Il datore di lavoro debba essere a conoscenza soltanto della conferma della prognosi da parte del medico fiscale; e che, dunque, qualsiasi indicazione – anche concernente le visite specialistiche prescritte – dalla quale possa essere desunta la diagnosi, debba ritenersi contrastante con la normativa sulla tutela della privacy.
lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all'immagine ed all'identità personale in conseguenza di una videoripresa
21/06/2018 n. 16358 - sez I
RITENUTO CHE:
La Corte di appello di Roma, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto l’appello principale proposto da RTI SPA (di seguito RTI) e l’appello incidentale proposto da UC ed ha confermato la decisione del primo giudice che – in controversia concernente la richiesta di risarcimento danni proposta da UC per la lesione della reputazione, aggravata dalla violazione della privacy, del diritto all’immagine ed all’identità personale in conseguenza di una videoripresa realizzata dal TM , prodotto dalla società convenuta, e trasmessa senza avere ottenuto il consenso o la liberatoria – aveva accolto la domanda del C, ritenendo che la messa in onda della videoripresa senza il consenso scritto avesse costituito violazione delle leggi sulla tutela dei dati personali ed aveva condannato la convenuta società, ai sensi dell’art.2049 cod. civ., al pagamento di €.20.000,00=, oltre interessi legali, a titolo di risarcimento, e spese. La vicenda aveva riguardato una video ripresa che aveva visto come protagonista inconsapevole il C, avvicinato in una discoteca da una ragazza, complice della produzione televisiva, che lo aveva invitato ad uscire per recarsi all’interno della sua autovettura, dove lo aveva interpellato su comportamenti ed opinioni attinenti alla sfera sessuale ed all’uso dei contraccettivi, nonché circa la sua intenzione di avere rapporti sessuali senza precauzioni. La Corte di appello ha confermato che non risultava acquisito un valido consenso al trattamento dei dati personali ed ha condannato la società al risarcimento dei danni. La RTI ha proposto ricorso per cassazione con quattro mezzi corredati da memoria ex art.378 cod. proc. civ.; UC ha replicato con controricorso. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.
CONSIDERATO CHE:
1.1. Con il primo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge n.675 del 31 dicembre 1996, applicabile ratione temporis, essendo stato trasmesso il servizio in causa nel 2001, antecedentemente all’entrata in vigore del d.lgs. n.196/2003, e dell’art.2712 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.)
– la ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il consenso dovesse essere espresso in forma scritta ad substantiam, laddove – alla stregua della norma – la forma scritta rilevava solo a fini probatori, di guisa che l’assenza non incideva sulla validità dell’atto negoziale, ma spiegava efficacia solo sul piano processuale, limitando la possibilità di prova per testi ai sensi dell’art.2725 cod. civ.; a sostegno invoca la formulazione dell’art.23 del d.lgs. n.196/2003, che ha sostituito l’art.11 cit. Sulla scorta di tale premessa, afferma che nel caso di specie il consenso alla diffusione delle immagini era stato documentato da una videoregistrazione, dalla quale emergeva – a suo dire – la piena consapevolezza del C circa il fatto di essere stato ripreso e la volontà di non opporsi alla diffusione del girato e sostiene l’equipollenza della documentazione del consenso mediante videoregistrazione a quello reso in forma scritta.
1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art.360, primo comma, n.5, cod. proc. civ.) individuato nel contegno tenuto nell’occasione della ripresa dal C e nell’immediatezza con il TM e l’operatore – a dire della ricorrente – incompatibile con la volontà di opporsi alla diffusione dell’immagine.
1.3. Con il terzo motivo – Violazione e falsa applicazione dell’art.96 della legge 22 aprile 1941, n.633 del diritto d’autore (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente sostiene che la Corte di appello ha errato anche perché il consenso all’utilizzazione dell’immagine può essere anche tacito e sostiene che, giacché l’immagine integra un dato personale, la legge sul diritto d’autore si pone come legge speciale relativa a questo specifico dato personale destinata a prevalere sulla legge n.675/1996.
1.4. Con il quarto motivo – Violazione falsa applicazione degli artt.2059, 2727 e 2729 cod. civ. (art.360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.) – la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto provato presuntivamente il danno non patrimoniale lamentato dal C in relazione al pregiudizio rispetto al proprio rapporto sentimentale ed al pregiudizio sul luogo di lavoro, deducendo che questi non aveva provato i danni non patrimoniali lamentati.
2.1. I motivi primo e terzo possono essere trattati congiuntamente perché connessi e vanno respinti. 2.2.1. Innanzi tutto va affermato che la fattispecie in esame non è sussumibile nell’ambito di applicazione dell’art.96 della legge n.633/1941, – come prospettato nel terzo motivo – in quanto la lesione lamentata non involge il diritto all’immagine intesa come “ritratto”, disciplinato da detta norma e rispetto alla quale è ravvisabile anche la possibilità del consenso all’utilizzo anche implicito o tacito (Cass 01/09/2008, n. 21995).
2.2.2. La presente controversia, così come accertata dalla Corte di appello, senza contestazioni sul punto, verte infatti su una videoripresa, che ha caratteristiche complesse in quanto non è circoscritta alla mera riproduzione dell’immagine del C, ma consiste nella registrazione, sia in video che in sonoro, di un incontro artatamente preordinato in specifiche circostanze di tempo e di luogo (all’uscita di una discoteca, in un autovettura munita di sistemi di registrazione) allo scopo di realizzazione uno programma televisivo, e delle risposte rese dall’inconsapevole C alle domande poste da un soggetto provocatore su temi privati e sensibili afferenti anche alla sfera sessuale.
2.2.3. La Corte di appello, nell’esporre la complessiva ratio, ha rimarcato questi aspetti fattuali, puntualizzando che nel caso di specie ricorreva un trattamento di dati personali – statuizione, questa, non censurata – e, quindi ha confermato la decisione di primo grado concernente la necessità del consenso scritto, insistendo sulla necessità del consenso espresso e consapevole anche in merito ai limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione, alla luce della normativa applicata.
2.2.4. Ne consegue che il terzo motivo è inammissibile poiché invoca l’applicazione della disciplina del diritto d’autore, non pertinente alla fattispecie accertata che ricade sotto la tutela di dati personali.
2.3.1. Il primo motivo, concernente la forma del consenso, è infondato.
2.3.2. Secondo la disciplina della tutela dei dati personali, vigente ratione temporis, il trattamento dei dati personali richiede il consenso dell’interessato, che deve essere espresso in forma specifica, previa informativa, deve essere documentato (art. 11 della legge n. 675/96) e deve essere reso per iscritto con riferimento ai dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art.22, legge cit.).
2.3.3. La Corte di appello ha dato corretta applicazione a dette disposizioni e la decisione risulta immune da vizi.
2.3.4. Va peraltro rimarcato che confligge con il dettato normativo la possibilità di ritenere acquisito il consenso in via implicita o per equipollenza, come propugnato dalla ricorrente. La società ha assunto che il consenso sarebbe stato prestato perché – come evincibile dalla registrazione – dal contegno del Csi comprenderebbe che questi aveva riconosciuto i componenti del TM, compreso che era stato oggetto di una ripresa destinata ad essere trasmessa nello show Le Iene ed espresso una valutazione positiva del servizio attraverso le battute formulate. La censura strutturata sulla non necessità ad substantiam della forma scritta del consenso e sull’idoneità della stessa videoregistrazione a fornire prova equipollente a quella scritta, non coglie la ratio decidendi espressa dalla Corte di appello ed è, sotto questo profilo, inammissibile.
2.3.5. Afferma la Corte di appello, dopo aver ricordato l’art.11, comma 3, cit. che «il consenso, che non si limita ad una formalità, deve consentire di identificare i limiti di tempo, luogo, scopo e forma della pubblicazione» con un evidente richiamo a quanto stabilito in tema di informazione dall’art.10, comma 1, lett. a) e conclude che nel caso di specie il consenso «da esprimersi nelle forme ora dette, è pacificamente mancato» (fol. 5 della sent. imp.).
2.3.6. É evidente dallo sviluppo argomentativo compiuto dalla Corte di appello, mediante il puntuale richiamo normativo, che, laddove parla di forme nelle quali il consenso deve esprimersi si riferisce, oltre che alla forma scritta richiesta per il trattamento dei dati sensibili, al complesso procedimento attraverso il quale si deve formare ed esprimere il “consenso informato” e ne ha escluso la ricorrenza nel caso si specie. Né tale conclusione è revocabile in dubbio dal peregrino assunto della ricorrente che, invertendo gli obblighi informativi, in buona sostanza assume che il C avrebbe capito tutto da solo e lo avrebbe anche provato con il suo contegno.
3.1. Il secondo motivo è conseguentemente inammissibile.
3.2. Invero spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (Cass. n. 10330 del 01/07/2003; n. 25608 del 14/11/2013).
3.3. La Corte di appello si è attenuta a questi principi ed ha motivato adeguatamente in merito alle circostanze ritenute rilevanti alla luce della normativa applicata per accertare la ricorrenza di un consenso conforme alla previsione normativa applicabile, rispetto alla quale la condotta del C- anche ove se ne volesse accreditare l’interpretazione sollecitata dalla ricorrente – non risulta decisiva posto che il contegno di quest’ultimo non poteva assorbire o escludere l’obbligo di informazione gravante sugli autori del trattamento, in mancanza del quale il consenso non poteva dirsi validamente espresso.
4.1. Il quarto motivo è infondato.
4.2. Invero, la decisione risulta conforme al condiviso principio già espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di lesione dell’interesse al rispetto dei propri dati personali, deve essere riconosciuto il danno consistente nella sofferenza morale patita da un soggetto in seguito alla diffusione senza consenso, nel corso di una trasmissione televisiva, del proprio nominativo, della propria immagine e di dichiarazioni rese in un contesto indotto dalla presenza di un soggetto provocatore, in un contesto totalmente estraneo a quello strettamente personale e professionale (Cass. 13/02/2018, n. 3426). 4.3. Nel caso la Corte territoriale ha riscontrato il danno, ravvisando il pregiudizio subito dal C al suo rapporto sentimentale e sul luogo di lavoro, essendo stato oggetto di scherno da parte di colleghi e superiori per le dichiarazioni rese nelle circostanze oggetto della videoripresa.
5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Si dà atto, – ai sensi 13, comma 1 quater del d.P.R. del 30.05.2002 n.115, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M. –
Rigetta il ricorso; – Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in C. 2.500,00=, comprensive di esborsi, oltre spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge; –
decesso anticipato - errori diagnostici - errata lettura radiografia - danno da perdita di chance
09/03/2018 n. 5641 - Cassazione civile, sez. III
xxxx convennero dinanzi al Tribunale di Roma la Casa di Cura Villa Mafalda ed i sanitari xxxxxx, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti a causa del decesso anticipato della propria congiunta, D.G.P., determinato da errori diagnostici – consistiti nella non corretta interpretazione di due radiografie toraciche – e dall’inutile intervento chirurgico di toracotomia eseguito presso la predetta clinica.
2. Il giudice di primo grado accolse la domanda nei confronti di T.L., di M.A. e della Casa di Cura, rigettandola nei confronti degli altri convenuti, e rigettò altresì la domanda di manleva proposta dalla struttura sanitaria nei confronti della propria compagnia assicuratrice, la Vittoria s.p.a., dichiarando la srl (OMISSIS) tenuta a manlevare Villa Mafalda dalle conseguenze delle pretese attoree.
2.1. Ritenne il primo giudice che tanto la prima quanto la seconda radiografia, eseguite, rispettivamente, il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), dalla dottoressa M. e dal dott. T., non fossero state correttamente interpretate (dal primo esame era, difatti, visibile una radiopacità comprovante l’esistenza di un adenocarcinoma in fase iniziale, dal secondo risultava evidente la progressione della patologia), così causando un ritardo di due anni e mezzo nella diagnosi di tumore polmonare, mentre una tempestiva e corretta diagnosi avrebbe consentito di evitare l’aggravamento della patologia.
2.2. La responsabilità della terza chiamata (OMISSIS) traeva poi fondamento nell’avere la Casa di Cura messo a disposizione di quest’ultima i locali idonei allo svolgimento dell’attività radiologica, con organizzazione ed impianti suoi propri.
2.3. Nessun addebito poteva invece, a giudizio del Tribunale, essere mosso ai chirurghi V. e D.N., poichè l’intervento da essi eseguito risultava conforme alle linee guida, come da conclusioni del ctu.
2.4. Nessuna responsabilità a titolo di garanzia poteva, infine, essere ascritta alla compagnia assicurativa, volta che il contratto sottoscritto con la Villa Mafalda non copriva la responsabilità professionale dei medici non dipendenti, garantendo, di converso, unicamente le vicende direttamente imputabili all’assicurata.
3. Nel liquidare il danno, il Tribunale ritenne:
– Quanto al danno biologico richiesto iure heraeditatis, che questo andasse risarcito con riferimento alla sola invalidità temporanea (non essendo configurabile una invalidità permanente a seguito del verificarsi dell’evento morte); che tale risarcimento, da riferirsi temporalmente all’intervallo tra la lesione del bene-salute e la morte, avvenuta in via anticipata rispetto al prevedibile esito finale e comunque ricollegabile alla patologia, dovesse prescindere dai criteri tabellari previsti per ogni giorno di invalidità, atteso che la lesione della salute appariva di massima entità ed intensità; che i fattori di personalizzazione dovessero applicarsi in grado assai elevato, tenendo conto della maggiore intensità della sofferenza, con conseguente ricorso ad un criterio equitativo puro; che la peculiarità del danno biologico terminale consisteva nella irreversibile compromissione della capacità recuperatoria o stabilizzatrice della salute, degradando verso la morte; che equo risarcimento a titolo di danno biologico apparisse, pertanto, quello di 75 mila Euro;
– Quanto al danno morale richiesto iure heraeditatis, che questo potesse essere determinato in una misura pari ad una frazione del danno biologico, tenuto conto di tutte le peculiari circostanze del caso concreto, sì che equo risarcimento a tal titolo – inteso il danno quale sofferenza interiore patita dal de cuius – dovesse ritenersi la somma di 24 mila Euro;
– Quanto al danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, che il dolore patito dagli attori per la perdita, rispettivamente, della moglie e della madre convivente fosse stato particolarmente intenso a causa della prematurità del decesso, del tipo di legame affettivo con la congiunta e del venir meno della solidarietà ed unità del nucleo familiare; e che il danno risarcibile, nella specie, dovesse ritenersi la conseguenza dell’aggravamento della patologia, anticipatoria dell’evento letale che inevitabilmente ad essa sarebbe comunque conseguito; a A.R. venne, pertanto, liquidato, in via equitativa, la somma di 120 mila Euro, ed alle figlie F. e M.L. quella di 150 mila Euro ciascuna, così tenuto conto di entrambe le componenti, morale e relazionale, del danno da perdita del rapporto parentale;
– Quanto al danno patrimoniale, che potessero essere liquidate le spese funerarie (4000 Euro) e quelle per cure mediche (20.577 Euro), ma non anche quello da mancata contribuzione alle spese familiari, in asserita carenza della relativa prova.
4. Investita della impugnazione principale proposta da T.L., e di quelle incidentali introdotte dalle altre parti in causa, la Corte di appello di Roma, previa separazione e conseguente interruzione del giudizio nei confronti della fallita (OMISSIS) srl, e previa dichiarazione di inammissibilità della querela di falso proposta dagli A. in relazione alla copia della cartella clinica del (OMISSIS) e della copia del referto istopatologico sottoscritto (OMISSIS) dalla dottoressa F., accolse il primo e il quinto motivo dell’appello principale del T., ritenendo:
4.1. Quanto al primo motivo:
– Che gli A. avessero agito in giudizio attribuendo alla condotta dei medici la responsabilità dell’evento-morte della propria congiunta, sul presupposto che gli inadempimenti ad essi imputabili ne avessero cagionato il decesso – sostenendo, cioè, che, ove la diagnosi fosse stata tempestiva, ella non sarebbe morta di cancro ma sarebbe guarita dalla malattia;
– Che, in tal guisa, il risarcimento del danno così richiesto aveva avuto ad oggetto la perdita del rapporto parentale;
– Che, viceversa, il giudice di primo grado si era pronunciato non sul presupposto che i dedotti inadempimenti avessero causato la morte della donna, bensì che ne avessero ridotto le sue chance di sopravvivenza, essendo stata la morte determinata non dagli inadempimenti, ma dalla malattia, il cui esito avrebbe potuto solo ipoteticamente essere rallentato, ma non neutralizzato da una corretta condotta degli agenti, nè la malattia sconfitta;
– Che tale affermazione si fondava sulle conclusioni raggiunte dal CTU, secondo il quale, se, al momento della prima radiografia, fossero stati effettuati i necessari approfondimenti diagnostici, la paziente avrebbe avuto il 65% di probabilità di sopravvivenza a 5 anni, essendo invece deceduta due anni e mezzo dopo il compimento del primo esame;
– Che le obiezioni critiche sollevate dal consulente di parte – erroneamente il CTU si era limitato a considerare, nelle proprie valutazioni, il solo valore T (e cioè le dimensioni del tumore), ma non anche gli ulteriori parametri N (l’impegno linfonodale) ed M (l’impegno metastatico a distanza) – non potevano essere condivise alla luce della documentazione disponibile e delle cognizioni scientifiche del tempo, atteso che tali diversi parametri erano, in concreto, totalmente sconosciuti;
– Che pertanto, alla luce tanto del principio secondo il quale la prova del nesso causale grava sul creditore, quanto delle risultanze della CTU, appariva evidente l’insussistenza del nesso di causalità tra l’omessa tempestiva diagnosi e la morte (i.e. la mancata guarigione) della paziente;
– Che, conseguentemente, il Tribunale aveva errato nell’accogliere la domanda degli attori come se proposta sotto il profilo della riduzione delle chance di sopravvivenza, avendo essi richiesto invece il risarcimento del danno per avere i sanitari cagionato la morte della propria congiunta, non potendosi ritenere la domanda di risarcimento da perdita di chance ricompresa ipso facto in quella di condanna del convenuto al risarcimento di tutti i danni causati dalla morte della vittima;
– Che, nella specie, gli attori avevano “specificamente chiesto il danno da perdita del rapporto parentale”, il danno, cioè “subito per avere i convenuti cagionato la morte della D.G.” (così, testualmente, la sentenza impugnata al folio 22);
– Che gli stessi appellati, nella comparsa di costituzione avevano precisato di non aver mai chiesto giudizialmente il risarcimento del danno da perdita di chance.
4.2. Quanto al quinto motivo:
– Che gli attori non avessero espressamente richiesto il risarcimento per le spese mediche;
– Che il generico riferimento “a tutti i danni subiti, patrimoniali e non, nessuno escluso” avesse poi trovato specificazione, quanto alle spese sostenute, soltanto con riguardo a quelle funerarie.
4.3. Venne invece dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, il quarto motivo dell’appello principale, con la seguente motivazione:
– All’esito dell’accertamento tecnico, la vita della D.G. si era accorciata per effetto della ritardata diagnosi del tumore;
– Era evidente la diversità tra l’affrontare la malattia sapendo che essa è da addebitarsi a fattori incontrollabili o a stili di vita di cui lo stesso malato è responsabile, ovvero nella consapevolezza che la sua evoluzione è frutto dell’incapacità di leggere una radiografia da parte di un medico.
4.4. Negli stessi limiti venne accolto l’appello incidentale della dottoressa M. – previo rigetto della censura avente ad oggetto la sua pretesa assenza di colpa – e quello della Casa di Cura.
5. Venne invece rigettato il ricorso incidentale degli eredi di D.G.P..
6. Avverso la sentenza della Corte capitolina, M.L.F. e A.R. hanno proposto ricorso (da qualificarsi come principale, essendo le relative notificazioni partite il giorno 19.10.2015 dalle ore 9 in poi) sulla base di 7 motivi di censura.
6.1. La casa di Cura Villa Mafalda propone a sua volta ricorso (da qualificarsi come incidentale, essendo le relative notificazioni partite il giorno 19.10 dalle ore 17.57 in poi).
6.2. Resistono con controricorso M.A., T.L. e V.C.E..
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
IL RICORSO PRINCIPALE ” A.”.
1. L’impugnazione è fondata, nei limiti di cui si dirà.
1.1. Con il primo motivo, si denuncia la nullità/annullabilità/illegittimità della sentenza impugnata per non individuabilità del giudice estensore.
Il motivo è del tutto privo di pregio, volta che, per costante giurisprudenza, la non intelligibilità della firma (comunque apposta) del giudice estensore risulta del tutto irrilevante se, come nella specie, questi sia chiaramente identificabile aliunde (nella specie, alla luce della stessa intestazione della sentenza).
1.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c. avendo la Corte di appello pronunciato in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, naturale corollario del principio della domanda ex art. 99 c.p.c. e art. 2907 c.c., del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., comma 2 e degli artt. 1218 e 1223 c.c..
1.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., avendo la Corte di appello posto a base della decisione una propria interpretazione dei fatti oltre a travisare quanto esposto nelle sentenza del tribunale e nella CTU, considerando ulteriori fatti non corrispondenti al vero ed erroneamente escludendo il nesso di causalità tra l’acclarato inadempimento delle controparti e il decesso di D.G.P., come invece confermato nella CTU espletata e statuito nella sentenza di primo grado, fornendo una valutazione ultra-petita extra-petita del fatto oggetto della domanda.
1.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione dell’art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112,101 e 345 c.p.c., avendo la Corte di appello compiuto una mutatio della domanda, dando nuova qualificazione alla causa petendi a seguito di nuova domanda implicita proposta in sede di appello, senza aver consentito alle parti di poter prendere posizione e così violando il principio del contraddittorio e di difesa.
2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente, devono essere accolti, nei limiti ed alla luce dei principi di cui si dirà.
2.1. Va premesso come il nucleo essenziale delle doglianze mosse alla sentenza impugnata si sostanzi nella contestazione di arbitrarietà e illegittimità della trasformazione, ad opera della Corte di appello, del danno richiesto e liquidato in primo grado (i.e., il danno da perdita del rapporto parentale) in una fattispecie di danno del tutto diversa, costituita “dalla riduzione delle chance di una più lunga sopravvivenza della signora D.G.” (così, testualmente, la pronuncia impugnata al folio 21, ove si evidenzia ancora, altrettanto testualmente, come “il Tribunale abbia correttamente ritenuto che l’inadempimento dei due sanitari non avesse cagionato la morte della paziente, non potendosi affermare che, se l’inadempimento non vi fosse stato, la D.G. non sarebbe morta di cancro al polmone, ma ne sarebbe guarita, secondo la regola del più probabile che non”).
2.2. Va altresì premesso che questo collegio condivide l’orientamento, già espresso in passato da questa Corte, che esclude la identità sostanziale del petitum nel caso in cui, chiesto il risarcimento per un evento di danno da lesione di un valore/interesse costituzionalmente tutelato (la salute; il rapporto parentale), la domanda muti, in corso di giudizio (e in spregio alle preclusioni di legge) – in istanza risarcitoria da perdita di chance (Cass. 13491/2004 e Cass. 21245/2012: in senso opposto, peraltro non condivisibilmente, Cass. 12961/2011), attesa la ontologica diversità del bene tutelato (i.e. dell’oggetto della lesione).
2.3. Non erra, peraltro, il ricorrente nel sostenere che la Corte di appello abbia, non legittimamente, trasformato una richiesta risarcitoria così come (correttamente) accolta in primo grado in una domanda da perdita di chance, dichiarandone conseguentemente la inammissibilità.
2.3.1. Nel’atto di citazione di primo grado, la domanda risarcitoria iure proprio lamentava, quale causa petendi, “la perdita della rispettiva moglie e madre con essi conviventi, da porsi in diretta relazione causale con gli errori diagnostici e terapeutici”.
2.4. Correttamente, in primo grado, il danno risarcibile (e in concreto liquidato) è stato pertanto identificato nella perdita anticipata del rapporto parentale, così (legittimamente) circoscritta la portata dell’originaria domanda (perdita del rapporto parentale tout court) in via d’interpretazione dell’atto di citazione – del tipo quanti minoris – fondata sul medesimo fatto storico e sui medesimi elementi costitutivi, senza che tale modificazione integrasse una inammissibile mutatio libelli (ciò che sarebbe stato, di converso, predicabile nel caso in cui oggetto del risarcimento fosse stato, in concreto, il riconoscimento di una chance perduta da parte del giudice di prime cure, come erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale).
3. Per meglio intendere il contenuto e la portata della decisione di appello (e della erroneità della riforma di quella del Tribunale) appare allora necessario premettere alcune più generali considerazioni sul tema della chance e dei suoi profili risarcitori.
3.1. La prima riflessione che si rende opportuna, con riferimento al caso di specie – e, conseguentemente, al tema che ne costituisce il presupposto decisionale, e cioè la morfologia e l’oggetto della chance – è quella per cui la (supposta) chance perduta ha ad oggetto (una lesione e) un danno non Patrimoniale.
3.2. Tanto è a dirsi poichè il modello teorico di riferimento della perdita di chance (la cui creazione giurisprudenziale è conseguenza della mancanza di una disposizione normativa ad hoc, fatte naturalmente salve le imponenti elaborazioni dottrinali sul tema) è stato e tuttora resta (come si legge nelle numerose pronunce di legittimità e di merito che affrontano la questione) IL DANNO PATRIMONIALE, dibattuta essendone la sola FORMA – e cioè quella di danno emergente piuttosto che di lucro cessante.
3.3. Storicamente, l’evoluzione giurisprudenziale sul tema della chance prerderà le mosse dalla pronuncia n. 6506/1985 della sezione lavoro di questa Corte, che si espresse (così cassando la sentenza di merito) a favore della risarcibilità del danno allegato da uno dei partecipanti ad un concorso al quale, dopo aver brillantemente superato la prova scritta, fu impedita la partecipazione ai successivi orali (sul medesimo piano storico, si rammenta che fu la decisione di una Corte inglese – Chaplin v. Hicks del 1911 – la prima ad affrontare funditus il tema della chance in una vicenda in cui si disse risarcibile il danno lamentato da una ragazza che, preso parte ad un concorso di bellezza, dopo essere stata selezionata tra le dodici finaliste, non ricevette mai l’avviso della celebrazione della finale).
3.4. I principi posti a fondamento della decisione del 1985 furono: a) ogni individuo ha diritto all’integrità del proprio patrimonio; b) la speranza di un guadagno futuro costituisce una entità risarcibile (testualmente, “una ricchezza”); c) la perdita della speranza di conseguire un risultato utile costituisce lesione dell’integrità del patrimonio, e quindi un danno risarcibile; d) il danneggiato ha l’onere di provare che la chance perduta presenti una percentuale di successo probabile, e cioè pari ad almeno il 50%, poichè, “in presenza di una possibilità sfavorevole superiore a quella favorevole, non vi è ragione alcuna che possa giustificare la prevalenza della seconda sulla prima, e quindi la sussistenza di un danno”.
4. La portata di quella decisione traeva sostanza, in realtà, non dalla individuazione di un nuovo “bene” oggetto di tutela, bensì dalla formulazione di un vero e proprio principio causale (al tempo in cui la causalità civile seguiva le orme di quella penale, i.e. la “certezza processuale”, poi divenuta, a seguito della storica sentenza 30328/2002 delle sezioni unite penali, “alto grado di probabilità logica/alto grado di credenza razionale”).
4.1. Il duplice paralogismo che ha accompagnato l’evoluzione storica della teoria della chance perduta si annida, pertanto, nel ricostruirne, da un canto (più o meno consapevolmente), i tratti caratterizzanti in termini di danno patrimoniale, e, dall’altro, nell’avere (inconsapevolmente) sostituito uno degli elementi essenziali della fattispecie dell’illecito – il nesso causale – con il suo oggetto – il bene tutelato oggetto della lesione -, tanto da indurre autorevole dottrina a definirne la relativa teorizzazione in termini di “stampella della zoppia causale”.
4.2. La prima precisazione che si rende necessaria, con riferimento all’odierna fattispecie, è quella secondo cui il modello “patrimonialistico” della chance mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire, per il soggetto che si dichiara danneggiato da una condotta commissiva (o più spesso omissiva) colpevole, un risultato migliore sul piano non patrimoniale.
3.6.1. Se la chance patrimoniale presenta le stimmate dell’interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa (il partecipante ad un concorso è portatore di conoscenze e preparazione che preesistono all’intervento “soppressivo” del preposto all’esame; l’azienda che prende parte ad una gara ad evidenza pubblica è portatrice di professionalità e strutture operative che preesistono all’intervento “eliminativo” della stazione appaltante), altrettanto non è a dirsi per la chance “non pretensiva”, rappresentata anch’essa (e segnatamente nel sottosistema della responsabilità sanitaria), sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, ma morfologicamente diversa rispetto alla prima: l’apparire del sanitario sulla scena della vicenda patologica lamentata dal paziente coincide, innanzitutto, con la creazione di una chance, prima ancora che con la sua (eventuale) cancellazione colpevole, e si innesta su di una preesistente situazione sfavorevole (e cioè patologica) rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un quid inteso come preesistenza “positiva”, e positivamente identificabile (il paziente è portatore di una condizione di salute che, prima dell’intervento del medico, rappresenta un pejus, e non un quid in positivo, sul piano della chance).
3.6. Tanto è a dirsi non soltanto su di un piano di diversità morfologica, ma anche con riferimento al profilo degli effetti (i.e., al momento risarcitorio) della fattispecie, dovendo il giudice di merito inevitabilmente tener conto, sia pur sul piano strettamente equitativo, di tale diversità nella liquidazione del danno. Se, difatti, in sede di accertamento del valore di una chance patrimoniale è spesso possibile il riferimento a valori oggettivi (il giudice amministrativo, in alcune sue decisioni, ha adottato il parametro del 10% del valore dell’appalto all’atto del riconoscimento di una perdita di chance di vittoria da parte dell’impresa illegittimamente esclusa), diverso sarà il criterio di liquidazione da adottare per la perdita di una chance a carattere non patrimoniale, rispetto alla quale il risarcimento non potrà essere proporzionale al risultato perduto, ma commisurato, in via equitativa, alla possibilità perduta di realizzarlo: possibilità che, per integrare gli estremi del danno risarcibile, dovrà necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà, consistenza, rispetto ai quali il valore statistico/percentuale – se in concreto accertabile – potrà costituire al più criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.
3.7. Il secondo paralogismo in cui talvolta incorre la giurisprudenza di legittimità e di merito, oltre che parte della dottrina specialistica, è costituito dalla “contrazione” (che si risolve in una vera e propria elisione in parte qua) dell’analisi degli elementi destinati ad integrare diacronicamente gli estremi della fattispecie dell’illecito, sovrapponendosi, da un canto, l’accertamento dell’elemento causale a quello dell’evento di danno (a cagione dell’equivocità del lessico usato per definire la chance), ed errandosi poi nell’identificazione stessa di quell’evento, sovente ricondotto al concetto di chance pur non avendone, di essa – specie in tema di responsabilità oncologica – carattere alcuno.
3.8. La connotazione della chance – intesa, al pari di ogni altra conseguenza della condotta illecita, come evento di danno – in termini di possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale non esclude nè elide, difatti, la necessaria e preliminare indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento (in senso contrario, non condivisibilmente, Cass. 21619/2007).
3.8.1. Appare, pertanto, fuorviante la distinzione tra chance cd. “ontologica” e chance “eziologica”, volta che la seconda delle predette definizioni sovrappone inammissibilmente la dimensione della causalità con quella dell’evento di danno, mentre la prima evoca una impredicabile fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall’esistenza e dalla prova di un danno risarcibile.
Indagine che andrà, come di consueto, condotta alla luce del criterio civilistico del “più probabile che non” (sulla cui portata, funditus, Cass. 15991/2011; 18392/2017).
3.9. L’attività del giudice dovrà, pertanto, muovere dalla previa disamina della condotta (e della sua colpevolezza) e dall’accertamento della relazione causale tra tale condotta e l’evento di danno (la possibilità perduta), senza che i concetti di probabilità causale e di possibilità (e cioè di incertezza) dell’evento sperato possano legittimamente sovrapporsi, elidersi o fondersi insieme.
3.9.1. Qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse.
4. Applicando tale criterio alla responsabilità sanitaria in ambito oncologico – quale quella di specie -, possono, pertanto, formularsi le seguenti ipotesi:
a) La condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente mentre una diversa condotta (diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce dell’accertamento della disposta CTU. In tal caso l’evento – conseguenza del concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole – sarà attribuibile al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.
b) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.
c) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del paziente (anche sotto l’aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l’evento di danno (e il danno risarcibile) sarà in tal caso rappresentato da tale (diversa e peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), senza che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance.
d) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualità delle vita medio tempore e sull’esito finale. La mancanza, sul piano etiologico, di conseguenze dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.
e) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) – sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta – se provato il nesso causale (certo ovvero “più probabile che non”), tra la condotta e l’evento incerto (la possibilità perduta) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza (supra, sub 3.6.).
5. Ne consegue che l’incertezza del risultato incide non sulla analisi del nesso causale, ma sulla identificazione del danno, poichè la possibilità perduta di un risultato sperato (nella quale si sostanzia la chance) è la qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante, e non della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta positivamente prima e a prescindere dall’analisi dell’evento lamentato come fonte di danno.
6. Pertanto, ove risulti provato, sul piano etiologico, che la mancata diagnosi di una patologia tumorale abbia cagionato la morte anticipata del paziente, che sarebbe (certamente o probabilmente) sopravvissuto significativamente più a lungo e in condizioni di vita (fisiche e spirituali) diverse e migliori, non di “maggiori chance di sopravvivenza” sarà lecito discorrere, bensì di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità (fisica e spirituale).
6.1. In tal modo, non vengono vulnerati i tradizionali criteri di accertamento dell’illecito, nè con riguardo alla relazione causale (e alle sue regole), nè alla natura dell’evento di danno da porre in relazione con la condotta dell’agente (vivere di meno e vivere peggio): l’indagine etiologica dovrà seguire sic et simpliciter l’ordinaria trama probatoria dettata in tema di causalità materiale, così fugandosi l’equivoco lessicale (che ridonderebbe inevitabilmente sullo stesso accertamento della causalità) per il quale la condotta avrebbe causato “la perdita della possibilità (i. e. della chance) di vivere più a lungo e di vivere meglio”.
6.1.1. In tal senso può convenirsi con quella attenta dottrina che qualifica la perdita di chance come un diminutivo astratto dell’illecito: diminutivo, peraltro (inevitabilmente astratto, poichè il suo risarcimento non potrà che avere fondamento equitativo, sia pur “in diminuzione”) del danno, e non del rapporto causale con la condotta colpevole.
6.2. Viene in tal guisa scongiurato il rischio, in cui pure sembrano incorrere a cune recenti sentenze di merito, di confondere il grado di incertezza della ciance perduta con il grado di incertezza sul nesso causale.
6.3. Il nesso di causalità sarà difatti escluso, al di là ed a prescindere dall’esistenza della possibilità di un risultato migliore, dalla presenza di fattori alternativi che ne interrompano la relazione logica con l’evento (quale il sopravvenire di altra patologia determinante di per sè sola dell’exitus o di altri eventi ascrivibili alla condotta di terzi o dello stesso danneggiato).
6.4. Sarà altresì esclusa ogni rilevanza causale della condotta, sul piano probabilistico, in tutti i casi di incertezza (ad esempio, nell’ipotesi di cd. multifattorialità dell’evento) sul rapporto di derivazione etiologica tra la condotta stessa e l’evento, pur nella sua astratta configurabilità in termini di possibilità perduta.
6.5. Esemplificando, nella fattispecie di illecito rappresentato dalla nascita di un feto malformato conseguente alla colpevole omissione di diagnosi da parte del sanitario che ha impedito alla gestante l’esercizio del suo diritto alla interruzione di gravidanza:
– Se la gestante provi (con onere a suo carico) che, debitamente informata, quella gravidanza ella avrebbe certamente interrotto, il sanitario risponderà nei suoi confronti di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla sua colpevole omissione.
– Se, viceversa, risulti provato in giudizio che, anche in costanza di una corretta informazione, la gestante avrebbe comunque scelto di portare a termine la gravidanza, nessun risarcimento sarà dovuto, per mancanza di efficienza causale tra la condotta del sanitario e l’evento, che si sarebbe comunque verificato anche in assenza dell’omissione colpevole.
– Se la condotta colpevole sia intervenuta in epoca successiva allo spirare dei termini ultimi di cui, rispettivamente, alla L. n. 184 del 1978, artt. 4 e 6, non il nesso di causalità, ma l’ingiustizia del danno risulterà esclusa, volta che la possibilità perduta di ricorrere all’aborto, pur causalmente riconducibile alla condotta omessa, è esclusa ex lege dal definitivo spirare dei termini per la sua realizzazione.
– Se, in sede processuale, la gestante dichiari (lealmente) di essere incerta, ora per allora, su quale sarebbe stata la sua scelta se correttamente informata, il danno sarà rappresentato da questa possibilità perduta, causalmente riconducibile (in termini di certezza) all’omissione colpevole, e correttamente predicabile in termini di chance equitativamente risarcibile.
7. Ne consegue che, provato il nesso causale, secondo le ordinarie regole civilistiche, rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza ed nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. Sul medesimo piano d’indagine, che si estende dal nesso al danno, ove quest’ultimo venisse morfologicamente identificato, in una dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente (come scelta, hic et nunc, di politica del diritto, condivisa, peraltro,
domanda per il riconoscimento dell'indennizzo in relazione alla malattia professionale. ricorso inammissibile
01/02/2017 n. 2683 - sez VI
FattoDiritto
La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda di G.Y. volta al riconoscimento dell’indennizzo in relazione alla malattia di natura professionale accertata dall’Istituto.
La Corte territoriale ha escluso che la sentenza fosse nulla evidenziando che la motivazione della decisione era integrata per relationem alla consulenza disposta in primo grado, conformemente a quanto disposto dall’art. 118 disp. att. c.p.c. nel testo novellato dalla legge n. 69 del 2009 attraverso una succinta esposizione dei fatti rilevanti e delle ragioni giuridiche della decisione. Inoltre sottolinea che con la nota integrativa all’elaborato peritale si è tenuto conto dei rilievi mossi dal ctp.
Per la cassazione della sentenza ricorre G.Y. che articola due motivi con i quali denuncia l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia e la violazione ed errata applicazione degli artt. 111 comma 2 Cost, 6 e 47 CLDU, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c..
L’Inail si è difeso con controricorso.
Tanto premesso il ricorso è inammissibile sotto vari profili.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile sia perché propone censure che mirano a sollecitare un nuovo esame delle emergenze dell’istruttoria svolta, sia, ed ancor prima, perché non riportano il contenuto delle note aggiuntive redatte dal consulente che la Corte ha accertato che avevano dato una compiuta e convincente risposta alle osservazioni critiche formulate dal consulente di parte all’elaborato peritale.
Va poi rammentato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In cassazione è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, cosicché tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Il secondo motivo, con il quale ci si duole nella sostanza del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto adeguata la motivazione per relationem della sentenza di primo grado, è carente nella specificazione del contenuto della sentenza che si assume essere stata erroneamente ritenuta sufficientemente motivata.
In nessuna parte del ricorso, infatti è riportato il contenuto della sentenza di primo grado che si assume essere totalmente inesistente.
In conclusione per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 qnater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’alt. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in e 2500,00 per compensi professionali, £ 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie. Accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 qnater del d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
Così deciso in Roma il 1 dicembre 2016
reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro
31/01/2017 n. 2498 - sez Lavoro
Svolgimento del processo
1.— La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 29 ottobre 2013, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo a R M in data 12 ottobre 2010 da D I, titolare di una farmacia, condannando quest’ultimo alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con le pronunce conseguenziali previste dall’art. 18 St. lav.. La Corte territoriale ha ritenuto che nella lettera di licenziamento non fossero state sufficientemente specificate le ragioni del licenziamento e che alla successiva missiva del 18 ottobre 2010, con cui il lavoratore aveva chiesto “spiegazioni in merito”, l’Imbesi aveva replicato il 25 ottobre 2010 senza alcun riferimento “ai motivi concreti e oggettivi” che lo avevano indotto a licenziare il M, violando così l’art. 2, co. 2, della I. n. 604 del 1966. La Corte ha inoltre ritenuto che non vi fosse la prova che il titolare della farmacia avesse un numero di dipendenti uguale o inferiore a quindici al momento del licenziamento in controversia.
2.— Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D I con cinque motivi, illustrati da memoria. Non ha svolto attività difensiva R M. Motivi della decisione
3.— Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della I. n. 604 del 1966 nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che il M, con la lettera di impugnativa del licenziamento del 18.10.2010, avesse richiesto le motivazioni del licenziamento. Si deduce, in ogni caso, che i motivi del licenziamento già indicati nella lettera di recesso del 12.10.2010 escludevano l’obbligo datoriale di doverli specificare nuovamente nella seconda comunicazione dei 25.10.2010. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2, co. 2, della 1. n. 604/66, in relazione agli artt. 1363, 1366, 1375 e 1175 c.c. perché il contenuto dei motivi di licenziamento era evincibile dalla lettura congiunta delle due comunicazioni ai fini della complessiva valutazione di specificità. Le censure, che possono esaminarsi congiuntamente perché relative al medesimo aspetto della sentenza impugnata, non possono trovare accoglimento. Nonostante la denuncia formale di violazione di plurime norme di diritto, nella sostanza si contesta l’interpretazione offerta dalla Corte territoriale in ordine al contenuto degli atti richiamati in punto di specificità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento. Evidentemente si tratta di un apprezzamento di fatto, congruamente espresso dalla Corte territoriale, che non è meritevole delle censure che vengono mosse in quanto si travalicherebbero i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. n. 8054 del 2014.
4.— Con il terzo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e violazione o falsa applicazione dell’art. 18 della I. n. 300 del 1970 per avere la Corte territoriale omesso di valutare, ai fini dell’insussistenza del requisito dimensionale, l’allegato Libro Unico del Lavoro dal quale risultava, in base alla quota oraria di ciascun dipendente part time, che l’organico aziendale era di 13,47 unità e non di 17. Si censura altresì la valutazione di inattendibilità dei testi escussi formulata dalla Corte di Appello. Con il quarto motivo si censura la sentenza impugnata per avere collegato alla mancata produzione del libro matricola il mancato assolvimento dell’onere della prova sul requisito dimensionale, trascurando di considerare che, con l’art. 39 del d.l. n. 112 del 2008, conv. in I. n. 133 del 2008, è stato abolito il libro matricola e registro d’impresa. Anche tali censure, congiuntamente esaminabili per reciproca connessione, in concreto si dolgono dell’accertamento della sussistenza del requisito dimensionale effettuato dalla Corte di Appello, incontrando la medesima preclusione di cui ai motivi che precedono imposta dalla nuova formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, che inibisce a questa Corte ogni riesame della quaestio facti. Quanto all’abolizione del libro matricola è sufficiente evidenziare che il dato non ha alcun valore decisivo nella motivazione della sentenza impugnata atteso che la Corte romana ha tratto il convincimento che l’Imbesi valicasse la soglia del requisito dimensionale ai fini dell’applicabilità della tutela reale sulla base di una pluralità di circostanze e non solo per la mancata produzione del libro matricola.
5.— Con il quinto motivo si lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio “vale a dire la deduzione di aliunde perceptum formulata dal dott. I”. Si deduce che la sentenza impugnata sarebbe “incorsa in netto vizio di motivazione non avendo in alcun modo esaminato l’eccezione e l’allegazione formulata dal ricorrente nella memoria di costituzione in giudizio”. La doglianza è infondata. La giurisprudenza di questa Corte ritiene che l’eccezione con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte: pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. SS.UU. n. 1099 del 1998). Tuttavia è il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore ad essere onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. n. 9616 del 2015; Cass. n. 23226 del 2010). Inoltre è stato anche precisato che, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato, è necessario che risulti la prova non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (Cass. n. 21919 del 2010; Cass. n. 6668 del 2004).R.G. n. 11096/2014 Nel caso di specie la deduzione della difesa dell’I secondo cui “il dott. M, dal mese di febbraio 2011 ha lavorato come farmacista presso altra farmacia di Roma, nonché effettuando varie sostituzioni presso altre farmacie della provincia di Roma” è talmente generica, anche circa il quantum di quello che sarebbe stato diversamente percepito, da risultare inadeguata allo scopo e priva della necessaria decisività.
6.— Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Nulla per le spese di giudizio in difetto di attività difensiva dell’intimato. Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie proposto in data 24 aprile 2014 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
rendita da infortunio e termine triennale di prescrizione
31/01/2017 n. 2380 - sez VI
FattoDiritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 14 dicembre 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c. ed il cui contenuto è di seguito riportato con alcune correzioni di forma.
“Il Tribunale di Patti, accogliendo la domanda proposta da M.S. nei confronti dell’lNAIL, condannava l’istituto alla costituzione in favore del ricorrente della rendita da infortunio nella misura del 16% in conseguenza dell’infortunio sul lavoro occorsogli in data 11 maggio 2001, oltre accessori.
Tale decisione, su gravame dell’INAIL, veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Messina che, con sentenza del 24 dicembre 2013, condannava l’istituto al pagamento della rendita nella misura determinata dal primo giudice con decorrenza dalla cessazione della inabilità temporanea assoluta detraendo quanto erogato per lo stesso infortunio a titolo di indennizzo, oltre interessi sino al soddisfo.
La Corte territoriale, per quello che ancora rileva in questa sede, rigettava l’eccezione di prescrizione, già respinta dal tribunale e riproposta dall’lNAIL con il primo motivo di appello.
Per la cassazione di tale decisione l’INAIL propone ricorso affidato ad un unico motivo.
Il M.S. è rimasto intimato.
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 111 e 112, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si assume che la corretta interpretazione dei citati articoli avrebbe imposto di far decorrere il termine triennale di prescrizione dalla data di scadenza del periodo di sospensione, che non può eccedere i 150 giorni decorrenti dall’avvio del procedimento amministrativo, con la conseguente declaratoria della prescrizione del diritto avverso per essere stato depositato il ricorso dopo la scadenza del termine triennale come sopra determinato.
Il motivo è fondato.
Ed infatti, secondo il prevalente orientamento di questa Corte “La sospensione della prescrizione triennale dell’azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 111, comma 2, opera limitatamente al decorso dei 150 giorni previsti per la liquidazione amministrativa delle indennità dal terzo comma della stessa disposizione: la mancata pronuncia definitiva dell’lNAIL entro il suddetto termine configura una ipotesi di silenzio significativo della reiezione dell’istanza dell’assicurato e comporta, quindi, l’esaurimento del procedimento amministrativo e, con esso, la cessazione della sospensione della prescrizione” (da ultimo, con ampia motivazione cui si rimanda, vedi Cass. n. 211 del 12/01/2015 che illustra le ragioni, del tutto condivisibili, per le quali tale indirizzo è da preferire a quello minoritario secondo cui il termine di prescrizione delle azioni per conseguire le prestazioni dell’Inail è sospeso durante la pendenza del procedimento amministrativo, anche ove questo non si concluda nel termine di 150 giorni previsto dalla legge ).
Orbene, nel caso in esame è stato accertato che l’infortunio è dell’ 11 maggio 2001 e che il ricorso in opposizione, alla visita di accertamento dei postumi del 7 novembre 2002, è stato proposto dall’infortunato il 18 dicembre 2002 sicché il termine triennale di prescrizione ha cominciato a decorrere dal 18 maggio 2003 (ovvero dal 150° giorno successivo all’inizio del procedimento amministrativo). Pertanto, alla data del ricorso giudiziario (depositato il 30 luglio 2007), il termine triennale di prescrizione era ormai decorso. Né poteva assumere alcuna rilevanza ai fini interruttivi del detto termine l’atto con il quale l’istituto aveva comunicato, in data 22 gennaio 2007, la liquidazione dell’indennizzo in conto capitale nei limiti dell’11% di danno biologico perchè intervenuto dopo il decorso del termine triennale ed avendo detto atto solo valenza di riconoscimento del diritto nei limiti determinati dall’istituto.
Per quanto sin qui esposto si propone l’accoglimento del ricorso, la cassazione dell’impugnata sentenza con decisione nel merito — ex art. 384, co.2°, c.p.c. non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto — di rigetto della originaria domanda, il tutto con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5..”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
Il Collegio condivide il contenuto della sopra riportata relazione e pertanto, accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e decide nel merito — ex art. 384, co.2, c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto — rigettando l’originaria domanda.
Le spese relative ai gradi di merito, avuto riguardo al diverso esito degli stessi, vanno compensate tra le parti; quelle relative al presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del M.S. e vengono liquidate come da dispositivo in favore dell’INAIL.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda; compensa le spese relative ai gradi di merito e condanna M.S. alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2.500,00 per compensi professionali , otre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.
servizi sanitari - contratti di appalto di cui all’allegato ib della direttiva 92/50/cee - questione interpretativa pregiudiziale - rinvio alla corte di giustizia dell’unione europea.
31/01/2017 n. 2482 - Cassazione Civile - Prima
ha rimesso alla Corte di giustizia della UE la questione interpretativa della direttiva n. 92/50/CEE con riferimento all’aggiudicazione dei contratti di appalto dei servizi sanitari elencati nell’allegato IB, chiedendo: a) se tali contratti restano assoggettati ai principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, parità di trattamento e divieto di discriminazione di cui agli artt. 43, 49 e 86 del Trattato UE; b) in caso affermativo, se l’art. 27 della direttiva, che prevede – in caso di procedura negoziata – un numero di candidati ammessi a negoziare non inferiori a tre, si applichi anche ai contratti di cui all’allegato IB; c) se tale disposizione osti all’applicazione di una normativa interna che – per gli appalti pubblici aventi ad oggetto i servizi di cui all’allegato IB stipulati anteriormente alla direttiva n. 2004/18/CE – non assicuri, in caso di procedura negoziata, l’apertura alla concorrenza.
rapporto dirigenziale con struttura ssn
31/01/2017 n. 2511 - Sezione lavoro
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Messina, con la sentenza n. 3655 del 2007, rigettava le domande proposte da B.G., con ricorso depositato il 4 aprile 2006, diretto ad ottenere previa disapplicazione della Det. sindacale n. 310 del 30 giugno 2005 e degli atti e verbali della Commissione di esperti, l’annullamento della Delib. 26 gennaio 2006, n. 50 con cui il direttore generale della Azienda ospedaliera “Piemonte” di Messina aveva conferito l’incarico di direttore di struttura di patologia clinica al dott. F.G. (indicato per lapsus calami quale F. nella epigrafe della sentenza di appello), e la dichiarazione del proprio diritto ad ottenere l’incarico dirigenziale, o in subordine la condanna dell’Azienda a risarcirgli il danno conseguente alla perdita di chances.
2. Il Tribunale rigettava la domanda.
3. La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di appello ritenendo corretto l’operato della Commissione, avendo la stessa tenuto conto dei requisiti specifici per l’accesso all’incarico di direzione complessa e tra essi del “curriculum” ai sensi del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8 e non rilevando, in ragione della disciplina normativa, che il Falliti all’atto del conferimento dell’incarico aveva dato le dimissioni e non apparteneva più alla dirigenza del SSN.
4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre nei confronti della Azienda ospedaliera “Piemonte” di Messina e di F.G., B.G., prospettando due motivi di ricorso.
5. Sia l’Azienda ospedaliera che il F. resistono con controricorso.
6. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto: D.P.R. n. 484 del 1997, artt. 3, 5, 6, 8 e art. 15, comma 3; art. 97 Cost.; artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
2. Il ricorrente premette che il conferimento degli incarichi nell’ambito della dirigenza, settore sanità, trova la principale fonte di regolamentazione nel D.Lgs. n. 502 del 1992, come modificato nel tempo, pervenendosi all’attuale disciplina secondo la quale l’attribuzione dell’incarico di direzione di struttura complessa è effettuata dal direttore generale, previa pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, sulla base di una rosa di candidati idonei selezionata da una apposita Commissione. Quest’ultima deve procedere all’accertamento dell’idoneità degli aspiranti sulla base di un colloquio e della valutazione del curriculum professionale, i cui contenuti sono indicati nel D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8, (Regolamento recante la determinazione dei requisiti per l’accesso alla direzione sanitaria aziendale e dei requisiti e dei criteri per l’accesso al secondo livello dirigenziale per il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale).
Tale disposizione, in particolare, al comma 3, stabilisce: “I contenuti del curriculum professionale, valutati ai fini del comma 1, concernono le attività professionali, di studio, direzionali-organizzative, con riferimento”, tra l’altro “c) alla tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate dal candidato”.
La medesima disposizione, al quinto comma, stabilisce: “I contenuti del curriculum, esclusi quelli di cui al comma 3, lett. c), e le pubblicazioni, possono essere autocertificati dal candidato ai sensi della L. 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni”.
Il medesimo D.P.R. n. 484 del 1997, art. 5, comma 1, lett. c), stabilisce che il “curriculum ai sensi dell’art. 8 in cui sia documentata una specifica attività professionale ed adeguata esperienza ai sensi dell’art. 6, costituisce uno dei requisiti” per l’accesso all’incarico di direttore di struttura complessa.
3. Tanto premesso, il ricorrente rileva che, erroneamente, il giudice di merito non si sarebbe avveduto della violazione della suddetta disciplina:
Esso ricorrente entro i termini di presentazione della domanda era stato il solo ad avere cura di documentare, a mezzo di apposita certificazione rilasciata dalla propria Azienda, la “tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate”.
La Commissione, dopo aver richiesto a ciascun candidato la integrazione del curriculum ai fini di una più corretta valutazione della posizione di ciascuno, aveva poi deciso di non acquisire ulteriori documenti e stabiliva i criteri per procedere all’esame dei curricula omettendo di considerare “la tipologia qualitativa e quantitativa delle prestazioni effettuate dai candidati”.
La Corte d’Appello, disattendendo le doglianze del ricorrente, riteneva corretto l’operato della Commissione, escludendo che la certificazione fosse indispensabile ai fini della conformità del curriculum e della valutazione dei candidati.
Erroneamente, la Corte d’Appello non riteneva viziante tale omissione, assumendo inoltre che la disciplina transitoria di cui all’art. 15, comma 3 suddetto D.P.R..
4. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
5. Ha rilievo assorbente il carattere non concorsuale della procedura secondo i principi affermati da questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 25042 del 2005, nel dirimere questione di giurisdizione: appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione della controversia concernente il provvedimento di conferimento dell’incarico di dirigente di secondo livello del ruolo sanitario D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 15 dovendosi escludere che la procedura per il conferimento di detto incarico abbia natura di procedura concorsuale per il solo fatto che ad essa sono ammessi anche soggetti estranei al SSN, e soggetti che, seppur medici del servizio sanitario, sono legati comunque con rapporto di lavoro ad enti diversi rispetto a quello che indice la procedura. Nella disciplina per il conferimento dell’incarico di dirigente medico di secondo livello non è presente alcun elemento idoneo a ricondurre la stessa ad una procedura concorsuale, ancorchè atipica: la commissione si limita – dopo le modifiche apportate al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 dal D.Lgs. n. 517 del 1993 – alla verifica dei requisiti di idoneità dei candidati alla copertura dell’incarico, in esito ad un colloquio ed alla valutazione dei “curricula”, senza attribuire punteggi o formare una graduatoria, semplicemente predisponendo un elenco di candidati, tutti idonei perchè in possesso dei requisiti di professionalità previsti dalla legge e delle capacità manageriali richieste in relazione alla natura dell’incarico da conferire; l’elenco viene sottoposto al direttore generale il quale, nell’ambito dei nominativi indicati dalla commissione, conferisce l’incarico sulla base di una scelta di carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua responsabilità manageriale (D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3, commi 1 e 4, e successive modifiche).
Nello stesso senso Cass., S.U. n. 8950 del 2007 (cfr. Cass., S.U. 5920 del 2008, n. 21060 del 2011): la procedura di selezione avviata da un’Azienda ospedaliera per il conferimento dell’incarico di dirigente di secondo grado del ruolo sanitario – prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15-ter, commi 2 e 3, – non ha carattere concorsuale, in quanto si articola secondo uno schema che prevede non lo svolgimento di prove selettive con formazione di graduatoria finale ed individuazione del candidato vincitore, ma la scelta di carattere essenzialmente fiduciario di un professionista ad opera del direttore generale dell’Azienda unità sanitaria locale nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei da un’apposita commissione per requisiti di professionalità e capacità manageriali.
Con la recente Cass, S.U., n. 9281 del 2016 si è ribadito che la selezione prevista dall’art. 15-ter, introdotto nel D.Lgs. n. 502 del 1992 dal D.Lgs. n. 229 del 1999, art. 13, non integra un concorso in senso tecnico, anche perchè articolata secondo uno schema destinato a concludersi con una scelta essenzialmente fiduciaria operata dal direttore generale.
6. il D.P.R. n. 484 del 1997, art. 8 della cui violazione in particolare il ricorrente si duole, non indica i requisiti minimi (e cioè le condizioni soggettive ed oggettive minime per poter partecipare alla selezione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15, comma 3, e successive modificazioni), ma i criteri sul colloquio ed il curriculum professionale. Detti criteri, ai sensi dell’art. 3 cit. D.P.R, consistono in “indicazioni concernenti il colloquio ed i contenuti valutabili del curriculum professionale ai fini della predisposizione dell’elenco dei candidati ritenuti idonei da parte della Commissione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15, comma 3, e successive modificazioni”.
Ciò, tenuto conto delle caratteristiche della procedura, come sopra ricordata in ragione dell’insegnamento delle Sezioni Unite, pone in evidenza come l’art. 8, non si traduce in un obbligatoria modalità di redazione del curriculum per i candidati, tra i quali non viene effettuata una comparazione, ma rispetto ai quali viene espresso un giudizio di idoneità, ma integra una elencazione degli elementi che, indicati nel curriculum, costituiscono oggetto della valutazione della Commissione, senza stabilire, peraltro, una priorità dell’uno rispetto all’altro.
I candidati sanno quali sono gli elementi che possono concorrere ad integrare utilmente il curriculum, in quanto possono costituire oggetto di valutazione da parte della Commissione nei sensi sopra indicati.
Diversamente, devono sussistere, e la Commissione deve verificarne la sussistenza, i requisiti minimi di cui agli artt. 3 e 5 medesimo D.P.R., tra i quali “curriculum ai sensi dell’art. 8 in cui sia documentata una specifica attività professionale ed adeguata esperienza ai sensi dell’art. 6”.
7. La Corte d’Appello correttamente, quindi, ha affermato che l’operato della Commissione era esente va vizi in quanto la stessa aveva tenuto conto dei requisiti specifici (D.P.R. n. 484 del 1997, artt. 3 e 5) e tra essi del “curriculum ai sensi dell’art. 8 sopra citato”, e che nel curriculum, la cui presentazione sin dall’inizio da parte del F. non è contestata dal ricorrente (che deduce che dopo che la Commissione aveva chiesto integrazione il controricorrente aveva presentato un nuovo curriculum, v. pag. 10 del ricorso, e rileva, in modo generico e non circostanziato, atteso che non espone quali sarebbero stati gli elementi di novità ai fini della rilevanza della doglianza, che la Corte d’Appello si sarebbe basata su quest’ultimo, p. 21 del ricorso), era documentata una specifica attività professionale e l’adeguata esperienza, determinata pur senza avvalersi delle specificazioni casistiche dei decreti ministeriali, in quanto gli stessi non erano ancora stati adottati (art. 15, comma 3, in relazione al D.P.R. n. 484 del 1997, art. 6).
8. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto: art. 97 Cost., D.Lgs. n. 502 del 1992, artt. 15, 15-bis, 15-ter, 15-terdecies; artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.; del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 1, comma 1 e art. 10, commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Assume il ricorrente che il F., al tempo in cui sosteneva il colloquio, ed era dichiarato idoneo, non era più dirigente medico del SSN e non avrebbe quindi potuto nè essere dichiarato idoneo, nè, conseguentemente, ottenere l’incarico.
Erroneamente, in ragione della giurisprudenza di legittimità e della disciplina di settore, la Corte d’Appello ha ritenuto che alla selezione sarebbero stati ammessi anche soggetti estranei al SSN, e che il carattere discrezionale della nomina operata nell’ambito dei poteri propri del datore di lavoro privato escludevano la possibilità di disapplicazione della nomina, mentre la mancanza di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo escludeva la configurabilità di un interesse tutelabile con il risarcimento del danno.
Espone il ricorrente che il conferimento dell’incarico a soggetti esterni, trattandosi nella specie di procedura non concorsuale, determinerebbe l’accesso ai ruoli della dirigenza, con inquadramento nei ruoli, senza concorso.
Il ricorrente prospetta quindi che una diversa interpretazione renderebbe sospette di illegittimità costituzionale le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15, comma 7, e art. 15-ter, comma 2.
9. Il motivo va rigettato. La previsione del D.P.R. n. 484 del 1997, art. 1, comma 1 secondo cui “l’incarico di direzione sanitaria aziendale è riservato ai medici di qualifica dirigenziale che abbiano svolto per almeno cinque anni attività di direzione tecnico-sanitaria in enti o strutture sanitarie, pubbliche o private, di media o grande dimensione e che abbiano conseguito l’attestato di formazione manageriale di cui all’art. 7 previsto per l’area di sanità pubblica”, non richiede la persistenza del rapporto di lavoro dirigenziale al momento dell’incarico, ma l’aver ricoperto tale qualifica per un tempo significativo.
Pertanto non sussiste il vizio denunciato dal ricorrente e quanto affermato da questa Corte a Sezioni Unite con la citata sentenza n. 25042 del 2005, e cioè che la procedura non ha carattere concorsuale e che alla procedura sono ammessi anche soggetti estranei al S.S.N., e soggetti che, seppur medici del servizio sanitario, sono legati comunque con rapporto di lavoro ad enti diversi rispetto a quello che indice la procedura, non fa superare il vaglio di non manifesta infondatezza alla questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente.
Correttamente in ragione del rigetto delle censure relative a vizi della procedura la Corte d’Appello ha rigettato la domanda risarcitoria.
10. Il ricorso deve essere rigettato.
11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida per ciascun controricorrente in Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 per cento, oltre accessori come per legge.
università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione
27/01/2017 n. 2214 - ordinanza sez. VI
FATTO E DIRITTO
1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:
“Con sentenza n. 1031/2013, depositata in data 12 aprile 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di P.A. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.
P.A. resiste con controricorso.
Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.
Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.
Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).
Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).
Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.
Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).
I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.
In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.
La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).
Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.
2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.
6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017
università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione
27/01/2017 n. 2159 - ordinanza sez. VI
FATTO E DIRITTO
1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:
“Con sentenza n. 4098/2013, depositata in data 17 dicembre 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto dei ricorrenti, appartenenti al personale universitario non medico ed inquadrati nella ex 7^ qualifica funzionale in qualità di collaboratore tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente qualifica funzionale 9^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 12908/2013 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto delle ricorrenti all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.
A.N., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A., A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., L.P., L.G., G.N., D.B.M., C.A., resistono con controricorso.
Pe.Ro. è rimasto solo intimato.
Con il primo motivo l’Università denuncia violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, della L. n. 200 del 1974, art. 1, del D.I. 9 novembre 1982, D.M. 31 luglio 1997, art. 6, all. D, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla mancata allegazione di parte istante dell’effettiva parità di mansioni e funzioni quale presupposto indefettibile dell’invocata parità retributiva, anche con riguardo al disposto di cui all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 12908/2013 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provata per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9/11/1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.
Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 53 del c.c.n.l. Comparto sanità 1994/1997, dell’art. 51 c.c.n.l. Computo sanità 1998/2001, rilevando che tali disposizione pattizie avallano la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.
I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
Nella specie, i dipendenti hanno chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 Novembre 1982, la figura del collaboratore tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e socio-sanitaria della 7^ qualifica funzionalè è equiparata a quella di assistente tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 9^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986, che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dai dipendenti ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).
Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4); “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere detetininata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.
Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).
I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.
In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.
La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento proprio ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 7^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).
Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.
2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
3 Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario VII livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).
Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.
6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017