medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

03/01/2022 n. 1 - Cassazione Penale -Sez. terza

Un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva ”” l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

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accertamento età anagrafica e valore in processi diversi - risolve conflitto

10/11/2021 n. 4332 ud. 10/11/2021 – deposito del 24/11/2021 - cassazione penale - sezione prima

Come è stato affermato da Sez. I Civ. n. 6520 del 2020, in sede di analisi del tessuto normativa e della particolare previsione di legge che impone la «sospensione di ogni procedimento amministrativo e penale» in pendenza della procedura de qua, : [ .. ] in tal modo si è inteso rendere esplicito il proponimento che il provvedimento di attribuzione dell’età, a cui il decidente perviene all’esito del procedimento multidisciplinare .. , non è funzionale solo all’attivazione delle misure di protezione previste dal d.lgs. 142 del10/11/2021 n. 4332 ud. 10/11/2021 – deposito del 24/11/2021 2015, ma è destinato a riverberare i suoi effetti anche in altri rami dell’ordinamento giuridico che fanno dell’età il presupposto discriminatorio per l’applicazione di un trattamento differenziato rispetto a quello normalmente praticato [ .. ].

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responsabilità d'equipe in emergenza - responsabilità del medico che procede nonostante sappia che manca una ecografia necessaria

29/09/2020 n. 28316 - Sezione IV

Il medico che partecipa ad un atto clinico, che sa non essere eseguito correttamente, ha l’obbligo di opporsi e manifestare il proprio dissenso in cartella clinica e deve pretendere l’esame clinico omesso.
La presa in carico del paziente, nel momento dell’effettuazione dell’ intervento chirurgico al quale il medico partecipa, consegue l’ assunzione degli obblighi protettivi nascenti dall’instaurato rapporto protettivo e di controllo.
In materia di colpa medica nelle attività d’equipe, del decesso del paziente risponde ogni componente dell’equipe, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte. Si è infatti ripetutamente affermato che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela .

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il medico di base cede le ricette bianche non compilate al farmacista che le compila. i reati.

07/09/2020 n. 28847 - Cassazione penale sez. V

I certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità sono attestazioni private qualificate di una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela anche contro le falsità ideologiche, punite a norma dell’art. 481 c.p.; ma quando i relativi documenti sono oggetto di falsità materiale, per contraffazione o per alterazione, il reato configurabile è quello di falsità in scrittura privata previsto dall’art. 485 c.p.”.

Non vi è alcun dubbio, quindi, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che la prescrizione medica, documento compilato da un esercente la professione sanitaria, abbia duplice natura: di atto certificativo, da un lato, in quanto presuppone una condizione di malattia o, comunque, di sofferenza del soggetto che richiede la somministrazione della terapia prescritta e, in tal senso, la prescrizione rappresenta l’attività ricognitiva, da parte del sanitario, circa il diritto dell’assistito alla erogazione di quello specifico medicinale; per altro verso, se ne apprezza la natura autorizzativa, in quanto la prescrizione rende fruibile detto diritto, consentendo all’amministrazione, tramite il servizio farmaceutico, la vendita del medicinale stesso, con rimozione di ogni ostacolo alla erogazione, escluse le ipotesi di farmaci “da banco”, per i quali la vendita è libera, essendo gli stessi commerciabili a prescindere da prescrizione medica.

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farmacista truffa lo stato in accordo con un medico di famiglia per favorire lo spaccio di stupefacenti

15/06/2020 n. 18202 - Sezione II - (ud. 06/02/2020, dep. 15/06/2020)

1. Con provvedimento del 16-24.10.2019 il Tribunale di Cosenza ha vagliato il ricorso per riesame proposto nell’interesse di C.P. respingendo il gravame e confermando il decreto con cui il GIP aveva disposto il sequestro preventivo (finalizzato alla confisca per equivalente) della complessiva somma di Euro 175.947,96 ovvero, in caso di impossibilità, dei beni nella disponibilità dell’indagato da individuarsi in sede di esecuzione del provvedimento e per un valore pari a quello suindicato; in particolare, il GIP aveva ravvisato il “fumus” del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato che sarebbe stata commessa in concorso con G.F.S.M., medico di famiglia, a seguito della abusiva prescrizione e consegna del farmaco Oxycontin, a base di oppioidi ed avente effetti stupefacenti simili a quelli dell’eroina;

2. ricorre per cassazione il difensore di C.P. lamentando:

2.1 mancanza di motivazione: rileva, in particolare, che il Tribunale del Riesame è venuto meno al suo compito di verificare la sussistenza del “fumus” alla luce delle argomentazioni difensive contenute nella istanza di riesame e nella memoria depositata unitamente alla documentazione allegata; richiama, quindi, le censure articolate in quella sede con riguardo: ai numerosissimi contatti con il M. relativi al prelievo, sempre autorizzato, di farmaci che il farmacista ha l’obbligo di consegnare; al fatto che il M. fosse un intermediario, circostanza assolutamente coerente con la natura del farmaco che, per l’appunto, suppone normalmente la incapacità del diretto interessato di provvedere di persona al suo ritiro; al fatto che i farmaci venissero consegnati al domicilio, elemento del tutto irrilevante e neutro atteso che il D.Lgs. 3 ottobre 2009, n. 153, art. 1, comma 2, lett. a) disciplina proprio questa modalità di consegna; alla affermazione, del tutto infondata, secondo cui sarebbero stati proprio i farmacisti, più volte, a sollecitare il M. ad acquisire le ricette ed a segnalare la disponibilità del farmaco.

Sottolinea che, in ogni caso, il C. non era in alcun modo consapevole della insussistenza dei presupposti per la regolare prescrizione del farmaco.

Rileva che, per ciascuna delle obiezioni difensive, la risposta fornita dal Tribunale è in realtà inconsistente ovvero comunque non coerente con l’argomentazione contrastata oltre che carente nel momento in cui richiama il contenuto di atti di indagine non riportati; aggiunge che non era stata depositata alcuna consulenza tecnica di parte ma solo un riepilogo contabile per dimostrare come l’utile correlato alla prescrizione di quei farmaci fosse assolutamente irrisorio rispetto a quello annuale della farmacia P., onde fornire un elemento di valutazione del compendio indiziario che sarebbe stato acquisito nel corso delle indagini.

Analogamente, nessun elemento a carico del ricorrente poteva essere desunto dal rinvenimento dei farmaci nella abitazione del M. risultando la motivazione, sul punto, del tutto apparente.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto articolato su censure non consentite in questa sede.

1. Il Tribunale ha ricordato, in primo luogo, che C.P. risponde del solo delitto di cui al capo 11) della rubrica provvisoria, ovvero della truffa aggravata che sarebbe stata commessa in concorso con la madre, P.A., titolare della farmacia di cui il medesimo è dipendente, e con il fratello G. (oltre che con G.F.S.M., B.G. e M.F.); in particolare, il G., medico convenzionato con il SSN, avrebbe prescritto abusivamente al B. farmaci contenenti sostanze stupefacenti del tipo ossicodone, in assenza dei necessari presupposti previsti dall’AIFA (patologie caratterizzate da dolore severo, non rispondenti ai comuni trattamenti antalgici, nella fase terminale, conseguenti soprattutto a patologie neoplastiche o degenerative); il B. avrebbe a sua volta sollecitato la compilazione delle predette prescrizioni e le avrebbe presentate presso varie farmacie per il tramite, nel caso che ci occupa, di M.F.; il M., dal canto suo, avrebbe ricevuto le prescrizioni presentandole alla farmacia P.; il C., infine, avrebbe dispensato i farmaci in violazione di quanto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 45 presentando inoltre tali prescrizioni per il successivo rimborso; in particolare, la farmacia dei C. avrebbe dispensato 2221 confezioni per il periodo compreso tra il 25.6.2015 ed il 30.12.2018 per un importo complessivo pari ad Euro 175.947,96, con vantaggio ingiusto per il B., il M. e loro stessi e con correlativo danno economico per il SSN.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente il “fumus” del delitto ipotizzato nonchè, per altro verso, il “periculum in mora” rilevando che, in ogni caso, il sequestro è consentito in forza della confiscabilità del profitto dei reati di truffa aggravata per i quali si procede; ha inoltre ribadito la sequestrabilità delle somme non potendosi certamente ritenere che esse appartengano a soggetti estranei al reato di truffa quand’anche nella sua condotta iniziale ascrivibile al G., al B. ed al M..

I giudici del riesame hanno sottolineato che la vicenda è relativa a numerosissime confezioni di Oxycontin, farmaco oppioide per le cure palliative del dolore, composto da una molecola (l’ossicodone) simile a quella dell’eroina ed in grado di innescare forme di dipendenza analoghe; hanno precisato che la quantità delle confezioni non poteva sfuggire ai farmacisti e che la loro consapevolezza circa il carattere abusivo delle prescrizioni ben poteva essere desunto dalla violazione della normativa in materia di modalità di somministrazione e controllo richiamando, a tal proposito, il D.M. Salute 18 settembre 1997, art. 3.

Il Tribunale ha fatto riferimento alla disciplina di cui al D.P.R. n. 3029 del 1990 quanto ai poteri di verifica, controllo della conformità delle prescrizioni “off-label” tenuto anche conto delle previsioni contenute nel D.L. 17 febbraio 1998, n. 23 (convertito in L. 8 aprile 1998, n. 24).

Ciò non di meno ha rilevato che nel corso delle indagini era emerso che erano state consegnate, al medesimo destinatario, quantità di farmaci di gran lunga eccedenti il limite massimo di terapia (pari a trenta giorni) di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 45, comma 4 bis.

Con specifico riferimento al capo 11) della incolpazione provvisoria, ha quindi fatto riferimento all’accertamento tecnico eseguito ai sensi dell’art. 369 c.p.p. segnalando che il B. non era portatore di alcuna patologia tale da rendere necessario l’uso del farmaco in questione richiamando anche il tenore delle conversazioni intercettate all’interno dello studio medico del Dott. G..

Gli elementi indiziari a carico dei due fratelli C. e della P. erano stati inoltre rinvenuti nei numerosissimi e del tutto ingiustificati contatti telefonici da costoro intrattenuti con il M., persona diversa dal destinatario delle prescrizioni e presso la cui abitazione venivano consegnati i farmaci; ha sottolineato che erano sempre i farmacisti a contattare il M. per sollecitare la consegna di altre prescrizioni segnalando di volta in volta la disponiblità del medicinale che sarebbe stato rinvenuto in grandi quantità presso la stessa abitazione del M. il quale aveva in quella occasione riferito che esse provenivano, per l’appunto, dalla farmacia P. in forza di ricette mediche redatte dal Dott. G. ed intestate al B..

2.1 Fatta questa premessa in punto di fatto, non è inutile ricordare che il ricorso per Cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr., in tal senso, tra le tante, Cass. Pen., 2, 14.3.2017 n. 18.951, Napoli; Cass. Pen., 6, 10.1.2013n. 6.589, Gabriele).

Né è possibile invocare il vizio di violazione di legge (sotto il profilo, ad esempio, dell’art. 192 c.p.p.), quando il ricorso sia fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio (cfr., in tal senso, tra le tante, Cass. Pen., 6, 8.3.2016 n. 13.442, De Angelis; Cass. Pen., 6, 30.9.2013 n. 43.963, P.C. in proc. Basile).

Né, d’altro canto, è in grado di integrare il vizio di violazione di legge l’omessa valutazione di una memoria difensiva che, di per sé, non determina alcuna nullità, potendo al più influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (cfr., in tal senso, Cass. Pen., 5, 21.9.2017 n. 51.117, Mazzaferro; Cass. Pen., 5, 17.1.2019 n. 24.437, Armeli; Cass. Pen., 3, 8.5.2019 n. 23.097, Capezzuto; Cass. Pen., 4, 9.1.2018 n. 18.385, Mascaro).

2.2 Per altro verso, si è più volte ribadito che in sede di riesame del sequestro il Tribunale deve stabilire l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, astraendo non già dalla concreta rappresentazione dei fatti come risultano allo stato degli atti, ma solo ed esclusivamente dalla necessità di ulteriori acquisizioni e valutazioni probatorie sicchè l’accertamento della sussistenza del “fumus commissi delicti” va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipizzata dalla norma incriminatrice (cfr., Cass. Pen., 3, 7.5.2006n. 33.873, Moroni; Cass. Pen., 6, 27.1.2004 n. 12.118, Piscopo; Cass. Pen., 3, 24.3.2011 n. 15.177, PM in proc. Rocchino; Cass. Pen., 5, 18.4.2011 n. 24.589, Misseri; Cass. Pen., 3, 10.3.2015 n. 15.254, Previtero; Cass. Pen., 2, 5.5.2016 n. 25.320, PM in proc. Bulgarella; conf., ancora, Cass. Pen., 1, 30.1.2018 n. 18.491, Armeli, secondo cui, ai fini della legittima adozione del sequestro preventivo non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il “fumus commissi delicti”, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato; Cass. Pen., 2, 28.1.2014n. 5.656, Zagarrio; Cass. Pen., 2, 11.12.2013 n. 2.248, Mirarchi).

3. Alla luce dei principi sopra appena richiamati, non può che concludersi nel senso della inammissibilità del ricorso in quanto le censure articolate nell’interesse del C. si risolvono, in realtà, nella contestazione della adeguatezza, congruità ovvero sufficienza della motivazione con cui il Tribunale del Riesame ha contrastato le obiezioni sollevate dalla difesa ribadendo la natura indiziaria delle circostanze di fatto analiticamente richiamate nel provvedimento impugnato.

La difesa, infatti, aveva sostenuto che nessuna di queste circostanze si prestasse ad una lettura univoca in termini di conferma della ipotesi accusatoria potendo (ed a suo avviso dovendo) più correttamente essere considerata in termini quantomeno “neutri”.

Dal canto suo, i giudici del riesame hanno invece sostenuto che la lettura combinata di tutti gli elementi indiziari acquisiti consente di fondare un giudizio di sussistenza del “fumus” in ordine al reato ipotizzato nella contestazione provvisoria come idoneo a giustificare il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Come è evidente, tuttavia, le censure articolate con il ricorso si collocano senz’altro al di fuori del perimetro proprio del vizio di violazione di legge che, come pure si è chiarito, è l’unico suscettibile di essere denunziato in questa sede nei confronti della ordinanza impugnata.

4. Di qui, pertanto, la inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

medico di famiglia truffa iperprescrizione farmaci oppioidi

15/06/2020 n. 18203 - Sez.II(ud. 06/02/2020, dep. 15/06/2020)

1. Con provvedimento del 16-24.10.2019 il Tribunale di Cosenza ha vagliato il ricorso per riesame proposto nell’interesse di P.A. respingendo il gravame e confermando il decreto con cui il GIP aveva disposto il sequestro preventivo (finalizzato alla confisca per equivalente) della complessiva somma di Euro 175.947,96 ovvero, in caso di impossibilità, dei beni nella disponibilità dell’indagato da individuarsi in sede di esecuzione del provvedimento e per un valore pari a quello suindicato; in particolare, il GIP aveva ravvisato il “fumus” del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato che sarebbe stata commessa in concorso con G.F.S.M., medico di famiglia, a seguito della abusiva prescrizione e consegna del farmaco Oxycontin, a base di oppioidi ed avente effetti stupefacenti simili a quelli dell’eroina;

2. ricorre per cassazione il difensore di P.A. lamentando:

2.1 mancanza di motivazione: rileva, in particolare, che il Tribunale del Riesame è venuto meno al suo compito di verificare la sussistenza del “fumus” alla luce delle argomentazioni difensive contenute nella istanza di riesame e nella memoria depositata unitamente alla documentazione allegata; richiama, quindi, le censure articolate in quella sede con riguardo: ai numerosissimi contatti con il M. relativi al prelievo, sempre autorizzato, di farmaci che il farmacista ha l’obbligo di consegnare; al fatto che il M. fosse un intermediario, circostanza assolutamente coerente con la natura del farmaco che, per l’appunto, suppone normalmente la incapacità del diretto interessato di provvedere di persona al suo ritiro; al fatto che i farmaci venissero consegnati al domicilio, elemento del tutto irrilevante e neutro atteso che il D.Lgs. 3 ottobre 2009, n. 153, art. 1, comma 2, lett. a) disciplina proprio questa modalità di consegna; alla affermazione, del tutto infondata, secondo cui sarebbero stati proprio i farmacisti, più volte, a sollecitare il M. ad acquisire le ricette ed a segnalare la disponibilità del farmaco.

Sottolinea che, in ogni caso, la P. non era in alcun modo consapevole della insussistenza dei presupposti per la regolare prescrizione del farmaco.

Rileva che, per ciascuna delle obiezioni difensive, la risposta fornita dal Tribunale è in realtà inconsistente ovvero comunque non coerente con l’argomentazione contrastata oltre che carente nel momento in cui richiama il contenuto di atti di indagine non riportati; aggiunge che non era stata depositata alcuna consulenza tecnica di parte ma solo un riepilogo contabile per dimostrare come l’utile correlato alla prescrizione di quei farmaci fosse assolutamente irrisorio rispetto a quello annuale della farmacia P., onde fornire un elemento di valutazione del compendio indiziario che sarebbe stato acquisito nel corso delle indagini.

Analogamente, nessun elemento a carico del ricorrente poteva essere desunto dal rinvenimento dei farmaci nella abitazione del M. risultando la motivazione, sul punto, del tutto apparente.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto articolato su censure non consentite in questa sede.

1. Il Tribunale ha ricordato, in primo luogo, che P.A. risponde del solo delitto di cui al capo 11) della rubrica provvisoria, ovvero della truffa aggravata che sarebbe stata commessa in concorso con la madre, P.A., titolare della farmacia di cui il medesimo è dipendente, e con il fratello P. (oltre che con G.F.S.M., B.G. e M.F.); in particolare, il G., medico convenzionato con il SSN, avrebbe prescritto abusivamente al B. farmaci contenenti sostanze stupefacenti del tipo ossicodone, in assenza dei necessari presupposti previsti dall’AIFA (patologie caratterizzate da dolore severo, non rispondenti ai comuni trattamenti antalgici, nella fase terminale, conseguenti soprattutto a patologie neoplastiche o degenerative); il B. avrebbe a sua volta sollecitato la compilazione delle predette prescrizioni e le avrebbe presentate presso varie farmacie per il tramite, nel caso che ci occupa, di M.F.; il M., dal canto suo, avrebbe ricevuto le prescrizioni presentandole alla farmacia P.; la P., infine, avrebbe dispensato i farmaci in violazione di quanto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 45 presentando inoltre tali prescrizioni per il successivo rimborso; in particolare, la farmacia ” P.” avrebbe dispensato 2221 confezioni per il periodo compreso tra il 25.6.2015 ed il 30.12.2018 per un importo complessivo pari ad Euro 175.947,96, con vantaggio ingiusto per il B., il M. e loro stessi e con correlativo danno economico per il SSN.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente il “fumus” del delitto ipotizzato nonchè, per altro verso, il “periculum in mora” rilevando che, in ogni caso, il sequestro è consentito in forza della confiscabilità del profitto dei reati di truffa aggravata per i quali si procede; ha inoltre ribadito la sequestrabilità delle somme non potendosi certamente ritenere che esse appartengano a soggetti estranei al reato di truffa quand’anche nella sua condotta iniziale ascrivibile al G., al B. ed al M..

I giudici del riesame hanno sottolineato che la vicenda è relativa a numerosissime confezioni di Oxycontin, farmaco oppioide per le cure palliative del dolore, composto da una molecola (l’ossicodone) simile a quella dell’eroina ed in grado di innescare forme di dipendenza analoghe; hanno precisato che la quantità delle confezioni non poteva sfuggire ai farmacisti e che la loro consapevolezza circa il carattere abusivo delle prescrizioni ben poteva essere desunto dalla violazione della normativa in materia di modalità di somministrazione e controllo richiamando, a tal proposito, il D.M. Salute 18 settembre 1997, art. 3.

Il Tribunale ha fatto riferimento alla disciplina di cui al D.P.R. n. 3029 del 1990 quanto ai poteri di verifica, controllo della conformità delle prescrizioni “off-label” tenuto anche conto delle previsioni contenute nel D.L. 17 febbraio 1998, n. 23 (convertito in L. 8 aprile 1998, n. 24).

Ciò non di meno ha rilevato che nel corso delle indagini era emerso che erano state consegnate, al medesimo destinatario, quantità di farmaci di gran lunga eccedenti il limite massimo di terapia (pari a trenta giorni) di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 45, comma 4 bis.

Con specifico riferimento al capo 11) della incolpazione provvisoria, ha quindi fatto riferimento all’accertamento tecnico eseguito ai sensi dell’art. 369 c.p.p. segnalando che il B. non era portatore di alcuna patologia tale da rendere necessario l’uso del farmaco in questione richiamando anche il tenore delle conversazioni intercettate all’interno dello studio medico del Dott. G..

Gli elementi indiziari a carico dei due fratelli C. e della P. erano stati inoltre rinvenuti nei numerosissimi e del tutto ingiustificati contatti telefonici da costoro intrattenuti con il M., persona diversa dal destinatario delle prescrizioni e presso la cui abitazione venivano consegnati i farmaci; ha sottolineato che erano sempre i farmacisti a contattare il M. per sollecitare la consegna di altre prescrizioni segnalando di volta in volta la disponiblità del medicinale che sarebbe stato rinvenuto in grandi quantità presso la stessa abitazione del M. il quale aveva in quella occasione riferito che esse provenivano, per l’appunto, dalla farmacia P. in forza di ricette mediche redatte dal Dott. G. ed intestate al B..

2.1 Fatta questa premessa in punto di fatto, non è inutile ricordare che il ricorso per Cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr., in tal senso, tra le tante, Cass. Pen., 2, 14.3.2017 n. 18.951, Napoli; Cass. Pen., 6, 10.1.2013n. 6.589, Gabriele).

Né è possibile invocare il vizio di violazione di legge (sotto il profilo, ad esempio, dell’art. 192 c.p.p.), quando il ricorso sia fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio (cfr., in tal senso, tra le tante, Cass. Pen., 6, 8.3.2016 n. 13.442, De Angelis; Cass. Pen., 6, 30.9.2013 n. 43.963, P.C. in proc. Basile).

Né, d’altro canto, è in grado di integrare il vizio di violazione di legge l’omessa valutazione di una memoria difensiva che, di per sé, non determina alcuna nullità, potendo al più influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (cfr., in tal senso, Cass. Pen., 5, 21.9.2017 n. 51.117, Mazzaferro; Cass. Pen., 5, 17.1.2019 n. 24.437, Armeli; Cass. Pen., 3, 8.5.2019 n. 23.097, Capezzuto; Cass. Pen., 4, 9.1.2018 n. 18.385, Mascaro).

2.2 Per altro verso, si è più volte ribadito che in sede di riesame del sequestro il Tribunale deve stabilire l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, astraendo non già dalla concreta rappresentazione dei fatti come risultano allo stato degli atti, ma solo ed esclusivamente dalla necessità di ulteriori acquisizioni e valutazioni probatorie sicchè l’accertamento della sussistenza del “fumus commissi delicti” va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipizzata dalla norma incriminatrice (cfr., Cass. Pen., 3, 7.5.2006n. 33.873, Moroni; Cass. Pen., 6, 27.1.2004 n. 12.118, Piscopo; Cass. Pen., 3, 24.3.2011 n. 15.177, PM in proc. Rocchino; Cass. Pen., 5, 18.4.2011 n. 24.589, Misseri; Cass. Pen., 3, 10.3.2015 n. 15.254, Previtero; Cass. Pen., 2, 5.5.2016 n. 25.320, PM in proc. Bulgarella; conf., ancora, Cass. Pen., 1, 30.1.2018 n. 18.491, Armeli, secondo cui, ai fini della legittima adozione del sequestro preventivo non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il “fumus commissi delicti”, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato; Cass. Pen., 2, 28.1.2014n. 5.656, Zagarrio; Cass. Pen., 2, 11.12.2013 n. 2.248, Mirarchi).

3. Alla luce dei principi sopra appena richiamati, non può che concludersi nel senso della inammissibilità del ricorso in quanto le censure articolate nell’interesse del C. si risolvono, in realtà, nella contestazione della adeguatezza, congruità ovvero sufficienza della motivazione con cui il Tribunale del Riesame ha contrastato le obiezioni sollevate dalla difesa ribadendo la natura indiziaria delle circostanze di fatto analiticamente richiamate nel provvedimento impugnato.

La difesa, infatti, aveva sostenuto che nessuna di queste circostanze si prestasse ad una lettura univoca in termini di conferma della ipotesi accusatoria potendo (ed a suo avviso dovendo) più correttamente essere considerata in termini quantomeno “neutri”.

Dal canto suo, i giudici del riesame hanno invece sostenuto che la lettura combinata di tutti gli elementi indiziari acquisiti consente di fondare un giudizio di sussistenza del “fumus” in ordine al reato ipotizzato nella contestazione provvisoria come idoneo a giustificare il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Come è evidente, tuttavia, le censure articolate con il ricorso si collocano senz’altro al di fuori del perimetro proprio del vizio di violazione di legge che, come pure si è chiarito, è l’unico suscettibile di essere denunziato in questa sede nei confronti della ordinanza impugnata. è

4. Di qui, pertanto, la inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

cancellare i dati aziendali da un computer aziendale, formattare hard disk e farne copia è appropriazione indebita

10/04/2020 n. 11959 - Cassazione penale sez. II -(ud. 07/11/2019, dep. 10/04/2020)

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Torino con sentenza in data 14 giugno 2018 ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino, in data 30 giugno 2017, nei confronti di C.A., assolvendo l’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. e affermandone la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 646 c.p. (solo per una parte dei beni indicati nell’originaria imputazione), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, con revoca delle precedenti statuizioni civili che venivano sostituite con la condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e con la concessione di una provvisionale, in riferimento alla riconosciuta responsabilità per il solo delitto di appropriazione indebita.

2. La vicenda oggetto del processo riguardava le condotte poste in essere dall’imputato, già dipendente della società Gabiano s.r.l.; dopo essersi dimesso da quella società veniva assunto da una nuova compagine societaria, di recente costituzione, operante nello stesso settore; prima di presentare le dimissioni l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, così provocando il malfunzionamento del sistema informatico aziendale e impossessandosi dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell’imputato su computer da lui utilizzati.

3.1. Propone ricorso per cassazione la difesa dell’imputato deducendo, con il primo motivo di ricorso, violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver ritenuto in modo erroneo che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essi essere qualificati come cose mobili.

3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata, per mancanza e manifesta illogicità, quanto alla prova dell’esistenza dei dati informatici, oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato; la sentenza aveva fatto riferimento non a elementi di prova acquisiti al processo, ma a mere ipotesi e illazioni non supportate da alcun riferimento oggettivo.

4.1. Ha proposto ricorso la difesa della parte civile, deducendo con il primo motivo vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, in relazione alla pronuncia di assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p.; la sentenza non aveva tenuto conto del dato, risultante dall’istruttoria, riguardante la cancellazione di numerosi messaggi di posta elettronica aziendale, che avevano reso impossibile il loro recupero compromettendo il funzionamento del sistema, così come dell’interruzione della procedura di back up, conseguente alla cancellazione di quei dati; la sentenza non aveva osservato l’obbligo di motivazione rafforzata, necessario per il ribaltamento della sentenza di condanna pronunciata in primo grado.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver escluso la sentenza la responsabilità dell’imputato, in relazione all’appropriazione indebita del data base esistente sul computer aziendale, affermando che non fosse stata raggiunta la prova della memorizzazione del data base sul computer aziendale e che non fosse stata richiesta formalmente la restituzione di quello specifico insieme di dati informatici.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato è infondato.

La questione che la Corte è chiamata ad affrontare concerne la possibilità di qualificare i dati informatici, in particolare singoli files, come cose mobili, ai sensi delle disposizioni della legge penale e, specificamente, in relazione alla possibilità di costituire oggetto di condotte di appropriazione indebita.

1.2.1. Su questo tema la giurisprudenza di legittimità ha già avuto occasione di pronunciarsi, pur se non con specifico riguardo all’ipotesi del delitto di appropriazione indebita di dati informatici.

1.2.2. Con alcune pronunce è stato escluso che i files possano formare oggetto del reato di cui all’art. 624 c.p., osservando che, rispetto alla condotta tipica della sottrazione, la particolare natura dei documenti informatici rappresenta un ostacolo logico alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice, ad esempio nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, poichè in tale ipotesi non si realizza la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore (Sez. 4, n. 44840 del 26/10/2010, Petrosino, Rv. 249067; Sez. 4, n. 3449 del 13/11/2003, dep. 2004, Grimoldi, Rv. 229785).

Analogamente, con riguardo al delitto di appropriazione indebita, si è più volte affermato che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale (Sez. 2, n. 33839 del 12/07/2011, Simone, Rv. 251179, relativa all’ipotesi dell’agente assicurativo che non versi alla società di assicurazioni, per conto della quale operi, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti ma a lui non versati, trattandosi di crediti di cui si abbia disponibilità per conto d’altri), salvo che la condotta abbia ad oggetto i documenti che rappresentino i beni immateriali (Sez. 5, n. 47105 del 30/09/2014, Capuzzimati, Rv. 261917, che ha ravvisato il delitto nella stampa dei dati bancari di una società – in sè bene immateriale – in quanto trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di home banking in documenti; Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani, Rv. 247270, relativa all’appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto, riprodotti su documenti di cui l’imputato si era indebitamente appropriato; identico principio è stato affermato in relazione al delitto di ricettazione di supporti contenenti dati informatici: Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, Tronchetti Provera, Rv. 267162),

1.2.3. Solo di recente è stata affermata la possibilità che oggetto della condotta di furto possono essere anche i files (Sez. 5, n. 32383 del 19/02/2015, Castagna, Rv. 264349, relativa ad una fattispecie concernente la condotta di un avvocato che, dopo aver comunicato la propria volontà di recedere da uno studio associato, si era impossessato di alcuni “files”, cancellandoli dal “server” dello studio, oltre che di alcuni fascicoli processuali in ordine ai quali aveva ricevuto in via esclusiva dai clienti il mandato difensivo, al fine di impedire agli altri colleghi dello studio un effettivo controllo sulle reciproche spettanze), senza peraltro alcuno specifico approfondimento della questione.

1.3. Gli argomenti che legano tra loro le prime pronunce ricordate, espressive di un orientamento sufficientemente uniforme, traggono spunto in primo luogo, quanto alla specificità del delitto di appropriazione indebita, dal tenore testuale della norma incriminatrice che individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; si richiamano alla nozione di “cosa mobile” nella materia penale, nozione caratterizzata dalla necessità che la cosa sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sè oppure perchè può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani, cit.); ne fanno conseguire l’esclusione delle entità immateriali – le opere dell’ingegno, le idee, le informazioni in senso lato – dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione, considerata anche l’unica espressa disposizione normativa che equipara alle cose mobili le energie (previsione contenuta nell’art. 624 c.p., comma 2).

1.4. La Corte non ignora l’esistenza di ragioni di ordine testuale, sistematico e di rispetto dei principi fondamentali di stretta legalità e tassatività delle norme incriminatrici, che potrebbero contrastare la possibilità di qualificare i files come beni suscettibili di rappresentare l’oggetto materiale dei reati contro il patrimonio.

Occorre, però, approfondire la valutazione considerando la struttura del file, inteso quale insieme di dati numerici tra loro collegati che non solo nella rappresentazione (grafica, visiva, sonora) assumono carattere, evidentemente, materiale; va, altresì, presa in esame la trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dalla rete Internet;

allo stesso tempo, occorre interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio.

1.5.1. Nel sistema del codice penale la nozione di cosa mobile non è positivamente definita dalla legge, se non dalla ricordata disposizione che equipara alla cosa mobile l’energia elettrica e ogni altra energia economicamente valutabile (“Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico”: art. 624 c.p.p., comma 2). Per altro, le più accreditate correnti dottrinali e lo stesso formante giurisprudenziale hanno delimitato la nozione penalistica di “cosa mobile” attraverso l’individuazione di alcuni caratteri minimi, rappresentati dalla materialità e fisicità dell’oggetto, che deve risultare definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro (così rendendo possibile una delle caratteristiche tipiche delle condotte di aggressione al patrimonio, che è costituita dalla sottrazione della cosa al controllo del proprietario o del soggetto titolare di diritti sulla cosa).

1.5.2. Secondo le nozioni informatiche comunemente accolte (per tutte, le specifiche ISO), il file è l’insieme di dati, archiviati o elaborati (ISO/IEC 23821:1993), cui sia stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi; si tratta della struttura principale con cui si archiviano i dati su un determinato supporto di memorizzazione digitale. Questa struttura possiede una dimensione fisica che è determinata dal numero delle componenti, necessarie per l’archiviazione e la lettura dei dati inseriti nel file. Le apparecchiature informatiche, infatti, elaborano i dati in essi inseriti mediante il sistema binario, classificando e attribuendo ai dati il corrispondente valore mediante l’utilizzo delle cifre binarie (0 oppure 1: v. ISO/IEC 2382:2015 – 2121573).

Le cifre binarie (bit, dall’acronimo inglese corrispondente all’espressione binary digit) rappresentano l’unità fondamentale di misura all’interno di un qualsiasi dispositivo in grado di elaborare o conservare dati informatici; lo spazio in cui vengono collocati i bit è costituito da celle ciascuna da 8 bit, denominata convenzionalmente byte (ISO/IEC 2382:2015 – 2121333). Com’è stato segnalato dalla dottrina più accorta che si è interessata di questa tematica, “tali elementi non sono entità astratte, ma entità dotate di una propria fisicità: essi occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l’eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo”.

1.5.3. Questi elementi descrittivi consentono di giungere ad una prima conclusione: il file, pur non potendo essere materialmente percepito dal punto di vista sensoriale, possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i files possono essere conservati e elaborati. L’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non è, dunque, condivisibile; al contrario, una più accorta analisi della nozione scientifica del dato informatico conduce a conclusioni del tutto diverse.

1.5.4. Resta, insuperabile, la caratteristica assente nel file, ossia la capacità di materiale apprensione del dato informatico e, quindi, del file; ma occorre riflettere sulla necessità del riscontro di un tale requisito – non desumibile dai testi di legge che regolano la materia – perchè l’oggetto considerato possa esser qualificato come “cosa mobile” suscettibile di divenire l’oggetto materiale delle condotte di reato e, in particolare, di quella di appropriazione.

1.6. Tra i presupposti che la tradizione giuridica riconosce come necessari per ravvisare le condotte di sottrazione e impossessamento (o appropriazione) di cose mobili, il criterio della necessaria detenzione fisica della cosa è quello che desta maggiori perplessità. Se la ratio, sottesa alla selezione delle classi di beni suscettibili di formare oggetto delle condotte di reato di aggressione all’altrui patrimonio, è agevolmente individuabile nella prospettiva della correlazione delle condotte penalmente rilevanti (essenzialmente, quelle che mirano alla sottrazione della disponibilità di beni ai soggetti che siano titolari dei diritti di proprietà o di possesso sulle cose considerate) all’attività diretta a spogliare il titolare del bene dalla possibilità di esercitare i diritti connessi all’utilizzazione del bene, è chiaro che la sottrazione (violenta o mediante attività fraudolente o, comunque, dirette ad abusare della cooperazione della vittima) debba presupporre in via logica la disponibilità, da parte dei soggetti titolari, dei beni su cui cade la condotta penalmente rilevante; ma anche in questo contesto deve prendersi atto che il mutato panorama delle attività che l’uomo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche determina la necessità di considerare in modo più appropriato i criteri classificatori utilizzati per la definizione di nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.

1.7. In questa prospettiva, dunque, si è giunti da parte delle più accorte opinioni dottrinali – in modo coerente con la struttura dei fatti tipici considerati dall’ordinamento (caratterizzati dall’elemento della sottrazione e dal successivo impossessamento) e dei beni giuridici che l’ordinamento intende tutelare sanzionando le condotte contemplate nel titolo XIII del codice penale – a rilevare che “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.

A questo riguardo va considerata la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete Internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, oppure per essere “custodito” in ambienti “virtuali” (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici); caratteristiche che confermano il presupposto logico della possibilità del dato informatico di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione.

In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in sè considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo.

1.8.1. Occorre, infine, verificare se l’interpretazione proposta nei termini su indicati si ponga in contrasto con i principi volti a garantire l’intervento della legge penale quale extrema ratio, subordinando l’applicazione della sanzione penale al principio di legalità, nel suo principale corollario del rispetto del principio di tassatività e determinatezza.

1.8.2. L’analisi delle questioni interpretative sinora condotta mette in luce che sia il profilo della precisione linguistica del contenuto della norma (con riferimento all’indicazione della nozione di “cosa mobile”), sia quello della sua determinatezza (intesa come necessità che “nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili”, non potendosi “concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili”: Corte Cost., n. 96 del 1981), non sono esposti a pericolo di compromissione. Ciò che va soppesato è il rispetto del principio di tassatività, che governa l’attività interpretativa giurisdizionale affinchè l’applicazione della fattispecie incriminatrice non avvenga al di fuori dei casi espressamente considerati.

In ordine al contenuto di tale principio, la Corte costituzionale ha ancora di recente ricordato che “l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (Corte Cost., n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004). Ciò che rileva, come insegna il Giudice delle leggi, è che “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.” (Corte Cost., n. 327 del 2008).

1.8.3. L’interpretazione della nozione di cosa mobile, agli effetti della legge penale, fondata sullo specifico carattere della cosa, che consente alla stessa di formare oggetto sia di condotte di sottrazione alla disponibilità del legittimo titolare, sia di impossessamento da parte del soggetto responsabile della condotta illecita, risulta in sintonia con l’unico dato testuale che la legge penale riproduce nella definizione della categoria dei beni suscettibili di costituire l’oggetto delle condotte tipiche dei delitti contro il patrimonio.

Indiscusso il valore patrimoniale che il dato informatico possiede, in ragione delle facoltà di utilizzazione e del contenuto specifico del singolo dato, la limitazione che deriverebbe dal difetto del requisito della “fisicità” della detenzione non costituisce elemento in grado di ostacolare la riconducibilità del dato informatico alla categoria della cosa mobile.

1.8.4. A questo riguardo, va considerato che anche rispetto al denaro, che la legge equipara alla cosa mobile in più disposizioni e, quel che rileva in questa sede, nella norma incriminatrice dell’art. 646 c.p., si pongono in astratto le medesime questioni sollevate in relazione ai dati informatici. Si intende far riferimento alla circostanza per cui anche il denaro (che pur è fisicamente suscettibile di diretta apprensione materiale), nella sua componente espressiva del valore di scambio tra beni, è suscettibile di operazioni contabili, così come di trasferimenti giuridicamente efficaci, anche in assenza di una materiale apprensione delle unità fisiche che rappresentano l’ammontare del denaro oggetto di quelle operazioni giuridiche. Le operazioni realizzate mediante i contratti bancari, attraverso le disposizioni impartite dalle parti del rapporto, un tempo esclusivamente scritte e riprodotte su documenti cartacei, ed attualmente eseguite attraverso disposizioni inviate in via telematica, oggi così come in passato consentono di trasferire, senza la sua materiale apprensione, il denaro che forma oggetto del singole disposizioni.

Allo stesso tempo, è pacifico che le condotte dirette alla sottrazione, ovvero all’impossessamento del denaro, possono esser realizzate anche senza alcun contatto fisico con il denaro, attraverso operazioni bancarie o disposizioni impartite, anche telematicamente; ciò che non impedisce certo di ravvisare in tali condotte le ipotesi di reato corrispondenti.

1.8.5. Infine, dal punto di vista dell’effettiva realizzazione, attraverso le condotte appropriative di dati informatici, dell’effetto di definitiva sottrazione del bene patrimoniale al titolare del diritto di godimento ed utilizzo del bene stesso, le ipotesi di appropriazione indebita possono differenziarsi dalla generalità delle ipotesi di “furto di informazioni”, in cui si è frequentemente rilevato che il pericolo della perdita definitiva da parte del titolare dei dati informatici è escluso in quanto attraverso la sottrazione l’agente si procura sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nel dato informatico, che resta comunque nella disponibilità materiale e giuridica del titolare (valutazione che aveva indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della L. 23 dicembre 1993, n. 547 – recante modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica -, ad escludere che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l’art. 624 c.p. ” pur nell’ampio concetto di “cosa mobile” da esso previsto”, in quanto “la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti”: così la relazione al relativo disegno di L. n. 2773). Infatti, ove l’appropriazione venga realizzata mediante condotte che mirano non solo all’interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtù di accordi negoziali e convenzioni che legittimano la disponibilità temporanea di quei dati, con obbligo della successiva restituzione, ma altresì a sottrarre definitivamente i dati informatici mediante la loro cancellazione, previamente duplicati e acquisiti autonomamente nella disponibilità del soggetto agente, si realizza il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a far parte in via esclusiva del patrimonio del responsabile della condotta illecita.

1.9. Ritiene, pertanto, la Corte che nell’interpretazione della nozione di cosa mobile, contenuta nell’art. 646 c.p., in relazione alle caratteristiche del dato informatico (file) come sopra individuate, ricorre quello che la Corte costituzionale ebbe a definire il “fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali”, situazione in cui ” il rinvio, anche implicito, ad altre fonti o ad esterni contrassegni naturalistici non viol(a) il principio di legalità della norma penale – ancorché si sia verificato mutamento di quelle fonti e di quei contrassegni rispetto al momento in cui la legge penale fu emanata – una volta che la reale situazione non si sia alterata sostanzialmente, essendo invece rimasto fermo lo stesso contenuto significativo dell’espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie ed il disvalore della figura criminosa. In tal caso l’evolversi delle fonti di rinvio viene utilizzato mediante interpretazione logico-sistematica, assiologica e per il principio dell’unità dell’ordinamento, non in via analogica” (Corte Cost. n. 414 del 1995).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, va quindi affermato il seguente principio di diritto: i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.

La sentenza impugnata, pur con diversa motivazione, ha applicato in modo corretto la disposizione che si assume violata, sicché il motivo risulta infondato.

1.10. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso infondato.

Il dato storico dell’appropriazione di files già esistenti sul personal computer aziendale in uso all’imputato è stato riconosciuto da entrambe le sentenze di merito (avendo il Tribunale poi escluso la responsabilità del ricorrente in ragione dell’impossibilità di ravvisare la qualifica di “cose mobili” quanto ai files oggetto della condotta).

La motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la prova dell’appropriazione limitatamente ad alcuni files (30.000) relativi ad attività aziendali e rinvenuti su un personal computer portatile in uso all’imputato, presso la nuova sede di lavoro, risulta adeguata e logicamente coerente sia in relazione al dato della riferibilità dei files all’attività aziendale, sia alla loro collocazione sul personal computer aziendale affidato all’imputato per lo svolgimento dell’attività di lavoro, sia infine quanto al profilo dell’intervenuta appropriazione dei dati. La decisione ha considerato, evidentemente nella prospettiva della valutazione logica degli elementi di prova raccolti ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 2, il rilevantissimo numero dei files rinvenuti, la loro riferibilità all’attività aziendale (desumibile dalla presenza della parola chiave che la p.g. aveva utilizzato per individuarli all’interno del pc portatile utilizzato dall’imputato, nell’ambito dell’attività di lavoro presso la nuova società ove era stato assunto), l’assenza di dati e informazioni che potessero ricondurre i files ad una diversa origine, l’utilizzo da parte dell’imputato del personal computer aziendale per svolgere l’attività di lavoro e, infine, la cancellazione dei dati preesistenti sul personal computer prima della sua restituzione all’azienda, all’atto delle dimissioni senza preavviso da parte del ricorrente. Infine, per quanto concerne il dato dell’ipotizzata assenza di una richiesta specifica di restituzione dei files, avendo la società Gabiano formulato unicamente la richiesta di restituzione della “copia dell’hard disk” eseguita dall’imputato, la sentenza – al pari di quella di primo grado – ha ravvisato il contenuto sostanziale di quella richiesta che, messa in relazione alla restituzione del personal computer privato di tutti i dati aziendali, non poteva assumere altro significato che quello della volontà di rientrare in possesso di tutti i dati attinenti all’attività aziendale, affidati all’imputato e che non erano stati restituiti una volta interrotto il rapporto di lavoro.

Nè è fondata la censura che denuncia la contraddittorietà della motivazione, per aver la Corte d’appello escluso, nella stessa decisione, l’esistenza della prova che altri dati informatici (e, in particolare, la copia integrale del data base della società Gabiano) fossero memorizzati sul personal computer in uso all’imputato; l’esclusione della prova, infatti, è stata desunta nella sentenza dall’esistenza di indici positivi che dimostravano come la copia del data base fosse stata eseguita sui sistemi aziendali, e non attraverso il personal computer (v. pag. 27).

2.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse della parte civile è fondato.

La riforma integrale della decisione di primo grado, che aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato per il contestato delitto di cui all’art. 635 quater c.p., imponeva ai giudici di appello di confrontarsi “con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l’integrale riforma” (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327), procedendo così a “delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e (…) confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza” (Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638) secondo il modello di quella che è definita la struttura della motivazione rafforzata, con cui si dà conto delle puntuali ragioni a base delle difformi conclusioni assunte (Sez. 3, n. 29253 del 05/05/2017, C, Rv. 270149; Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M, Rv. 271110; Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016, dep. 2017, Mangano, Rv. 268948).

La sentenza del Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato sulla scorta delle valutazioni probatorie che conducevano a ritenere l’esistenza, nel personal computer aziendale (in uso al ricorrente e che costui restituì, all’atto delle dimissioni, formattato e senza più traccia dei dati in precedenza registrati) di informazioni, dati e programmi indispensabili per il funzionamento del sistema informatico della società Gabiano, considerando altresì che non erano più presenti i dati della posta aziendale utilizzata dal ricorrente per fornire “importanti indicazioni operative per la funzionalità del sistema” (pag. 20 della sentenza del Tribunale) e che, in coincidenza con le dimissioni del ricorrente, aveva cessato di funzionare il sistema di back up del data base, cagionando così il danneggiamento del sistema informatico.

La Corte d’appello, nel ribaltare il giudizio espresso dal Tribunale, ha fondato la propria motivazione sul profilo dell’assenza di prova dell’esatto contenuto dei dati, programmi e informazioni che erano originariamente collocati sul personal computer in uso al ricorrente, circostanza ritenuta dirimente perchè ostativa all’affermazione dell’idoneità della cancellazione di quei dati – non conosciuti quanto alle loro caratteristiche – al danneggiamento del sistema informatico; ma non ha considerato che quella valutazione non poteva essere estesa automaticamente ai dati della posta aziendale di cui ha trattato la sentenza di primo grado (e che, logicamente, dovevano essere presenti sul computer aziendale utilizzato dal ricorrente) e non ha svolto alcuna considerazione in ordine all’ulteriore profilo del mancato funzionamento della procedura di back up a far data dalle dimissioni del ricorrente.

2.2. Il secondo motivo del ricorso è generico e, comunque, manifestamente infondato.

Come indicato nell’esame del secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse dell’imputato (v. supra, p. 1.10.), la copia del data base che si assume oggetto della condotta appropriativa fu creata sui sistemi aziendali della società e non riproducendo dati già esistenti nel personal computer, sicchè correttamente la Corte d’appello ha escluso che quei dati potessero formare oggetto di appropriazione da parte dell’imputato difettando il necessario presupposto dell’affidamento della cosa a titolo di possesso da parte del proprietario del bene.

3. Al rigetto del ricorso dell’imputato consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; per ciò che riguarda l’annullamento della sentenza, in parziale accoglimento del ricorso della parte civile, va disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p. il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche in ordine alle liquidazione delle spese sostenute dalle parti nel grado di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso dell’imputato che condanna al pagamento delle spese processuali.

Con riferimento al ricorso della parte civile nella parte riguardante il reato di cui all’art. 635 quater c.p., annulla la sentenza impugnata rinviando al giudice civile competente per valore in grado di appello al quale demanda anche il regolamento tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso della parte civile.

Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal relatore cons. Dott. Di Paola, è sottoscritto dal solo Presidente del collegio per impedimento alla firma dell’estensore ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2020

responsabilità infermiere struttura privata per manomissione cartella infermieristica

10/03/2020 n. 9393 - Cassazione penale - sez. V (ud. 16/12/2019, dep. 10/03/2020)

L’infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Due in infermieri hanno falsificato la scheda infermieristica indicando di avere effettuato il controllo dei valori della diuresi e delle verifiche posturali.

Il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

L ‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Questo anche se operano in struttura privata – Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato .Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL , ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del Pubblico Ufficiale.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p.

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linee guida e buone pratice - differenze - responsabilità per errato passaggio informativo - sottovalutazione del caso - mancata diagnosi differenziale

22/06/2018 n. 47748 - Cassazione penale sez. IV

1. F.L., imputato, e le parti civili, Anna A. e Ivana C., ricorrono per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, rispettivamente nella parte in cui è stata confermata la penale responsabilità del F. e nella parte in cui è stata assolta Z.E., in ordine al reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perchè, in cooperazione tra loro, in qualità di medici della Divisione clinicizzata di cardiologia dell’Ospedale civile maggiore di (OMISSIS), omettendo la tempestiva identificazione della patologia (dissecazione aortica) da cui era affetto A.G., paziente seguito dal F. nella notte tra il (OMISSIS) e visitato dalla Z. alle ore 9 del (OMISSIS), e omettendo altresì, conseguentemente, l’effettuazione di adeguato intervento chirurgico, cagionavano la morte del paziente, verificatasi il (OMISSIS), per tamponamento cardiaco da rottura di dissecazione del segmento prossimale dell’aorta.

2. F.L. deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto i giudici di merito hanno dato per scontata l’esistenza di sintomi e di dolori che, dati documentali alla mano, non erano riscontrabili. Il ricorrente effettuò personalmente ecografia cardiaca, puntualmente descritta in cartella clinica, e non si spinse oltre, dato che in quel momento la diagnosi era unica e la terapia impostata aveva prodotto effetti positivi, con la cessazione del dolore toracico e la stabilizzazione dell’ECG, della pressione sanguigna e di altri parametri vitali. L’omessa visione diretta delle lastre della radiografia toracica non era operativamente possibile poichè al reparto richiedente perveniva il solo referto redatto dal radiologo, in quanto la lastra veniva materialmente trasmessa solo nei giorni successivi e pertanto, per di più nel giorno di Pasqua, era umanamente impossibile pretendere la trasmissione del supporto visivo. Inoltre, in forza del principio di affidamento, lo specialista deve riconoscere completa attendibilità al referto emesso dal collega di altra branca, che non era certamente viziato in maniera eclatante. Non vi fu dunque alcuna sottovalutazione di sintomi nè alcuna negligenza nell’applicazione dei protocolli di intervento, essendosi mantenuta ferma la diagnosi di sindrome coronarica acuta, che in quel momento non aveva alcuna alternativa e che appariva confermata dal buon esito apparente della terapia farmacologica impostata, anche alla luce dello stato totalmente asintomatico del paziente, che aveva visto regredire il dolore retrosternale così come il blocco atriale da cui era affetto. Nè la necessità di una revisione di tale diagnosi avrebbe potuto insorgere a seguito del rilievo, da parte del personale infermieristico, che il paziente aveva dormito poco durante le ultime ore della notte per intolleranza all’allettamento, liberamente interpretata dai periti come esordio di un dolore lombare ascrivibile alla dissecazione aortica in atto, peraltro senza che vi fosse dolore toracico e retrosternale.

2.1. Manca poi il nesso causale tra la condotta e l’evento. Lo stesso perito, prof. G., ha infatti affermato che almeno per le prime sei ore dal ricovero, e quindi fino alle 3 del mattino del (OMISSIS), era legittimo mantenere la diagnosi di ingresso e cioè quella di sindrome coronarica acuta. Infatti il perito ha affermato che se il paziente fosse stato operato entro le prime sei ore dalla comparsa dei sintomi, le probabilità di successo dell’intervento chirurgico sarebbero state stimabili in una percentuale superiore al 90%. Tuttavia le prime sei ore coincidono con il periodo in cui avvenne l’accesso al Pronto soccorso, il ricovero in unità coronarica e l’effettuazione dei primi esami ed è lo stesso perito ad affermare che in tale lasso di tempo era legittimo un approccio attendista. Il perito inoltre aggiunge che a 6-8 ore dall’accesso ospedaliero, avvenuto alle ore 20,18 del (OMISSIS), la dissezione si era estesa a tutta l’arteria. Tale estensione globale avrebbe dovuto essere diagnosticata per mezzo del cosiddetto dolore migrante dal torace alla zona lombare del paziente, trascritto per la prima volta nella cartella infermieristica alle ore 18 del (OMISSIS), quando ormai il turno del ricorrente si era concluso da più di 10 ore. Ancora si afferma che a 6-12 ore dall’esordio dei sintomi le chances di sopravvivenza sarebbero state superiori al 50-60%. Un dato probabilistico che non consente dunque di ritenere che un intervento devastante quale la sostituzione, in urgenza, di un’arteria principale, come l’aorta, avrebbe avuto probabilità di successo.

Dunque anche anticipando la possibilità di diagnosticare la dissecazione alle prime ore del mattino del 13-4, le probabilità di successo di un ipotetico intervento di sostituzione dell’arteria aortica non avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente. Il giudizio controfattuale porta, quindi, a ritenere che non sussista nesso eziologico tra la presunta omissione riscontrata e l’evento.

3. Le parti civili deducono violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la Corte d’appello ha correttamente affermato che pacificamente, sino al momento in cui la situazione precipitò, non era stata formulata, da parte dei sanitari, la diagnosi corretta.

E’ dunque emersa chiaramente una responsabilità comune, ascrivibile a entrambi gli imputati, che, seppur intervenuti in momenti diversi sul paziente, hanno omesso la dovuta diagnosi differenziale, che avrebbe salvato la vita dell’ A.. La Z., infatti, non rivalutò la diagnosi formulata dal collega che l’aveva preceduta, rimanendo invece ferma sull’erronea posizione diagnostica iniziale, nonostante non fosse stata raggiunta la certezza che la patologia alternativa potesse essere esclusa ed anzi fosse possibile escludere la malattia inizialmente diagnosticata. La Z. non sospettò nemmeno la dissezione dell’aorta come causa del violento dolore toracico e degli altri sintomi presentati dal paziente, non interpretando correttamente come negativi per una sindrome coronarica acuta i risultati dell’ECG e non visionando direttamente la lastra toracica.

3.1.Sussiste altresì il nesso causale tra la condotta della Z. e il decesso. I periti hanno chiarito che nelle prime sei ore dall’ingresso la possibilità di salvezza si attestava sul 90%; tra le 6 e le 12 ore le possibilità di salvezza scendevano in un range compreso fra l’88 e l’80%, per ridursi a percentuali comunque non inferiori al 60% per il resto del tempo. Ne deriva che per le prime ore dalla presa in carico da parte della dottoressa Z. le possibilità di salvezza del paziente erano dell’80 -90%. Dunque appare irragionevole che il giudice d’appello abbia ritenuto carente la prova del nesso causale, tanto più che ci si trovava in una struttura ospedaliera di eccellenza e che il paziente era giovane e privo di altre patologie.

3.2. Le censure sono state ribadite e ulteriormente illustrate dalla parte civile, C.I., con memoria depositata il 15 giugno 2018.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il reato è estinto per prescrizione. Tuttavia, agli effetti civili, occorre affrontare le problematiche poste dal ricorso,presentato dal F.. Dalla relativa disamina emergeranno anche le ragioni per le quali non è possibile applicare l’art. 129 cpv. c.p.p..

2. Il primo motivo del ricorso del F. è infondato.

Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva “tenuta”, sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l’accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-62006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l’apprezzamento della logicità della motivazione (ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).

3. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che, secondo la concorde valutazione dei consulenti tecnici della parte civile, del pubblico ministero e dei periti nominati dal giudice, la situazione patologica prospettatasi doveva indurre ad escludere la diagnosticata sindrome coronarica acuta e ad orientarsi per altra patologia, effettuando le indagini strumentali del caso. Viceversa i sanitari si sono arroccati sulla diagnosi iniziale, senza nemmeno ipotizzare la dissezione dell’aorta e quindi senza disporre le indagini strumentali che avrebbero consentito una valutazione più completa ed efficace. Infatti, una valutazione corretta del tracciato dell’ECG, la negatività degli enzimi miocardici e le indicazioni provenienti dall’ecografia e dalla radiografia toracica, piuttosto che confermare la validità della scelta diagnostica adottata, avrebbero dovuto orientare, secondo una buona scienza medica e soprattutto specialistica, per la diagnosi differenziale, imponendo l’adozione di tecniche strumentali di accertamento, quali la TC multistrato o una ecoangiografia, assolutamente routinari e nient’affatto eccezionali, che avrebbero condotto all’individuazione della dissezione dell’aorta. D’altronde, gli accertamenti strumentali effettuati al momento del ricovero non apparivano affatto dirimenti, poichè anzi le relative risultanze imponevano ulteriori approfondimenti, in considerazione dell’ aspecificità del tracciato dell’ECG e della negatività degli enzimi miocardici. Anche la valutazione delle risultanze dell’ecoscopia appare sommaria e volta a confermare piuttosto che a mettere in discussione la diagnosi iniziale, atteso che non è stata esaminata la parte superiore del cuore, l’origine dell’aorta e i tronchi sovraortici, il cui esame avrebbe potuto essere risolutivo nella definizione della corretta diagnosi. Sono poi stati trascurati ulteriori sintomi e cioè la persistenza e la migrazione del dolore, che, in connessione alle risultanze appena evidenziate, avrebbero imposto anch’essi una revisione dell’originaria diagnosi. Viceversa dopo la diagnosi di sindrome coronarica acuta, nulla è stato fatto per verificare e correggere tale giudizio, nonostante il paziente lamentasse dolori lombari resistenti alla terapia antalgica. L’arroccamento sull’iniziale diagnosi ha determinato così la dimissione del paziente dall’UCIC senza che nel diario clinico fosse nemmeno indicata la necessità di ulteriori accertamenti.

Nè si può obiettare che la dissezione dell’aorta costituisce patologia rara e di difficile individuazione, trattandosi oltretutto di un reparto di alta specializzazione, di livello ben superiore alla norma e di alto profilo internazionale. L’impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso Un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.

4. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo sono del tutto aderenti al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo ma anche qualora si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi, ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (Cass., Sez. 4, n. 46412 del 28-10-2008, Rv. 242250). D’altronde, allorchè il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a condurre alla formulazione di una diagnosi differenziale, la condotta è colposa allorquando non si proceda alla stessa e ci si mantenga invece nell’erronea posizione diagnostica iniziale (Cass., Sez. 5, n. 52411 del 4-7-2014, Rv. 261363).

4.1. Occorre però stabilire quale sia il regime giuridico applicabile al caso di specie. Al riguardo, occorre rilevare come dall’epoca in cui si è verificato il fatto, nell’anno 2009, ad oggi si siano succedute ben tre normative. Nel 2009 l’ordinamento non dettava alcuna particolare prescrizione in tema di responsabilità medica. Erano dunque applicabili i principi generali in materia di colpa, alla stregua dei quali il professionistà era penalmente responsabile, ex art. 43 c.p., quale che fosse il grado della colpa.

Era cioè indifferente, ai fini della responsabilità, che il medico versasse in colpa lieve o in colpa grave. Nel 2012 entrò in vigore il decreto-legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito in legge 8 novembre 2012 n. 189 (cosiddetta legge Balduzzi), il quale all’art. 3, comma 1, recitava: “L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attiene alle linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi, resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. E’ poi, di recente, entrata in vigore la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), la quale, all’art. 6, ha abrogato il predetto D.L. n. 158 del 2012, art. 3 e ha dettato l’art. 590 sexies c.p., attualmente vigente. Nel caso di specie, va esclusa l’applicabilità sia del D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 1, che dell’art. 590 sexies c.p.. Per quanto riguarda quest’ultima norma, va, infatti, rilevato come il tenore testuale dell’art. 590 sexies, introdotto dalla L. n. 24 del 2017, nella parte in cui fa riferimento alle linee-guida, sia assolutamente inequivoco nel subordinare l’operatività della disposizione all’emanazione di linee-guida “come definite e pubblicate ai sensi di legge”. La norma richiama dunque la L. n. 24 del 2017, art. 5, che detta, come è noto, un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee- guida. Dunque, in mancanza di linee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui alla L. n 24 del 2017, art. 5, non può farsi riferimento all’art. 590 sexies c.p., se non nella parte in cui questa norma richiama le buone pratiche clinico-assistenziali, rimanendo, naturalmente, ferma la possibilità di trarre utili indicazioni di carattere ermeneutico dall’art. 590 sexies c.p., che, a regime, quando verranno emanate le linee-guida con il procedimento di cui all’art. 5, costituirà il fulcro dell’architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico. Ne deriva che la possibilità di riservare uno spazio applicativo nell’attuale panorama fenomenologico all’art. 590 sexies c.p. è ancorata all’opzione ermeneutica consistente nel ritenere che le linee-guida attualmente vigenti, non approvate secondo il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5, possano venire in rilievo, nella prospettiva delineata dalla norma in esame, come buone pratiche clinico-assistenziali. Opzione ermeneutica non agevole ove si consideri che le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico – assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico-terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche (Cass., Sez. 4, n. 18430 del 5-11-2013, Rv. 261293). Esse consistono dunque nell’indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente (Cass., n. 11493 del 24-12013; Cass., n. 7951 dell’8-10-2013, Rv. 259334) e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi (Sez. U., n. 29 del 21-12-2017): e quindi qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-asssitenziale. Ma anche se volesse accedersi alla tesi, pur non esente da profili di problematicità, dell’equiparazione delle linee- guida attualmente vigenti – non approvate ed emanate attraverso il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5 – alle buone pratiche clinico-assistenziali, previste dall’art. 590 sexies c.p., aprendo così la strada ad un’immediata operatività dei principi dettati da quest’ultima norma, rimarrebbe insuperabile il rilievo secondo cui essa esclude la punibilità soltanto laddove siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida oppure le buone pratiche clinico- assistenziali. E abbiamo poc’anzi visto invece come, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, esse non siano state affatto rispettate, poichè i giudici di merito hanno accertato profili di imperizia, consistenti nella mancata posizione in diagnosi differenziale della dissezione dell’aorta e nell’errata formulazione della diagnosi di sindrome coronarica acuta, nonostante gli esiti delle analisi, per nulla dirimenti. Hanno poi accertato profili di negligenza, consistenti nella omessa esecuzione degli esami indicati dalle linee guida; nella omessa visione diretta delle lastre della radiografia toracica, dimostrative dello sbandamento dell’aorta, e nella omessa esecuzione di una ECO completa, per esaminare la parte superiore del cuore, l’origine dell’aorta e i tronchi sovraortici. Vengono dunque a mancare due dei presupposti fondamentali per l’applicabilità dell’art. 590 sexies c.p. e cioè il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida e la ravvisabilità in via esclusiva di imperizia e non anche di negligenza. Per le stesse ragioni non può trovare applicazione neanche il D.L. n. 158 del 2012, art. 3; non potendosi ritenere che il F. si sia attenuto alle linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

4. Anche il secondo motivo del ricorso del F. è infondato. Secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica.

Naturalmente, esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita,. avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Cass., Sez. 4, n. 23339 del 311-2013, Rv. 256941). Per effettuare il giudizio contrattuale, è quindi necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento. In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 4-10-2012, Rv. 255008).

L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacchè solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Cass., Sez. 4, 25.5.2005, Lucarelli). E, al riguardo,le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno ribadito la perdurante validità del plesso concettuale costituito dalla teoria condizionalistica e dalla teoria della causalità umana, quanto alle serie causali sopravvenute, ex art. 41 c.p., comma 2, con l’integrazione del criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche. Secondo il predetto criterio, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – “legge di copertura “-, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducono ad eventi “del tipo” di quello verificatosi in concreto (Sez. U., 10 – 7- 2002, Franzese). Ad ogni spiegazione causale è, dunque, in linea di massima, coessenziale il riferimento ad una legge idonea ad istituire una correlazione fra l’accadimento di cui si cerca la spiegazione e determinati antecedenti fattuali. In assenza di tale legge, è difficile che i fatti, in sè considerati, forniscano una spiegazione, anche se non sembra da escludersi la possibilità di giungere all’enucleazione, in senso positivo o negativo, del nesso di condizionamento attraverso un procedimento di natura induttiva fondato sulla rilevazione di tutte le emergenze del caso concreto, laddove il sapere scientifico ed esperienziale, pur fornendo una serie di metodologie di indagine e di elementi di giudizio, non fornisca parametri nomologici cui correlare la verifica condizionalistica. Ma non appare revocabile in dubbio che, in linea di principio, nella ricerca del nesso di condizionalità necessaria, il riferimento ad una legge – o comunque ad un parametro nomologico, di matrice scientifica o esperienziale – sia fondamentale. Una legge è un enunciato generalizzante, asserente una successione regolare di eventi e perciò idoneo a rendere intelligibile un accadimento del passato ed a consentire previsioni su accadimenti del futuro. La spiegazione di un evento si svolge, perciò, in quest’ottica, secondo un ben preciso schema: ciò che deve essere spiegato (explanandum: ad esempio, la morte di Tizio) viene inferitò da un insieme di premesse (explanans) costituite da enunciati relativi alle condizioni empiriche antecedenti di rilievo (ad esempio, Caio ha sparato a Tizio, colpendolo al cuore) e da generalizzazioni asserenti delle regolarità (se un proiettile attinge il cuore di un uomo, questi muore). Dunque l‘explanandum viene reso intelligibile mediante la connessione ad un complesso di condizioni empiriche antecedenti, sulla base delle leggi incluse nell’explanans. E’ questa la c.d. nozione nomologico-funzionale di causa, prevalente nel pensiero scientifico moderno, secondo la quale il “perchè” di un evento risulta identificato con un insieme di condizioni empiriche antecedenti, contigue nello spazio e continue nel tempo, dalle quali dipende il susseguirsi dell’evento stesso, secondo un’uniformità regolare, rilevata in precedenza ed enunciata in una legge.

5. Ma da dove provengono le leggi utilizzabili dal giudice? Le fonti non possono che essere due: la scienza e l’esperienza. Esula dalla presente trattazione l’analisi del problema dell’utilizzabilità delle leggi di matrice esperienziale. Ci soffermeremo invece sulle leggi scientifiche, che vengono in rilievo nell’ottica della regiudicanda sub iudice.

Cos’è una legge scientifica ? A quali condizioni può dirsi che un enunciato abbia valenza di legge scientifica? Su questo tema si registra una sostanziale convergenza del pensiero scientifico ed epistemologico nell’enucleazione dei seguenti requisiti: la generalità; la controllabilità; il grado di conferma; l’accettazione da parte della comunità scientifica internazionale.

A) E’, in primo luogo, necessario che la legge soddisfi il requisito della generalità: occorre infatti che i casi osservati non coincidano con il campo di applicazione della legge. Ad esempio, l’asserto secondo il quale se si conficca un pugnale nel cuore di un essere umano, questi muore, ha una portata generale perchè, pur essendo vero che il numero di esempi finora osservati di pugnali conficcati in cuori umani è finito, esiste un’infinità di esempi possibili. Se un’asserzione non affermasse nulla di più di quanto venga affermato dalle sue prove, sarebbe assurdo adoperarla per spiegare o per predire qualcosa che non sia già contenuto nelle prove medesime.

B) La controllabilità. E’ coessenziale alla nozione di scientificità la possibilità di assoggettare la teoria a controllo empirico e, pertanto, di valutarla alla luce dei controlli osservativi e sperimentali. Una teoria risulta soddisfacente di fatto (e non solo potenzialmente) se supera i controlli più severi: specialmente quelli che possono essere ritenuti cruciali ancor prima di venire esperiti. Tuttavia, per quante conferme una teoria possa avere avuto, essa non è mai certa, in quanto un controllo successivo può sempre smentirla. Miliardi di conferme non rendono certa una teoria (ad esempio, tuttìi pezzi di legno galleggiano in acqua) mentre un solo fatto negativo (questo pezzo di ebano non galleggia), dal punto di vista logico, la falsifica. Di qui il celebre criterio della falsificabilità elaborato nel pensiero epistemologico moderno, secondo cui un sistema teorico è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza. E’ la caratteristica logica di essere deduttivamente falsificabili che contraddistingue le teorie scientifiche. Le teorie pseudo-scientifiche, come l’astrologia, fanno talvolta predizioni corrette ma sono formulate in un modo tale da essere in grado di sottrarsi ad ogni falsificazione e perciò non sono scientifiche. Va da sè che ove un’affermazione scientifica si imbatta in un singolo caso falsificante, essa deve essere immediatamente respinta. La controllabilità coincide con la falsificabilità e cioè con la smentibilità. Non esiste quindi alcun processo induttivo mediante cui le teorie scientifiche siano confermate. Noi possiamo controllare la validità delle teorie scientifiche esclusivamente deducendone conseguenze e respingendo quelle teorie che implicano una singola conseguenza falsa.

C) Grado di conferma di una teoria scientifica. Strettamente connesso alla nozione di controllabilità è il concetto di grado di conferma o di corroborazione di una teoria. Per grado di corroborazione di una teoria è da intendersi, in quest’ottica, un resoconto valutativo dello stato – ad un determinato momento storico – della discussione critica di una teoria, relativamente al suo grado di controllabilità, alla severità dei controlli cui è stata sottoposta e al modo in cui li ha superati. In sintesi, una valutazione globale del modo in cui una teoria ha retto, fino ad un certo momento della sua discussione critica, ai controlli empirici cui è stata sottoposta; e una valutazione dei risultati dei detti controlli empirici. E’ pertanto possibile parlare esclusivamente di grado di corroborazione di una teoria ad un determinato momento della sua discussione critica e non in assoluto. Al riguardo, anche dalla giurisprudenza d’oltre oceano (sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti 28 giugno 1993, pronunziata nel caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals Inc., che ha analizzato il problema degli effetti teratogeni di un farmaco antinausea, il Bendectin) provengono indicazioni interessanti. La sentenza Daubert indica infatti i seguenti. criteri di affidabilità delle teorie scientifiche:

1) Verificabilità del metodo. Il primo carattere che la conoscenza scientifica deve possedere è quello della verificabilità: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti.

2) Falsificabilità. Il secondo criterio richiede che la teoria scientifica sia sottoposta a tentativi di falsificazione, i quali, se hanno esito negativo, la confermano nella sua credibilità.

3) Conoscenza del tasso di errore. Occorre che al giudice sia resa nota, per ogni metodo proposto, la percentuale di errore accertato o potenziale che questo comporta.

In questa prospettiva, si è evidenziato, in giurisprudenza, che la legge causale scientifica può considerarsi tale soltanto dopo essere stata sottoposta a ripetuti, superati tentativi di falsificazione e dopo avere avuto ripetute conferme, donde, appunto, l'”alto grado di conferma” che la contraddistingue e donde la “fiducia” che non può non esserle riservata. La certezza che essa esprime viene connotata con le formule “alto grado di probabilità “, “alto grado di credibilità razionale “, “alto grado di conferma”, proprio perchè non è un valore assoluto, non è un’acquisizione irreversibile, poichè è certezza “allo stato” ma – va aggiunto-allo stato è certezza e non probabilità (Cass., Sez. 4, 25 novembre 2004, Nobili).

D) Il requisito più pregnante, nell’ottica della giurisprudenza di legittimità, però quello della diffusa accettazione in seno alla comunità scientifica internazionale. La rilevanza di questo requisito è tale da segnare il discrimine tra affermazione e negazione del nesso di causalità. Incertezza scientifica significa mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di un’ipotesi. E da tale incertezza non può che conseguire l’assoluzione dell’imputato perchè in questi casi non può ritenersi realizzata l’evidenza probatoria in ordine all’effettiva efficacia condizionante della condotta. Il giudice è, pertanto, tenuto ad accertare se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 43796 del 17-9-2010, Rv.248943), esaminando le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 18678 del 14-3-2012, Rv. 252621). Rimane, però, fermo che, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è utilizzabile anche una legge scientifica.che non sia unanimemente riconosciuta,. essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (Sez. U., 25-1-2005, Rv. 230317; Cass., Sez. 4, n. 36280 del 21-6-2012, Rv. 253565). Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamentìe valutazioni di fattd, insindacabili in cassazione, ove sorr