile.
2.3.5. Afferma la Corte di appello, dopo aver ricordato l’art.11, comma 3, cit. che «il consenso, che non si limita ad una formalità, deve consentire di identificare i limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione» con un evidente richiamo a quanto stabilito in tema di informazione dall’art.10, comma 1, lett. a) e conclude che nel caso di specie il consenso «da esprimersi nelle forme ora dette, è pacificamente mancato» (fol. 5 della sent. imp.).
2.3.6. É evidente dallo sviluppo argomentativo compiuto dalla Corte di appello, mediante il puntuale richiamo normativo, che, laddove parla di forme nelle quali il consenso deve esprimersi si riferisce, oltre che alla forma scritta richiesta per il trattamento dei dati sensibili, al complesso procedimento attraverso il quale si deve formare ed esprimere il “consenso informato” e ne ha escluso la ricorrenza nel caso si specie. Né tale conclusione è revocabile in dubbio dal peregrino assunto della ricorrente che, invertendo gli obblighi informativi, in buona sostanza assume che il C avrebbe capito tutto da solo e lo avrebbe anche provato con il suo contegno.
3.1. Il secondo motivo è conseguentemente inammissibile.
3.2. Invero spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (Cass. n. 10330 del 01/07/2003; n. 25608 del 14/11/2013).
3.3. La Corte di appello si è attenuta a questi principi ed ha motivato adeguatamente in merito alle circostanze ritenute rilevanti alla luce della normativa applicata per accertare la ricorrenza di un consenso conforme alla previsione normativa applicabile, rispetto alla quale la condotta del C- anche ove se ne volesse accreditare l’interpretazione sollecitata dalla ricorrente – non risulta decisiva posto che il contegno di quest’ultimo non poteva assorbire o escludere l’obbligo di informazione gravante sugli autori del trattamento, in mancanza del quale il consenso non poteva dirsi validamente espresso.
4.1. Il quarto motivo è infondato.
4.2. Invero, la decisione risulta conforme al condiviso principio già espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di lesione dell’interesse al rispetto dei propri dati personali, deve essere riconosciuto il danno consistente nella sofferenza morale patita da un soggetto in seguito alla diffusione senza consenso, nel corso di una trasmissione televisiva, del proprio nominativo, della propria immagine e di dichiarazioni rese in un contesto indotto dalla presenza di un soggetto provocatore, in un contesto totalmente estraneo a quello strettamente personale e professionale (Cass. 13/02/2018, n. 3426). 4.3. Nel caso la Corte territoriale ha riscontrato il danno, ravvisando il pregiudizio subito dal C al suo rapporto sentimentale e sul luogo di lavoro, essendo stato oggetto di scherno da parte di colleghi e superiori per le dichiarazioni rese nelle circostanze oggetto della videoripresa.
5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Si dà atto, – ai sensi 13, comma 1 quater del d.P.R. del 30.05.2002 n.115, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M. –

Rigetta il ricorso; – Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in C. 2.500,00=, comprensive di esborsi, oltre spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge; –

domanda per il riconoscimento dell'indennizzo in relazione alla malattia professionale. ricorso inammissibile

01/02/2017 n. 2683 - sez VI

FattoDiritto

La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda di G.Y. volta al riconoscimento dell’indennizzo in relazione alla malattia di natura professionale accertata dall’Istituto.
La Corte territoriale ha escluso che la sentenza fosse nulla evidenziando che la motivazione della decisione era integrata per relationem alla consulenza disposta in primo grado, conformemente a quanto disposto dall’art. 118 disp. att. c.p.c. nel testo novellato dalla legge n. 69 del 2009 attraverso una succinta esposizione dei fatti rilevanti e delle ragioni giuridiche della decisione. Inoltre sottolinea che con la nota integrativa all’elaborato peritale si è tenuto conto dei rilievi mossi dal ctp.
Per la cassazione della sentenza ricorre G.Y. che articola due motivi con i quali denuncia l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia e la violazione ed errata applicazione degli artt. 111 comma 2 Cost, 6 e 47 CLDU, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c..
L’Inail si è difeso con controricorso.
Tanto premesso il ricorso è inammissibile sotto vari profili.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile sia perché propone censure che mirano a sollecitare un nuovo esame delle emergenze dell’istruttoria svolta, sia, ed ancor prima, perché non riportano il contenuto delle note aggiuntive redatte dal consulente che la Corte ha accertato che avevano dato una compiuta e convincente risposta alle osservazioni critiche formulate dal consulente di parte all’elaborato peritale.
Va poi rammentato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In cassazione è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, cosicché tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Il secondo motivo, con il quale ci si duole nella sostanza del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto adeguata la motivazione per relationem della sentenza di primo grado, è carente nella specificazione del contenuto della sentenza che si assume essere stata erroneamente ritenuta sufficientemente motivata.
In nessuna parte del ricorso, infatti è riportato il contenuto della sentenza di primo grado che si assume essere totalmente inesistente.
In conclusione per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 qnater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’alt. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in e 2500,00 per compensi professionali, £ 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie. Accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 qnater del d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
Così deciso in Roma il 1 dicembre 2016

reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro

31/01/2017 n. 2498 - sez Lavoro

Svolgimento del processo

1.— La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 29 ottobre 2013, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo a R M in data 12 ottobre 2010 da D I, titolare di una farmacia, condannando quest’ultimo alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con le pronunce conseguenziali previste dall’art. 18 St. lav.. La Corte territoriale ha ritenuto che nella lettera di licenziamento non fossero state sufficientemente specificate le ragioni del licenziamento e che alla successiva missiva del 18 ottobre 2010, con cui il lavoratore aveva chiesto “spiegazioni in merito”, l’Imbesi aveva replicato il 25 ottobre 2010 senza alcun riferimento “ai motivi concreti e oggettivi” che lo avevano indotto a licenziare il M, violando così l’art. 2, co. 2, della I. n. 604 del 1966. La Corte ha inoltre ritenuto che non vi fosse la prova che il titolare della farmacia avesse un numero di dipendenti uguale o inferiore a quindici al momento del licenziamento in controversia.
2.— Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D I con cinque motivi, illustrati da memoria. Non ha svolto attività difensiva R M. Motivi della decisione
3.— Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della I. n. 604 del 1966 nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che il M, con la lettera di impugnativa del licenziamento del 18.10.2010, avesse richiesto le motivazioni del licenziamento. Si deduce, in ogni caso, che i motivi del licenziamento già indicati nella lettera di recesso del 12.10.2010 escludevano l’obbligo datoriale di doverli specificare nuovamente nella seconda comunicazione dei 25.10.2010. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2, co. 2, della 1. n. 604/66, in relazione agli artt. 1363, 1366, 1375 e 1175 c.c. perché il contenuto dei motivi di licenziamento era evincibile dalla lettura congiunta delle due comunicazioni ai fini della complessiva valutazione di specificità. Le censure, che possono esaminarsi congiuntamente perché relative al medesimo aspetto della sentenza impugnata, non possono trovare accoglimento. Nonostante la denuncia formale di violazione di plurime norme di diritto, nella sostanza si contesta l’interpretazione offerta dalla Corte territoriale in ordine al contenuto degli atti richiamati in punto di specificità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento. Evidentemente si tratta di un apprezzamento di fatto, congruamente espresso dalla Corte territoriale, che non è meritevole delle censure che vengono mosse in quanto si travalicherebbero i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. n. 8054 del 2014.
4.— Con il terzo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e violazione o falsa applicazione dell’art. 18 della I. n. 300 del 1970 per avere la Corte territoriale omesso di valutare, ai fini dell’insussistenza del requisito dimensionale, l’allegato Libro Unico del Lavoro dal quale risultava, in base alla quota oraria di ciascun dipendente part time, che l’organico aziendale era di 13,47 unità e non di 17. Si censura altresì la valutazione di inattendibilità dei testi escussi formulata dalla Corte di Appello. Con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per avere collegato alla mancata produzione del libro matricola il mancato assolvimento dell’onere della prova sul requisito dimensionale, trascurando di considerare che, con l’art. 39 del d.l. n. 112 del 2008, conv. in I. n. 133 del 2008, è stato abolito il libro matricola e registro d’impresa. Anche tali censure, congiuntamente esaminabili per reciproca connessione, in concreto si dolgono dell’accertamento della sussistenza del requisito dimensionale effettuato dalla Corte di Appello, incontrando la medesima preclusione di cui ai motivi che precedono imposta dalla nuova formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, che inibisce a questa Corte ogni riesame della quaestio facti. Quanto all’abolizione del libro matricola è sufficiente evidenziare che il dato non ha alcun valore decisivo nella motivazione della sentenza impugnata atteso che la Corte romana ha tratto il convincimento che l’Imbesi valicasse la soglia del requisito dimensionale ai fini dell’applicabilità della tutela reale sulla base di una pluralità di circostanze e non solo per la mancata produzione del libro matricola.
5.— Con il quinto motivo si lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio “vale a dire la deduzione di aliunde perceptum formulata dal dott. I”. Si deduce che la sentenza impugnata sarebbe “incorsa in netto vizio di motivazione non avendo in alcun modo esaminato l’eccezione e l’allegazione formulata dal ricorrente nella memoria di costituzione in giudizio”. La doglianza è infondata. La giurisprudenza di questa Corte ritiene che l’eccezione con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte: pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. SS.UU. n. 1099 del 1998). Tuttavia è il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore ad essere onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. n. 9616 del 2015; Cass. n. 23226 del 2010). Inoltre è stato anche precisato che, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato, è necessario che risulti la prova non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (Cass. n. 21919 del 2010; Cass. n. 6668 del 2004).R.G. n. 11096/2014 Nel caso di specie la deduzione della difesa dell’I secondo cui “il dott. M, dal mese di febbraio 2011 ha lavorato come farmacista presso altra farmacia di Roma, nonché effettuando varie sostituzioni presso altre farmacie della provincia di Roma” è talmente generica, anche circa il quantum di quello che sarebbe stato diversamente percepito, da risultare inadeguata allo scopo e priva della necessaria decisività.
6.— Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Nulla per le spese di giudizio in difetto di attività difensiva dell’intimato. Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie proposto in data 24 aprile 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

rendita da infortunio e termine triennale di prescrizione

31/01/2017 n. 2380 - sez VI

FattoDiritto

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 14 dicembre 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c. ed il cui contenuto è di seguito riportato con alcune correzioni di forma.
“Il Tribunale di Patti, accogliendo la domanda proposta da M.S. nei confronti dell’lNAIL, condannava l’istituto alla costituzione in favore del ricorrente della rendita da infortunio nella misura del 16% in conseguenza dell’infortunio sul lavoro occorsogli in data 11 maggio 2001, oltre accessori.
Tale decisione, su gravame dell’INAIL, veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Messina che, con sentenza del 24 dicembre 2013, condannava l’istituto al pagamento della rendita nella misura determinata dal primo giudice con decorrenza dalla cessazione della inabilità temporanea assoluta detraendo quanto erogato per lo stesso infortunio a titolo di indennizzo, oltre interessi sino al soddisfo.
La Corte territoriale, per quello che ancora rileva in questa sede, rigettava l’eccezione di prescrizione, già respinta dal tribunale e riproposta dall’lNAIL con il primo motivo di appello.
Per la cassazione di tale decisione l’INAIL propone ricorso affidato ad un unico motivo.
Il M.S. è rimasto intimato.
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 111 e 112, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si assume che la corretta interpretazione dei citati articoli avrebbe imposto di far decorrere il termine triennale di prescrizione dalla data di scadenza del periodo di sospensione, che non può eccedere i 150 giorni decorrenti dall’avvio del procedimento amministrativo, con la conseguente declaratoria della prescrizione del diritto avverso per essere stato depositato il ricorso dopo la scadenza del termine triennale come sopra determinato.
Il motivo è fondato.
Ed infatti, secondo il prevalente orientamento di questa Corte “La sospensione della prescrizione triennale dell’azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 111, comma 2, opera limitatamente al decorso dei 150 giorni previsti per la liquidazione amministrativa delle indennità dal terzo comma della stessa disposizione: la mancata pronuncia definitiva dell’lNAIL entro il suddetto termine configura una ipotesi di silenzio significativo della reiezione dell’istanza dell’assicurato e comporta, quindi, l’esaurimento del procedimento amministrativo e, con esso, la cessazione della sospensione della prescrizione” (da ultimo, con ampia motivazione cui si rimanda, vedi Cass. n. 211 del 12/01/2015 che illustra le ragioni, del tutto condivisibili, per le quali tale indirizzo è da preferire a quello minoritario secondo cui il termine di prescrizione delle azioni per conseguire le prestazioni dell’Inail è sospeso durante la pendenza del procedimento amministrativo, anche ove questo non si concluda nel termine di 150 giorni previsto dalla legge ).
Orbene, nel caso in esame è stato accertato che l’infortunio è dell’ 11 maggio 2001 e che il ricorso in opposizione, alla visita di accertamento dei postumi del 7 novembre 2002, è stato proposto dall’infortunato il 18 dicembre 2002 sicché il termine triennale di prescrizione ha cominciato a decorrere dal 18 maggio 2003 (ovvero dal 150° giorno successivo all’inizio del procedimento amministrativo). Pertanto, alla data del ricorso giudiziario (depositato il 30 luglio 2007), il termine triennale di prescrizione era ormai decorso. Né poteva assumere alcuna rilevanza ai fini interruttivi del detto termine l’atto con il quale l’istituto aveva comunicato, in data 22 gennaio 2007, la liquidazione dell’indennizzo in conto capitale nei limiti dell’11% di danno biologico perchè intervenuto dopo il decorso del termine triennale ed avendo detto atto solo valenza di riconoscimento del diritto nei limiti determinati dall’istituto.
Per quanto sin qui esposto si propone l’accoglimento del ricorso, la cassazione dell’impugnata sentenza con decisione nel merito — ex art. 384, co.2°, c.p.c. non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto — di rigetto della originaria domanda, il tutto con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5..”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
Il Collegio condivide il contenuto della sopra riportata relazione e pertanto, accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e decide nel merito — ex art. 384, co.2, c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto — rigettando l’originaria domanda.
Le spese relative ai gradi di merito, avuto riguardo al diverso esito degli stessi, vanno compensate tra le parti; quelle relative al presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del M.S. e vengono liquidate come da dispositivo in favore dell’INAIL.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda; compensa le spese relative ai gradi di merito e condanna M.S. alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2.500,00 per compensi professionali , otre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.