università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2159 - ordinanza sez. VI

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 4098/2013, depositata in data 17 dicembre 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto dei ricorrenti, appartenenti al personale universitario non medico ed inquadrati nella ex 7^ qualifica funzionale in qualità di collaboratore tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente qualifica funzionale 9^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 12908/2013 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto delle ricorrenti all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.

A.N., P.L., M.L., Lo.Pa., L.G., G.N., D.B.M., C.A., A.N., Pe.Ro., P.L., M.L., L.P., L.G., G.N., D.B.M., C.A., resistono con controricorso.

Pe.Ro. è rimasto solo intimato.

Con il primo motivo l’Università denuncia violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, della L. n. 200 del 1974, art. 1, del D.I. 9 novembre 1982, D.M. 31 luglio 1997, art. 6, all. D, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla mancata allegazione di parte istante dell’effettiva parità di mansioni e funzioni quale presupposto indefettibile dell’invocata parità retributiva, anche con riguardo al disposto di cui all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 12908/2013 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provata per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9/11/1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.

Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 53 del c.c.n.l. Comparto sanità 1994/1997, dell’art. 51 c.c.n.l. Computo sanità 1998/2001, rilevando che tali disposizione pattizie avallano la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.

I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Nella specie, i dipendenti hanno chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 9^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 Novembre 1982, la figura del collaboratore tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e socio-sanitaria della 7^ qualifica funzionalè è equiparata a quella di assistente tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 9^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986, che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dai dipendenti ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4); “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere detetininata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.

Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).

I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.

In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.

La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento proprio ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 7^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario VII livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

personale universitario non medico- indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2216 - sez VI

l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario 7^ livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).
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1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:
“Con sentenza n. 2717/2013, depositata in data 13 giugno 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di xX nei confronti di L.F. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.
L.F. resiste con controricorso.
Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.
Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.
Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).
Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.
Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).
Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.
Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).
I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.
In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.
La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).
Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.
2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie (indennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello (ovvero, come nella specie, tra l’originario 7^ livello) di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).
Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.
6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

assicurazione stradale- sinistro stradale- risarcimento danni

27/01/2017 n. 2175 - ordinanza sez. VI

RITENUTO IN FATTO

che il consigliere relatore ha depositato in cancelleria la seguente relazione ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.: ” M.A. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Lucca D.S.G. e Fondiaria Assicurazioni s.p.a. quale impresa designata per il Fondo di garanzia chiedendo la condanna in solido al risarcimento del danno da sinistro stradale verificatosi il giorno (OMISSIS). Si costituì la società assicuratrice eccependo fra l’altro l’intervenuta prescrizione. Il Tribunale adito accolse la domanda nei confronti di D.S.G. e la rigettò nei confronti della società in quanto prescritta, considerando tardiva la produzione delle lettere di data 2 febbraio 2005. Avverso detta sentenza propose appello M.A.. Si costituì la società assicuratrice proponendo appello incidentale condizionato. Con sentenza di data 2 luglio 2015 la Corte d’appello di Firenze rigettò l’appello, dichiarando assorbito l’appello incidentale. Ha proposto ricorso per cassazione M.A. sulla base di un motivo.

Il motivo di ricorso è stato proposto per violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Espone il ricorrente che il giudice di appello ha erroneamente applicato il termine di prescrizione biennale, laddove invece, essendo il fatto considerato dalla legge come reato, doveva applicarsi la prescrizione più lunga di cinque anni risultante dal reato di lesioni colpose, dimostrato dalla documentazione medica prodotta e dalla testimonianza del figlio dell’attore.

Il motivo è inammissibile. Secondo la giurisprudenza di questa Corte a partire da Cass. s.u. 18 novembre 2008 n. 27337, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche per difetto di querela, all’azione risarcitoria si applica l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato (art. 2947 c.c., comma 3, prima parte) a condizione che il giudice, in sede civile, accerti “incidenter tantum”, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi. Tale accertamento di fatto manca nella sentenza impugnata e la mancanza di siffatto accertamento non può essere sindacata nella presente sede di legittimità, in mancanza di apposita denuncia di vizio motivazionale.

Non integra motivo di ricorso la replica all’appello incidentale vertente sulla mancanza di copertura assicurativa, appello dichiarato assorbito dalla corte territoriale.”;

che sono seguite le rituali comunicazioni e notificazioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio condivide la proposta di decisione contenuta nella relazione del consigliere relatore;

che pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e che non si deve provvedere sulle spese in mancanza di partecipazione al procedimento della controparte;

che poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 – quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione sesta civile – 3 della Corte suprema di Cassazione, il 13 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

mobbing: necessario l'intento persecutorio da parte del datore di lavoro

27/01/2017 n. 2142 -

Fatto

1. La Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 387/2011, pronunciando sulle opposte impugnazioni, respinto l’appello proposto dal Comune di (omissis), in accoglimento parziale dell’appello proposto da B.R. , in parziale riforma della sentenza impugnata, ritenuto sussistente il mobbing subito dal dipendente pubblico, ha condannato il predetto Comune, datore di lavoro del B. , al pagamento, a titolo di risarcimento del danno biologico, di un importo, così rideterminato in appello, pari ad Euro 7.690,00, oltre che, sempre a titolo di danno non patrimoniale, per la lesione dell’immagine, della professionalità e della vita di relazione, di un importo pari alle retribuzioni corrispondenti alla categoria di inquadramento del lavoratore, per il periodo dal novembre 2004 e fino al 16 marzo 2006, somma maggiorata di interessi e rivalutazione dalla data della notifica del ricorso di primo grado e fino al soddisfo.
2. La Corte di appello, premesso che era cessata la materia del contendere in ordine alla riammissione del B. nel Corpo della Polizia Municipale, avvenuta nel marzo 2006, ha svolto – in sintesi – le seguenti considerazioni.
a) Il provvedimento assunto dal Comune di (omissis) in data 22 luglio 2004 con cui il dipendente venne assegnato a nuove mansioni, da Vigile Urbano a Istruttore Amministrativo, in connessione ad un giudizio di inidoneità, era stato assunto dalla Giunta municipale in luogo del Dirigente, competente ad emetterlo.
b) La delibera era illegittima anche nella sostanza, in quanto la violazione dell’art. 2103 c.c. era da ascrivere non alla negazione dello ius variandi datoriale in relazione a qualifiche formalmente equivalenti, ma per lo “svuotamento di fatto di mansioni”: il B. era stato “lasciato inattivo e senza compiti” o gli erano stati affidati “compiti ridottissimi”.
c) Tale situazione era sorta a partire dal settembre 2004, quando il dipendente venne trasferito all’area Tributi. Le deposizioni testimoniali avevano confermato che dal 7 al 15 ottobre 2004 vennero assegnati al B. compiti meramente esecutivi ed estremamente semplici. Tali attività non erano riconducibili nell’alveo della qualifica rivestita di Vigile Urbano area C, ma erano proprie della inferiore area A (pag. 10 e 21 della sentenza).
d) Successivamente il lavoratore venne privato di ogni compito. Le deposizioni testimoniali avevano evidenziato che vi era stata una lunga inattività a partire dalla fine del 2004 protrattasi per più di un anno. Il B. era stato lasciato inattivo e isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi nel corridoio (pag. 22 sent). Tale stato di inattività si protrasse fino al 15 settembre 2005, epoca in cui riprese servizio presso il Comando dei Vigili Urbani in esecuzione di una ordinanza cautelare.
e) Con ordine di servizio del 19 dicembre 2005 adottato dal capo Area Tributi (M. ), il lavoratore venne assegnato allo svolgimento delle “pratiche cimiteriali”, con sede stabilita “presso gli uffici cimiteriali”. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’”entrata del cimitero” e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro. Nessuna specificazione in giudizio aveva reso il Comune circa i compiti che potessero essere svolti in detta “sede”, in assenza di uno sportello per il pubblico, né come potessero essere eterodirette le attività del dipendente dal capo dell’ufficio o come i suoi compiti potessero coordinarsi con quelli dei colleghi, posto che tali persone si trovavano tutte in una sede di lavoro diversa. “Ma ciò che più rileva è che il locale indicato dal M. nel provvedimento come gli uffici cimiteriali collocati all’esterno dell’Ente già dotati di strumenti informatici e di mobilia, nelle fotografie prodotte dal B. (…) risulta essere una stanza che presenta varie suppellettili ed oggetti che fanno pensare in maniera inequivoca ad una camera mortuaria annessa al cimitero” (pag. 13, anche per la analitica la descrizione del locale). “Insomma un luogo igienicamente non adeguato, non conforme alle più elementari norme di sicurezza, oltre che lesivo della stessa dignità umana”. “Sicché appare del tutto ovvio che, in primo luogo, fosse impossibile rendere la prestazione lavorativa in quel luogo, oltre che appare evidente che tale locale avesse una funzione al tempo stesso punitiva e rappresentativa, essendo volto a veicolare un messaggio chiaramente mobbizzante di cui era destinatario direttamente il lavoratore ed indirettamente anche gli altri, messaggio che né lui, né gli altri, colleghi o meno, avrebbero potuto fraintendere” (pagg. 13 e 14 sent.).
f) “Tale stato fu preordinato e voluto dal datore di lavoro e realizzato per il tramite del M. per finalità ritorsive, avendo il B. dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime, reagendo anziché acquietarsi e subirle passivamente” (pag. 14, nonché, per la descrizione analitica delle vicende pregresse, da pagg. 18 a pagg. 23 della sentenza).
g) In conclusione “…sono state provate non solo la situazione di protratta inattività in cui è stato lasciato il B. , ma anche una serie di situazioni mortificanti, quali l’essere lasciato senza scrivania e senza sedia e costretto a sostare nel corridoio in piedi, l’essere destinato al cimitero in un locale le cui condizioni consentono di definirlo non solo inidoneo, ma indecoroso per la funzione e irrispettoso della sua dignità di persona, l’essere stato allontanato fisicamente dai colleghi, oltre che, nel corso del tempo, spostato ripetutamente da un ufficio all’altro, pur di non essere mantenuto ai servizi interni del Corpo di Polizia Municipale…”. (pag. 24 sent.).
h) “Infine, appare indizio rilevante dell’isolamento cui conduce il mobbing, anche rispetto ai colleghi di lavoro, che allontanano il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di condotte ritorsive, il silenzio di molti colleghi sentiti al processo come testi….” (pag. 25 sent.).
i) La sistematica esposizione del B. ad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing (per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità: da pag. 14 a pag. 17 e da pag. 25 a pag. 28 sent.).
3. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il Comune di (omissis) con otto motivi; il punto rubricato come nono motivo non costituisce un’autonoma censura, ma la sintesi delle conclusioni rassegnate. Il B. è rimasto intimato.

Diritto

1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 4 e 6 d.lgs. 165/01 per avere la Corte di appello ritenuto illegittime le delibere della giunta comunale del luglio 2004, con cui il B. venne inquadrato nella qualifica Istruttore Amministrativo; tali determinazioni avevano ad oggetto modifiche della pianta organica, materia che esula dalla competenza dirigenziale. Dal secondo all’ottavo motivo il ricorso denuncia vizi di motivazione, così sintetizzabili: 2-3) omessa motivazione in ordine alla necessità, da parte del Comune, nell’esercizio dello ius variandi, di rinvenire una collocazione adeguata al dipendente giudicato inidoneo ai servizi esterni; 4) contraddittoria motivazione in ordine alla disamina e valutazione delle deposizioni dei testi Ba. e Be. in merito alla ritenuta inattività lavorativa in cui sarebbe stato lasciato il dipendente; 5) erronea valutazione di inattendibilità del teste M. ; 6) contraddittorietà della sentenza nella valorizzazione della deposizione della teste Be. a fronte della deposizione del teste Ba. ; 7) motivazione contraddittoria circa la deposizione del teste Ba. in merito all’assegnazione della sede di lavoro del B. presso gli “uffici cimiteriali”; 8) omessa motivazione in ordine alla circostanza che il B. per circa tre anni (dal 1998 al 2001) svolse regolarmente la propria attività in qualità di vigile urbano addetto anche ai servizi esterni.
2. Al punto nove, parte ricorrente contesta la sussistenza del mobbing, deducendo che il B. prestò regolare servizio per un triennio senza nulla lamentare, ma nell’immediatezza del verbale della Commissione medica si rifiutò di prestare servizio esterno anche in via sporadica; il Comune chiese la revoca della qualifica di Agente di Polizia Municipale, non avendo necessità di un agente che prestasse servizio interno e procedette ad inquadrare il B. quale Istruttore Amministrativo; d) lo stesso viene successivamente assegnato all’Ufficio Tributi. Alla stregua dei fatti, non vi erano elementi per affermare l’esistenza di un intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal Comune ai danni del proprio dipendente.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto alla questione di diritto oggetto del primo motivo, deve rilevarsene l’inammissibilità per essere il ricorso carente dei requisiti di indicazione e di allegazione, di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. non risultando le delibere vertenti sullo ius variandi trascritte né in tutto né in parte e non essendo indicata la sede della loro produzione in giudizio (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n. 22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti, Cass. n. 6556 del 14 marzo 2013, n. 16900 del 2015). Vi è un duplice onere a carico del ricorrente, quello di produrre il documento e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
4.1. Il motivo è inammissibile anche per altra ragione: l’illegittimità dell’atto è stata valutata dalla Corte di appello anche (e soprattutto) per il demansionamento in cui il mutamento di assegnazione si espresse. Valutando il complesso delle acquisizioni istruttorie, la Corte di merito ha rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il B. , nella nuova posizione assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non riconducibili a profili della categoria di inquadramento (area C), ma riferibili addirittura a mansioni di area A, e successivamente venne privato del tutto delle mansioni.
4.2. Esula quindi dall’oggetto del giudizio ogni problematica sull’equivalenza delle mansioni in relazione all’art. 52 d.lgs. n. 165/01 e dell’esercizio dello ius variandi datoriale in relazione alla dedotta esigibilità di tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria. Il B. non venne adibito alle mansioni proprie del profilo assegnato di Istruttore Amministrativo, ma ad altre (ben inferiori) non riconducibili a da quelle proprie della categoria di appartenenza. Del pari, la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere costituisce ipotesi vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014).
5. Per il resto, il ricorso sostanzialmente tende a proporre una diversa valutazione dei fatti con formulazione, in definitiva, di una richiesta di duplicazione del giudizio di merito. Costituisce principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.
5.1. Nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo. Come questa Corte ha affermato, a tal fine devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).
5.2. La ricostruzione della vicenda operata dal giudice di merito è agevolmente sussumibile nella fattispecie astratta così definita. La soluzione si fonda su un giudizio valutativo immune da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo altresì osservarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
5.3. Ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse in considerazione fatti probatori diversi o ulteriori rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto (v. Cass. n. 3161/2002).
5.4. Deve poi osservarsi, quanto alle censure vertenti sulla omessa considerazione di fatti ritenuti decisivi, che costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi del’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134), quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa (Cass. n.18368 del 31 luglio 2013); la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. (v., ex plurimis, Cass. n. 3668 e 20612 del 2013).
5.5. Nella specie, i dedotti vizi di motivazione non corrispondono al modello enucleabile negli esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 c.p.c., poiché, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice del rinvio; nel valutare le stesse risultanze istruttorie da quest’ultimo esaminate; nel trarne implicazioni e spunti per la ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello esposto nella sentenza impugnata; nel desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza probatoria di alcun elementi rispetto ad altri. Essi, dunque, incidono sull’intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all’ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del 2011).
6. Il ricorso va, pertanto, respinto. Nulla va disposto quanto alle spese del giudizio di legittimità, in mancanza di attività difensiva dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese del presente giudizio.