servizi sanitari - contratti di appalto di cui all’allegato ib della direttiva 92/50/cee - questione interpretativa pregiudiziale - rinvio alla corte di giustizia dell’unione europea.

31/01/2017 n. 2482 - Cassazione Civile - Prima

ha rimesso alla Corte di giustizia della UE la questione interpretativa della direttiva n. 92/50/CEE con riferimento all’aggiudicazione dei contratti di appalto dei servizi sanitari elencati nell’allegato IB, chiedendo: a) se tali contratti restano assoggettati ai principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, parità di trattamento e divieto di discriminazione di cui agli artt. 43, 49 e 86 del Trattato UE; b) in caso affermativo, se l’art. 27 della direttiva, che prevede – in caso di procedura negoziata – un numero di candidati ammessi a negoziare non inferiori a tre, si applichi anche ai contratti di cui all’allegato IB; c) se tale disposizione osti all’applicazione di una normativa interna che – per gli appalti pubblici aventi ad oggetto i servizi di cui all’allegato IB stipulati anteriormente alla direttiva n. 2004/18/CE – non assicuri, in caso di procedura negoziata, l’apertura alla concorrenza.

rapporto dirigenziale con struttura ssn

31/01/2017 n. 2511 - Sezione lavoro

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Messina, con la sentenza n. 3655 del 2007, rigettava le domande proposte da B.G., con ricorso depositato il 4 aprile 2006, diretto ad ottenere previa disapplicazione della Det. sindacale n. 310 del 30 giugno 2005 e degli atti e verbali della Commissione di esperti, l’annullamento della Delib. 26 gennaio 2006, n. 50 con cui il direttore generale della Azienda ospedaliera “Piemonte” di Messina aveva conferito l’incarico di direttore di struttura di patologia clinica al dott. F.G. (indicato per lapsus calami quale F. nella epigrafe della sentenza di appello), e la dichiarazione del proprio diritto ad ottenere l’incarico dirigenziale, o in subordine la condanna dell’Azienda a risarcirgli il danno conseguente alla perdita di chances.

2. Il Tribunale rigettava la domanda.

3. La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di appello ritenendo corretto l’operato della Commissione, avendo la stessa tenuto conto dei requisiti specifici per l’accesso all’incarico di direzione complessa e tra essi del “curriculum” ai sensi del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8 e non rilevando, in ragione della disciplina normativa, che il Falliti all’atto del conferimento dell’incarico aveva dato le dimissioni e non apparteneva più alla dirigenza del SSN.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre nei confronti della Azienda ospedaliera “Piemonte” di Messina e di F.G., B.G., prospettando due motivi di ricorso.

5. Sia l’Azienda ospedaliera che il F. resistono con controricorso.

6. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto: D.P.R. n. 484 del 1997, artt. 3, 5, 6, 8 e art. 15, comma 3; art. 97 Cost.; artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

2. Il ricorrente premette che il conferimento degli incarichi nell’ambito della dirigenza, settore sanità, trova la principale fonte di regolamentazione nel D.Lgs. n. 502 del 1992, come modificato nel tempo, pervenendosi all’attuale disciplina secondo la quale l’attribuzione dell’incarico di direzione di struttura complessa è effettuata dal direttore generale, previa pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, sulla base di una rosa di candidati idonei selezionata da una apposita Commissione. Quest’ultima deve procedere all’accertamento dell’idoneità degli aspiranti sulla base di un colloquio e della valutazione del curriculum professionale, i cui contenuti sono indicati nel D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8, (Regolamento recante la determinazione dei requisiti per l’accesso alla direzione sanitaria aziendale e dei requisiti e dei criteri per l’accesso al secondo livello dirigenziale per il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale).
Tale disposizione, in particolare, al comma 3, stabilisce: “I contenuti del curriculum professionale, valutati ai fini del comma 1, concernono le attività professionali, di studio, direzionali-organizzative, con riferimento”, tra l’altro “c) alla tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate dal candidato”.
La medesima disposizione, al quinto comma, stabilisce: “I contenuti del curriculum, esclusi quelli di cui al comma 3, lett. c), e le pubblicazioni, possono essere autocertificati dal candidato ai sensi della L. 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni”.
Il medesimo D.P.R. n. 484 del 1997, art. 5, comma 1, lett. c), stabilisce che il “curriculum ai sensi dell’art. 8 in cui sia documentata una specifica attività professionale ed adeguata esperienza ai sensi dell’art. 6, costituisce uno dei requisiti” per l’accesso all’incarico di direttore di struttura complessa.

3. Tanto premesso, il ricorrente rileva che, erroneamente, il giudice di merito non si sarebbe avveduto della violazione della suddetta disciplina:
Esso ricorrente entro i termini di presentazione della domanda era stato il solo ad avere cura di documentare, a mezzo di apposita certificazione rilasciata dalla propria Azienda, la “tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate”.
La Commissione, dopo aver richiesto a ciascun candidato la integrazione del curriculum ai fini di una più corretta valutazione della posizione di ciascuno, aveva poi deciso di non acquisire ulteriori documenti e stabiliva i criteri per procedere all’esame dei curricula omettendo di considerare “la tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate dai candidati”.
La Corte d’Appello, disattendendo le doglianze del ricorrente, riteneva corretto l’operato della Commissione, escludendo che la certificazione fosse indispensabile ai fini della conformità del curriculum e della valutazione dei candidati.
Erroneamente, la Corte d’Appello non riteneva viziante tale omissione, assumendo inoltre che la disciplina transitoria di cui all’art. 15, comma 3 suddetto D.P.R..

4. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

5. Ha rilievo assorbente il carattere non concorsuale della procedura secondo i principi affermati da questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 25042 del 2005, nel dirimere questione di giurisdizione: appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione della controversia concernente il provvedimento di conferimento dell’incarico di dirigente di secondo livello del ruolo sanitario D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 15 dovendosi escludere che la procedura per il conferimento di detto incarico abbia natura di procedura concorsuale per il solo fatto che ad essa sono ammessi anche soggetti estranei al SSN, e soggetti che, seppur medici del servizio sanitario, sono legati comunque con rapporto di lavoro ad enti diversi rispetto a quello che indice la procedura. Nella disciplina per il conferimento dell’incarico di dirigente medico di secondo livello non è presente alcun elemento idoneo a ricondurre la stessa ad una procedura concorsuale, ancorchè atipica: la commissione si limita – dopo le modifiche apportate al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 dal D.Lgs. n. 517 del 1993 – alla verifica dei requisiti di idoneità dei candidati alla copertura dell’incarico, in esito ad un colloquio ed alla valutazione dei “curricula”, senza attribuire punteggi o formare una graduatoria, semplicemente predisponendo un elenco di candidati, tutti idonei perchè in possesso dei requisiti di professionalità previsti dalla legge e delle capacità manageriali richieste in relazione alla natura dell’incarico da conferire; l’elenco viene sottoposto al direttore generale il quale, nell’ambito dei nominativi indicati dalla commissione, conferisce l’incarico sulla base di una scelta di carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua responsabilità manageriale (D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3, commi 1 e 4, e successive modifiche).
Nello stesso senso Cass., S.U. n. 8950 del 2007 (cfr. Cass., S.U. 5920 del 2008, n. 21060 del 2011): la procedura di selezione avviata da un’Azienda ospedaliera per il conferimento dell’incarico di dirigente di secondo grado del ruolo sanitario – prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15-ter, commi 2 e 3, – non ha carattere concorsuale, in quanto si articola secondo uno schema che prevede non lo svolgimento di prove selettive con formazione di graduatoria finale ed individuazione del candidato vincitore, ma la scelta di carattere essenzialmente fiduciario di un professionista ad opera del direttore generale dell’Azienda unità sanitaria locale nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei da un’apposita commissione per requisiti di professionalità e capacità manageriali.
Con la recente Cass, S.U., n. 9281 del 2016 si è ribadito che la selezione prevista dall’art. 15-ter, introdotto nel D.Lgs. n. 502 del 1992 dal D.Lgs. n. 229 del 1999, art. 13, non integra un concorso in senso tecnico, anche perchè articolata secondo uno schema destinato a concludersi con una scelta essenzialmente fiduciaria operata dal direttore generale.

6. il D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8 della cui violazione in particolare il ricorrente si duole, non indica i requisiti minimi (e cioè le condizioni soggettive ed oggettive minime per poter partecipare alla selezione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15, comma 3, e successive modificazioni), ma i criteri sul colloquio ed il curriculum professionale. Detti criteri, ai sensi dell’art. 3 cit. D.P.R, consistono in “indicazioni concernenti il colloquio ed i contenuti valutabili del curriculum professionale ai fini della predisposizione dell’elenco dei candidati ritenuti idonei da parte della Commissione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15, comma 3, e successive modificazioni”.
Ciò, tenuto conto delle caratteristiche della procedura, come sopra ricordata in ragione dell’insegnamento delle Sezioni Unite, pone in evidenza come l’art. 8, non si traduce in un obbligatoria modalità di redazione del curriculum per i candidati, tra i quali non viene effettuata una comparazione, ma rispetto ai quali viene espresso un giudizio di idoneità, ma integra una elencazione degli elementi che, indicati nel curriculum, costituiscono oggetto della valutazione della Commissione, senza stabilire, peraltro, una priorità dell’uno rispetto all’altro.
I candidati sanno quali sono gli elementi che possono concorrere ad integrare utilmente il curriculum, in quanto possono costituire oggetto di valutazione da parte della Commissione nei sensi sopra indicati.
Diversamente, devono sussistere, e la Commissione deve verificarne la sussistenza, i requisiti minimi di cui agli artt. 3 e 5 medesimo D.P.R., tra i quali “curriculum ai sensi dell’art. 8 in cui sia documentata una specifica attività professionale ed adeguata esperienza ai sensi dell’art. 6”.

7. La Corte d’Appello correttamente, quindi, ha affermato che l’operato della Commissione era esente va vizi in quanto la stessa aveva tenuto conto dei requisiti specifici (D.P.R. n. 484 del 1997, artt. 3 e 5) e tra essi del “curriculum ai sensi dell’art. 8 sopra citato”, e che nel curriculum, la cui presentazione sin dall’inizio da parte del F. non è contestata dal ricorrente (che deduce che dopo che la Commissione aveva chiesto integrazione il controricorrente aveva presentato un nuovo curriculum, v. pag. 10 del ricorso, e rileva, in modo generico e non circostanziato, atteso che non espone quali sarebbero stati gli elementi di novità ai fini della rilevanza della doglianza, che la Corte d’Appello si sarebbe basata su quest’ultimo, p. 21 del ricorso), era documentata una specifica attività professionale e l’adeguata esperienza, determinata pur senza avvalersi delle specificazioni casistiche dei decreti ministeriali, in quanto gli stessi non erano ancora stati adottati (art. 15, comma 3, in relazione al D.P.R. n. 484 del 1997, art. 6).

8. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto: art. 97 Cost., D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 15, 15-bis, 15-ter, 15-terdecies; artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.; del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 1, comma 1 e art. 10, commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Assume il ricorrente che il F., al tempo in cui sosteneva il colloquio, ed era dichiarato idoneo, non era più dirigente medico del SSN e non avrebbe quindi potuto nè essere dichiarato idoneo, nè, conseguentemente, ottenere l’incarico.
Erroneamente, in ragione della giurisprudenza di legittimità e della disciplina di settore, la Corte d’Appello ha ritenuto che alla selezione sarebbero stati ammessi anche soggetti estranei al SSN, e che il carattere discrezionale della nomina operata nell’ambito dei poteri propri del datore di lavoro privato escludevano la possibilità di disapplicazione della nomina, mentre la mancanza di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo escludeva la configurabilità di un interesse tutelabile con il risarcimento del danno.
Espone il ricorrente che il conferimento dell’incarico a soggetti esterni, trattandosi nella specie di procedura non concorsuale, determinerebbe l’accesso ai ruoli della dirigenza, con inquadramento nei ruoli, senza concorso.
Il ricorrente prospetta quindi che una diversa interpretazione renderebbe sospette di illegittimità costituzionale le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15, comma 7, e art. 15-ter, comma 2.

9. Il motivo va rigettato. La previsione del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 1, comma 1 secondo cui “l’incarico di direzione sanitaria aziendale è riservato ai medici di qualifica dirigenziale che abbiano svolto per almeno cinque anni attività di direzione tecnico-sanitaria in enti o strutture sanitarie, pubbliche o private, di media o grande dimensione e che abbiano conseguito l’attestato di formazione manageriale di cui all’art. 7 previsto per l’area di sanità pubblica”, non richiede la persistenza del rapporto di lavoro dirigenziale al momento dell’incarico, ma l’aver ricoperto tale qualifica per un tempo significativo.
Pertanto non sussiste il vizio denunciato dal ricorrente e quanto affermato da questa Corte a Sezioni Unite con la citata sentenza n. 25042 del 2005, e cioè che la procedura non ha carattere concorsuale e che alla procedura sono ammessi anche soggetti estranei al S.S.N., e soggetti che, seppur medici del servizio sanitario, sono legati comunque con rapporto di lavoro ad enti diversi rispetto a quello che indice la procedura, non fa superare il vaglio di non manifesta infondatezza alla questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente.
Correttamente in ragione del rigetto delle censure relative a vizi della procedura la Corte d’Appello ha rigettato la domanda risarcitoria.

10. Il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida per ciascun controricorrente in Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 per cento, oltre accessori come per legge.

università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2214 - ordinanza sez. VI

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 1031/2013, depositata in data 12 aprile 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di P.A. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.

P.A. resiste con controricorso.

Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.

Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.

Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.

Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).

I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.

In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.

La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2159 - ordinanza sez. VI

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 4098/2013, depositata in data 17 dicembre 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto dei ricorrenti, appartenenti al personale universitario non medico ed inquadrati nella ex 7^ qualifica funzionale in qualità di collaboratore tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente qualifica funzionale 9^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 12908/2013 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto delle ricorrenti all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.

A.N., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A., A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., L.P., L.G., G.N., D.B.M., C.A., resistono con controricorso.

Pe.Ro. è rimasto solo intimato.

Con il primo motivo l’Università denuncia violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, della L. n. 200 del 1974, art. 1, del D.I. 9 novembre 1982, D.M. 31 luglio 1997, art. 6, all. D, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla mancata allegazione di parte istante dell’effettiva parità di mansioni e funzioni quale presupposto indefettibile dell’invocata parità retributiva, anche con riguardo al disposto di cui all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 12908/2013 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provata per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9/11/1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.

Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 53 del c.c.n.l. Comparto sanità 1994/1997, dell’art. 51 c.c.n.l. Computo sanità 1998/2001, rilevando che tali disposizione pattizie avallano la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.

I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Nella specie, i dipendenti hanno chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 Novembre 1982, la figura del collaboratore tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e socio-sanitaria della 7^ qualifica funzionalè è equiparata a quella di assistente tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 9^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986, che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dai dipendenti ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4); “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere detetininata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.

Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).

I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.

In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.

La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento proprio ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 7^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario VII livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

personale universitario non medico- indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2216 - sez VI

l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario 7^ livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).
———————

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:
“Con sentenza n. 2717/2013, depositata in data 13 giugno 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di xX nei confronti di L.F. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.
L.F. resiste con controricorso.
Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.
Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.
Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).
Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).
Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.
Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).
I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.
In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.
La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).
Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.
2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario 7^ livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).
Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.
6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

assicurazione stradale- sinistro stradale- risarcimento danni

27/01/2017 n. 2175 - ordinanza sez. VI

RITENUTO IN FATTO

che il consigliere relatore ha depositato in cancelleria la seguente relazione ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.: ” M.A. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Lucca D.S.G. e Fondiaria Assicurazioni s.p.a. quale impresa designata per il Fondo di garanzia chiedendo la condanna in solido al risarcimento del danno da sinistro stradale verificatosi il giorno (OMISSIS). Si costituì la società assicuratrice eccependo fra l’altro l’intervenuta prescrizione. Il Tribunale adito accolse la domanda nei confronti di D.S.G. e la rigettò nei confronti della società in quanto prescritta, considerando tardiva la produzione delle lettere di data 2 febbraio 2005. Avverso detta sentenza propose appello M.A.. Si costituì la società assicuratrice proponendo appello incidentale condizionato. Con sentenza di data 2 luglio 2015 la Corte d’appello di Firenze rigettò l’appello, dichiarando assorbito l’appello incidentale. Ha proposto ricorso per cassazione M.A. sulla base di un motivo.

Il motivo di ricorso è stato proposto per violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Espone il ricorrente che il giudice di appello ha erroneamente applicato il termine di prescrizione biennale, laddove invece, essendo il fatto considerato dalla legge come reato, doveva applicarsi la prescrizione più lunga di cinque anni risultante dal reato di lesioni colpose, dimostrato dalla documentazione medica prodotta e dalla testimonianza del figlio dell’attore.

Il motivo è inammissibile. Secondo la giurisprudenza di questa Corte a partire da Cass. s.u. 18 novembre 2008 n. 27337, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche per difetto di querela, all’azione risarcitoria si applica l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato (art. 2947 c.c., comma 3, prima parte) a condizione che il giudice, in sede civile, accerti “incidenter tantum”, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi. Tale accertamento di fatto manca nella sentenza impugnata e la mancanza di siffatto accertamento non può essere sindacata nella presente sede di legittimità, in mancanza di apposita denuncia di vizio motivazionale.

Non integra motivo di ricorso la replica all’appello incidentale vertente sulla mancanza di copertura assicurativa, appello dichiarato assorbito dalla corte territoriale.”;

che sono seguite le rituali comunicazioni e notificazioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio condivide la proposta di decisione contenuta nella relazione del consigliere relatore;

che pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e che non si deve provvedere sulle spese in mancanza di partecipazione al procedimento della controparte;

che poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 – quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione sesta civile – 3 della Corte suprema di Cassazione, il 13 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2215 - ordinanza sez. VI

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 874/2013, depositata in data 28 marzo 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di A.F. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.

A.F. resiste con controricorso.

Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.

Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.

Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.

Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).

I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.

In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.

La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie eindennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

inadempimento contratto di cessione di dossier farmaceutico -patto esclusiva - risarcimento del danno - come si calcola -

27/01/2017 n. 2125 - Cassazione civile, sez. II

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Con atto di citazione notificato in data 24.05.2007 la Biopharma s.r.l. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, La Germed Pliva Pharma s.p.a. (già Pliva Pharma s.p.a.), poi divenuta Germed Pharma S.p.A., chiedendo, previo accertamento dell’inadempimento della società convenuta in ordine ai contratti indicati in citazione, di dichiarare la risoluzione dei contratti medesimi e, per l’effetto, di condannare la società convenuta al risarcimento dei danni subiti, oltre gli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002, o in subordine legali, dalla data dei singoli inadempimenti al saldo.
In particolare l’attrice esponeva che:
a) in relazione al contratto avente ad oggetto il dossier ed AIC (Autorizzazione Immissione in Commercio) inerenti l’Amoxicillina + Clavulanico, i danni erano da liquidarsi in Euro 1.480.000,00;
b) in relazione al contratto di produzione inerente, l’Amoxicillina + Clavulanico. i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 1.000.000,00, ovvero nella misura pari al quantitativo di prodotto commesso alla D&G s.r.l. dal mese di settembre 2007, per un biennio, moltiplicato per l’importo di Euro 0,50, o nella diversa somma accertata;
c) in relazione al contratto inerente il Ceftriaxone, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 584.039,00 o, in parziale subordine. nella somma di Euro 133.013.00, o nella diversa somma accertata;
d) in relazione al contratto inerente il Ceftrazidime, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 1.289.426,00, o, in parziale subordine, nella somma di Euro 383.634.00. o nella diversa somma accertata:
e) in relazione al contratto inerente l’Amoxicillina, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 51.736,00, o, in parziale subordine, nella somma di Euro 28.908,00, o nella diversa somma accertata;
e in relazione al contratto inerente le Benzilpenicilline, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 584.039,00 o nella diversa somma accertata;
g) per la mancata commessa delle produzioni minori, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 300.000,00 o nella diversa somma accertata;
h) per il danno all’immagine, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 2.000.000,00 o nella diversa somma accertata.
La Germed Pharma S.p.A. si costituiva in giudizio chiedendo:
in via principale. di rigettare le domande di risoluzione dei contratti in discussione relativi ai prodotti Amoxicillina, Ceftriaxone, Ceftazidima e Benzilpennicillina in quanto infondate, nonchè le domande risarcitorie avanzate dalla parte attrice; in via riconvenzionale, con esclusivo riferimento al contratto avente ad oggetto lo cessione del dossier e dell’AIC inerenti l’Amoxicillina + Clavulanico, di dare atto dell’intervenuta risoluzione di diritto del contratto del (OMISSIS) e, per l’effetto, di condannare la società Biopharma alla restituzione della somma di Euro 40.000.00, versata al momento della sottoscrizione del predetto contratto, oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; in subordine, di dichiarare la risoluzione del contratto predetto e, per l’effetto, di condannare la società Biopharma alla restituzione della somma di Euro 40.000,00, versata al momento della sottoscrizione del predetto contratto oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; in via ulteriormente subordinata, con esclusivo riferimento al suddetto contratto, in caso di mancato accoglimento delle domande di risoluzione, di determinare il minor prezzo dovuto nella somma di Euro 150.000,00 oltre I.V.A. e, per l’effetto, dato atto dell’intervenuto pagamento di Euro 40.000,00, di accertare il residuo debito nella limitata somma di Euro 110.000,00, ovvero, di accertare il diverso minor prezzo di cessione e il conseguente residuo debito in capo a Pliva o la condanna della società Biopharma a restituire l’eventuale differenza tra il valore accertato e quanto già versato da essa convenuta.
Nel corso dell’istruttoria acquisita documentazione, espletato l’interrogatorio formale delle parti ed esaminati i testi, l’adito Tribunale decideva la causa con sentenza in data 7.12.2012 che così disponeva: “dichiara la risoluzione del contratto stipulato in data (OMISSIS) tra la Biopharma s.r.l. e la Germed Pharma s.p.a., già Germed Pliva Pharma s.p.a. e già Pliva Pharma s.p.a. per l’inadempimento di quest’ultima società; quale effetto restitutorio del predetto scioglimento, condanna la Biopharma al pagamento alla società convenuta della somma di Euro 40.000,00, oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; rigetta le residue domande avanzate dalla parte attrice e dalla parte convenuta, ritenendo assorbita la domanda avanzata dalla società convenuta in estremo subordine; compensa tra le parti le spese di lite”.
Con citazione notificata in data 5.02.2013 la Biopharma s.r.l. ha proposto appello chiedendo la riforma della impugnata sentenza con accoglimento delle sue domande proposte in 1^ grado, per vedere accertato l’inadempimento della convenuta a tutti i contratti di produzione conclusi inter partes e condanna della stessa parte al pagamento del prezzo di vendita e del risarcimento del danno; vinte le spese dei due gradi del giudizio.
Si è costituita la Germed Pharma S.p.A. che ha chiesto il rigetto dell’impugnazione (ed in subordine perchè venisse accertato, in caso di accoglimento dell’appello, il minor prezzo dovuto per il contratto di cessione dossier e AIC relativi a Amoxicillina + Clavulanico); con il favore delle spese del grado.
La Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 2171 dell’8 aprile 2015, ha accolto l’appello ed in riforma della sentenza gravata, ha dichiarato risolti per inadempimento tutti i contratti stipulati ed indicati in citazione, condannando l’appellata al pagamento della somma di Euro 3.345.881,09, oltre interessi al tasso legale a far data dalla sentenza al saldo, nonchè al rimborso delle spese del doppio grado di giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Germed Pharma S.p.A. sulla base di sei motivi.
Biopharma S.p.A. ha resistito con controricorso.
Tutte le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia ex art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., ovvero per la violazione del principio della domanda da intendersi quale qualificazione della domanda con riferimento alla richiesta di adempimento del contratto di cessione di dossier Amoxicillina – Clavulanico.
Si deduce che con il primo motivo di appello la controparte aveva denunziato l’errore commesso dal Tribunale nell’interpretare la propria domanda relativamente a tale contratto, posto che per un mero refuso, la richiesta di risoluzione, anzichè essere limitata ai soli contratti di produzione, aventi ad oggetto gli altri farmaci di cui all’atto introduttivo del giudizio, era stata estesa anche al contratto di cessione dei dossier, in merito al quale l’effettiva richiesta era invece di condannare la Germed all’adempimento, e cioè al pagamento del corrispettivo pattuito.
Ma a fronte di tale motivo, la sentenza gravata, con una evidente distorsione nella lettura del motivo medesimo, lo ha accolto, finendo con il pronunziarsi su di una domanda diametralmente opposta rispetto a quella che la stessa attrice dichiarava di avere proposto. Infatti, la Corte distrettuale pur dichiarando di reputare fondato il motivo di gravame, il che avrebbe dovuto portarla a delibare sulla domanda di adempimento, ha confermato la correttezza della pronuncia di risoluzione, ritenendo che peraltro l’entità del danno subito da parte della contraente adempiente, ben poteva essere commisurata al corrispettivo che sarebbe stato conseguito ove il contratto avesse avuto regolare esecuzione.
Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per ultrapetizione ovvero extrapetizione, con riferimento alla richiesta di adempimento del contratto di cessione dossier Amoxicillina – Clavulanico.
Infatti, nell’accogliere il primo motivo di appello, la Corte romana avrebbe ulteriormente errato in quanto, sebbene Biopharma avesse richiesto l’adempimento del contratto, nel confermare la risoluzione dello stesso, con la condanna della Germed a titolo risarcitorio per una somma pari al prezzo pattuito, ha attribuito un bene della vita diverso da quello richiesto.
Il terzo motivo denunzia la violazione di legge consistita nell’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1453 c.c..
In effetti, una volta ribadita la risoluzione del contratto di cessione dei dossier, ha condannato la ricorrente al pagamento a titolo risarcitorio di una somma corrispondente al prezzo concordato (ed al netto degli acconti già ricevuti dalla controparte), reputando che fosse stata offerta la prova della corrispondenza del danno patito dalla contraente adempiente al mancato guadagno, non potendosi opporre che il contratto non aveva avuto esecuzione.
Infatti, a detta della Corte distrettuale, poichè emergeva la prova che l’appellante aveva fatto fronte ai propri impegni, l’appellata era tenuta a risarcire il danno ex art. 1223 c.c., considerando nello stesso la perdita subita ed il mancato guadagno, danno che era corrispondente al mancato prezzo versato, che ristorava quindi sia la perdita subita che il mancato guadagno.
Ritiene la ricorrente che il ragionamento non possa essere condiviso, in quanto frutto di una distorta applicazione dei principi in tema di causalità ed in tema di risarcimento del danno contrattuale.
Se la finalità del risarcimento del danno è quella di porre la parte adempiente nelle medesima situazione nella quale si sarebbe venuta a trovare ove la controparte avesse a sua volta adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, la sentenza non ha tenuto conto del fatto che a seguito della risoluzione, il contraente adempiente “recupera” la prestazione che avrebbe dovuto eseguire, sicchè il danno non può consistere nel prezzo che sarebbe stato pagato, quanto nella differenza tra il prezzo ed il valore della prestazione recuperata.
Il quarto motivo denunzia la violazione di legge, con riferimento all’errata applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ed in particolare degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., con la conseguente violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c..
Infatti, la Corte romana dopo avere confermato la risoluzione del contratto di cessione dei dossier e del collegato contratto di fornitura in esclusiva, aveva accolto la domanda risarcitoria anche in relazione a questo secondo contratto.
Ma tale soluzione era frutto di un’erronea interpretazione dell’accordo negoziale, che aveva indotto i giudici di merito a ritenere che la ricorrente si fosse obbligata a far produrre detti medicinali secondo dei quantitativi minimi. In realtà, sostiene Germed, alla luce del tenore letterale delle previsioni contrattuali, l’obbligo di far produrre dei quantitativi minimi di farmaci non era in alcun modo evincibile dai contratti in atti, con la conseguenza che è stato accordato un risarcimento a ristoro di un diritto in realtà non scaturente dal contratto.
Il quinto motivo di ricorso, ripropone le medesime censure circa la corretta interpretazione della volontà delle parti, in merito ai diversi contratti di produzione dei farmaci Ceftriaxone e Ceftazidina, posto che anche in tal caso la conclusione della Corte distrettuale circa l’esistenza di un obbligo a carico della ricorrente di far produrre alla Biopharma dei quantitativi minimi di fatinaci, era contrastata dal tenore letterale dei contratti.
Infine il sesto motivo di ricorso denunzia l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 1453 c.c., relativamente alla vicenda contrattuale concernente la produzione delle benzilpenicilline, nonchè l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 2697 c.c..
Infatti, la Corte di merito ha ritenuto che fosse stata offerta la prova che, allorquando la ricorrente aveva richiesto di ridurre la produzione di tali farmaci, in realtà Biopharma aveva già prodotto tutto l’ordinativo di 90.000 pezzi, sicchè aveva il diritto a percepire, sotto forma di risarcimento del danno, il prezzo che sarebbe stato corrisposto anche per i farmaci non ritirati.
La sentenza in parte qua aveva riconosciuto un danno che in realtà non risultava provato. Inoltre, come anche sostenuto nel terzo motivo di ricorso, una volta prodottasi la risoluzione del contratto, il danno non poteva essere riconosciuto in maniera pari al prezzo pattuito, occorrendo invece tenere conto di quanto l’attrice aveva recuperato in conseguenza della stessa risoluzione. Quindi anche in questo caso il danno doveva essere determinato in base alla differenza di valore tra le due prestazioni dedotte in contratto.
2. Attesa la stretta connessione delle questioni proposte, i primi due motivi di ricorso devono esser congiuntamente esaminati.
Effettivamente, come si ricava dalla lettura dei motivi di appello così come riportati nel ricorso, e come confermato dalla difesa anche della controricorrente, Biopharma, a fronte della pronuncia del Tribunale, che aveva ritenuto estesa la richiesta di risoluzione a tutti i contratti riportati in citazione, e quindi anche a quello del 20 luglio 2004 avente ad oggetto la cessione alla ricorrente del dossier Amoxicillina Clavulanico, sicchè avendo ritenuto sussistere l’inadempimento dell’acquirente, era pervenuta a pronunziare la risoluzione del contratto, però escludendo che potesse liquidarsi il danno nella somma richiesta dalla attrice (e cioè in misura pari al prezzo pattuito), aveva dedotto che in realtà non vi era domanda di risoluzione anche per tale contratto.
Ha, infatti, sostenuto che per un mero refuso, nelle conclusioni della citazione, la richiesta di risoluzione era stata estesa a tutti i contratti, ivi incluso quello qui in esame, relativamente al quale però l’effettivo tenore della domanda era quello di condanna della controparte all’adempimento.
In ogni caso, con il secondo motivo di appello proposto in via logicamente subordinata rispetto al primo, Biopharma deduceva che, anche laddove si fosse ritenuto che la domanda proposta era quella di risoluzione, aveva errato il Tribunale nel non riconoscere il danno nella misura richiesta, anche quale conseguenza dell’intervenuta risoluzione del contratto.
La sentenza gravata, pur avendo in premessa dato atto di quale era l’effettivo tenore del primo motivo di appello, ha però ritenuto fondato lo stesso sia in rito che nel merito.
Ha affermato che quando una parte contrattuale chiede al giudice di accertare i gravi inadempimenti della controparte in ordine a tutti i contratti e chieda la loro risoluzione per fatto e colpa della stessa controparte, con sua condanna al risarcimento del danno, non vi è dubbio che quella parte abbia inteso ottenere una pronuncia che consenta di rivalersi di quanto non ottenuto in via di esatto e puntuale adempimento contrattuale; e se il danno subito viene indicato come corrispondente al mancato incasso del prezzo pattuito in contratto, non si verte in una “situazione/domanda” nuova ed inammissibile ma semplicemente, nella allegazione del danno subito per il fatto dell’altrui inadempimento.
Quindi dopo avere altresì ricordato che la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, ha affermato che correttamente l’appellante aveva chiesto la risoluzione del contratto e la condanna della convenuta a risarcirle i danni cagionati equivalenti al corrispettivo del contratto non adempiuto (che è cosa del tutto diversa dalla domanda di adempimento del contratto che coinvolge tutte le prestazioni previste nel contratto).
Per l’effetto doveva altresì escludersi che fosse stata fatta confusione tra concetto di “danno” e prezzo, posto che ove la parte non inadempiente chieda che, a titolo di danno, le venga riconosciuto il mancato guadagno (il lucro cessante) pari al prezzo pattuito e non versato dalla controparte inadempiente, non pretende il riconoscimento automatico del pagamento di una somma a titolo di corrispettivo in assenza del contratto ma chiede di essere ristorata di un danno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ex artt. 1218 e 1223 c.c..
Quindi dopo avere richiamato gli argomenti del Tribunale, in merito all’accertamento del grave inadempimento della Germed, ha reputato di dover riformare la decisione appellata circa le conseguenze dell’accertato inadempimento della società appellata alle obbligazioni assunte con il contratto di vendita e produzione in data (OMISSIS); conseguenze che, in termini risarcitori, consistono nella perdita dei vantaggi che l’adempimento del contratto avrebbe portato alla società appellante.
Ha infatti ritenuto che secondo la Cassazione da tempo può ritenersi che il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, e deve pertanto escludersi per i mancati guadagni meramente ipotetici, dipendenti da condizioni incerte: giudizio probabilistico, questo, che, in considerazione della particolare pretesa, ben può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito. Per l’effetto poteva ritenersi che il pregiudizio subito dalla appellante consisteva nel mancato accrescimento patrimoniale che sarebbe conseguito all’esatto e completo adempimento delle obbligazioni gravanti sulla appellata (pagamento del corrispettivo della cessione dei due dossier tecnici pari a Euro 1.400.000,00 oltre iva).
Il danno, immediato, subito dalla appellante era quindi costituito dal mancato versamento del prezzo previsto nel contratto quale perdita subita ed al tempo stesso, mancato guadagno dell’intrapresa contrattuale pattuita con la appellata.
Effettivamente la risposta data dalla Corte distrettuale al primo motivo di appello non corrisponde a quelle che erano le richieste dell’appellante, che mirava ad ottenere una condanna all’adempimento del contratto, sicchè non vi sarebbe perfetta corrispondenza tra la richiesta ed il contenuto della sentenza, che invece ha confermato la pronuncia di risoluzione per inadempimento.
Inoltre con riferimento al secondo motivo di appello, con il quale si intendeva contestare, nell’ottica della intervenuta risoluzione del contratto, e nell’ipotesi di rigetto del primo motivo di appello, la correttezza della decisione circa l’impossibilità di poter riconoscere il danno nella misura richiesta dall’attrice, la Corte romana è pervenuta ad una declaratoria di assorbimento.
I motivi sono infondati, posto che, sebbene emerga in maniera evidente l’errore nel quale è incorsa la Corte di merito laddove pur dichiarando di accogliere il primo motivo di appello, lo ha nei fatti rigettato, tuttavia la sostanza della decisione si risolve in un accoglimento del secondo motivo di appello.
La contraddizione palesata dalla dichiarazione di formale accoglimento del primo motivo, a fronte di una decisione che si risolve in un suo rigetto, ma che al contempo vale come accoglimento del secondo motivo di appello, ben può essere sanata mediante la mera correzione della motivazione della sentenza impugnata, e ciò tenuto anche conto del fatto che la parte appellante che a suo tempo aveva contestato la decisione del Tribunale di pronunziare la risoluzione di tutti i contratti dedotti in giudizio, ivi incluso quello relativo alla cessione del dossier Amoxicillina – Clavulanico, non ha inteso contestare oltre la correttezza dell’interpretazione della domanda così come fornita dai giudici di merito, mostrandosi quindi soddisfatta della pronuncia di risoluzione.
In tale prospettiva appare quindi possibile affermare che il reale contenuto della sentenza, quale emerge in maniera evidente dalle conclusioni raggiunte, sia nel senso che il primo motivo di appello sia stato rigettato e che invece il secondo sia stato accolto, e ciò conformemente a quelle che comunque erano le richieste formulate dall’appellante.
Ne discende quindi che i primi due motivi devono essere disattesi.
3. Il terzo motivo merita invece accoglimento.
Il giudice di appello ha infatti riconosciuto il danno derivante dall’inadempimento della ricorrente e che ha portato alla risoluzione del contratto di cessione del dossier, in misura del tutto corrispondente al prezzo non pagato, affermazione questa di per sè non irragionevole, ma si denunzia che in tal modo ha trascurato del tutto l’effetto della risoluzione che consente al creditore adempiente, proprio in ragione del venir meno della causa delle reciproche attribuzioni, di rientrare nella piena titolarità del bene che era oggetto del contratto di cessione.
A tal fine la stessa controricorrente riconosce che effettivamente ha riacquistato la disponibilità giuridica dei dossier ceduti, ma assume che gli stessi oggi non conserverebbero più alcun valore, non solo per la stessa parte, ma anche per eventuali terzi, non essendo più un bene commercialmente appetibile.
Reputa il Collegio che in tal modo la decisione si sia posta in contrasto con i principi che il giudice di legittimità ha reiteratamente affermato in materia.
In tale ottica, si è infatti ribadito che (cfr. Cass. n. 12966/2014) ai sensi dell’art. 1453 c.c., la domanda proposta per la risoluzione di un rapporto contrattuale, in relazione all’inadempimento della controparte, non preclude alla parte non inadempiente il diritto a ottenere il risarcimento dei danni, commisurato, ex art. 1223 c.c., all’incremento patrimoniale netto che avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto, escluso il pregiudizio che lo stesso danneggiato avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza e che peraltro (cfr. Cass. n. 3598/2004), sebbene la domanda proposta per la risoluzione di un rapporto contrattuale, in relazione all’inadempimento della controparte, non precluda alla parte non inadempiente il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni, che va però commisurato, ex art. 1223 c.c., all’incremento patrimoniale netto che avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto. In termini si veda anche Cass. n. 4473/2001 che ha ribadito che in caso di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento del compratore, il danno va commisurato all’incremento patrimoniale netto che il venditore avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto (conf. ex multis Cass. n. 3750/1994 nella quale si precisa che a seguito della pronuncia di risoluzione di una compravendita immobiliare in ragione del mancato pagamento del prezzo da parte del compratore, il venditore adempiente, consegue con la restituzione del bene solo in parte la riparazione del pregiudizio subito).
Una volta posti tali principi, deve ritenersi sussistente la dedotta violazione di legge n alternativa si potrebbe ritenere che vi sia diretta violazione di le quanto ai criteri che devono presiedere alla liquidazione del danno, in quanto dando seguito alla soluzione alla quale è pervenuto il giudice di merito, e sebbene l’effetto della risoluzione abbia determinato il riacquisto e la disponibilità giuridica in capo alla venditrice del dossier oggetto di causa (con la conseguente possibilità di poterne nuovamente disporre), il contraente adempiente non è stato posto in una posizione di sostanziale indifferenza rispetto all’ipotesi di adempimento della prestazione (alla quale mira per equivalente il risarcimento del danno), ma in una condizione di maggior favore, venendo quindi a locupletare dall’altrui inadempimento, ritrovandosi pertanto sia con la prestazione che sarebbe stata adempiuta ove il contratto avesse ricevuto puntuale esecuzione, che con il bene che era oggetto di cessione, e del quale avrebbe perso la titolarità ove il contratto fosse stato adempiuto.
Nè la decisione di merito ha argomentato specificamente in ordine alla ritenuta assenza di valore dei dossier alla data della sua pronuncia, di guisa che la decisione impugnata, lungi dal risolversi, come sostenuto dalla società attrice, in un’erronea valutazione in fatto, si manifesta come una violazione dei criteri di legge che devono presiedere alla valutazione del danno, e che impongono, al fine di accertare il pregiudizio effettivo subito dal contraete adempiente, che lo stesso debba essere valutato al netto di quanto conseguito per effetto dell’inefficacia scaturente dall’effetto risolutorio, anche in punto di prestazioni eseguite in favore della controparte.
La sentenza deve pertanto essere cassata in accoglimento del motivo in esame, dovendo i giudici di merito in sede di rinvio provvedere all’accertamento del danno conformemente ai principi esposti.
4. Il quarto ed il quinto motivo possono essere congiuntamente esaminati attesa la quasi totale identità delle questioni giuridiche che gli stessi sollevano.
La Corte d’Appello, una volta dichiarata la risoluzione del contratto di cessione dei dossier per il farmaco Amoxicillina – Clavulanico, si è occupata anche della richiesta di risoluzione e risarcimento danni del collegato contratto di produzione, ritenendola, in riforma della decisione del Tribunale, fondata.
Infatti le parti avevano concordato, a seguito della cessione, che la Germed avrebbe fatto produrre in esclusiva i farmaci dalla società cedente, prevedendosi in particolare che parte del prezzo della cessione sarebbe stato corrisposto mediante un sovrapprezzo pari ad 0,50 sulla produzione del primo milione di astucci.
Secondo la sentenza gravata la Germed non aveva fatto fronte agli impegni assunti, non ordinando il quantitativo pattuito, avendo anche violato l’obbligo di far produrre i farmaci in oggetto in esclusiva alla controricorrente non avendo altresì rispettato il quantitativo minimo di un milione di astucci sui quali praticare il sovraprezzo al fine di assicurare anche il pagamento di parte del prezzo della cessione.
Analogamente, nell’esaminare la violazione delle prestazioni scaturenti dai contratti di produzione relativi ai farmaci Ceftriaxone e Ceftazidina, la sentenza gravata ha ritenuto che gli stessi prevedessero, diversamente da quanto invece opinato dal Tribunale l’obbligo di ordinare dei quantitativi minimi.
Il Giudice di primo grado, nell’esaminare il contratto di produzione sottoscritto in data 27.6.2003, ove si diceva che la Germed “intende produrre, nei quantitativi minimi in seguito descritti” entrambe le specialità medicinali in oggetto presso la società Biopharma, precisando che i termini e modalità di produzione sarebbero stati fissati in un separato accordo produttivo, ha evidenziato che, in sede di disciplina delle “condizioni di produzione” la ricorrente si impegnava a formalizzare un ordine annuale denominato “forecast” che sarebbe poi stato suddiviso in ordini parziali. Inoltre i contratti prevedevano, altresì, che “nel caso in cui gli ordini di produzione fossero inferiori rispetto a quelli previsti nel forecast annuale…” e, quindi, prevedeva che nel caso fossero minori al minimo annuale indicato dalle parti, “… la Committente si impegna a rimborsare al Produttore il costo dei materiali acquistati in giacenza”.
Secondo la Corte d’Appello, invece tali previsioni andavano correttamente interpretate nel senso che bisognava partire da quelle del contratto di vendita e produzione, e precisamente dall’impegno di cui al punto 1, con il quale la Pliva (oggi Germed) dichiarava che intendeva produrre nei quantitativi minimi in seguito descritti, ambo le specialità medicinali presso BIOPHARMA, per la successiva vendita in Italia. Tale previsione non poteva avere altro significato se non quello di aver fissato – a vantaggio del produttore Biopharma – un minimo annuo garantito, derogabile, in aumento (ma non in diminuzione), sulla base di previsioni (il cd. forecast) di maggior produzione da comunicare al produttore onde consentire di adeguare ed organizzare le sue linee produttive, già programmate per la produzione del “minimo” fissato in contratto.
In nessuna clausola del contratto di produzione, e del successivo disciplinare tecnico, era stata prevista, e pattuita, una derogabilità dei quantitativi minimi a discrezione della committenza, potendosi solo procedere ad aumenti di produzione ove comunicati alla produttrice in base alle previsioni future (il forecast) le quali, una volta comunicate al produttore (90 giorni prima dell’inizio della produzione) e da questo poste in effettiva produzione nelle nuove quantità, avrebbero determinato il diverso meccanismo del rimborso di cui al 1 punto 4.4. del contratto di fornitura (“nel caso in cui gli ordini di produzione fossero inferiori rispetto a quelli previsti nel forecast annuale, la Committente si impegna a rimborsare al Produttore il costo dei materiali acquistati in giacenza”), con il rimborso alla Biopharma dei materiali acquistati per poter procedere alla maggior produzione richiesta con il programma di produzione di cui al punto 3.5. (“la Committente formalizzerà un ordine annuale di produzione compilando l’allegato H. Il forecast annuale sarà suddiviso in ordini parziali emessi dalla Committente 90 giorni prima dell’inizio della produzione come riportato nell’allegato L”). Inoltre tale interpretazione (basata secondo la Corte d’Appello, sulla letterale volontà manifestata dalle parti nel testo contrattuale) trovava riscontro e conferma anche nell’intenzione dei contraenti al momento della stipula, desunta dalla natura stessa dei rapporti di interesse sottesi ai contratti in parola, essendo l’interesse della Biopharma quello di ottenere, dopo la cessione alla Germed dei dossier tecnici e dell’AIC dei due farmaci in esame (rientranti nella categoria dei c.d. farmaci equivalenti), l’esclusiva di produzione di quei fatinaci in un quantitativo tale (il minimo annuo) da poter essere remunerativo dell’investimento fatto per acquisire i diritti di produzione di quei farmaci che, non potendo vendere direttamente sul mercato, doveva produrre per conto di una azienda farmaceutica. A tal fine era necessario prevedere dei minimi garantiti (cioè non derogabili) di prodotto onde impedire al Committente (che avrebbe venduto i farmaci sul mercato) di fissare soglie di prodotto non adeguatamente remunerative sia delle spese che degli investimenti fatti per acquisire i dossier tecnici e la successiva A.I.C..
I motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.
Ed, invero, a fronte di una logica ed argomentata ricostruzione della volontà contrattuale fondata sia sulla necessaria valorizzazione delle espressioni letterali utilizzate al fine di determinare la reale intenzione dei contraenti, sia sulla valenza sistematica delle varie clausole, in attuazione di quanto disposto dall’art. 1363 c.c., la ricorrente, con una censura incentrata sulla sola violazione di legge (e quindi senza dedurre altresì, sia pure nel più limitato spazio che oggi offre la legge, la violazione della diversa previsione di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5) si limita a denunziare in maniera assolutamente generica la violazione delle regole legali di interpretazione del contratto, essendosi a ben vedere limitata solo a riprodurre il testo dei contratti, ma senza individuare in dettaglio quale sia stato l’errore commesso dal giudice di merito ed in che modo vi sia difformità tra l’attività interpretativa compiuta da quest’ultimo ed i parametri imposti dal legislatore.
La doglianza a ben vedere si traduce in una surrettizia richiesta di rivalutazione dei fatti di causa, occorrendo a tal fine richiamare il tradizionale orientamento di questa Corte per il quale l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneut