università- scuola- personale non medico- diritto ad indennità di equiparazione

27/01/2017 n. 2215 - ordinanza sez. VI

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 874/2013, depositata in data 28 marzo 2013, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione proposta dall’Università degli Studi di (OMISSIS) nei confronti di A.F. e confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto del ricorrente, appartenente al personale universitario non medico ed inquadrato nella ex 8^ qualifica funzionale in qualità di funzionario tecnico, all’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1, comma 1, commisurata alla retribuzione complessiva della corrispondente ex qualifica funzionale 10^ del c.c.n.l. Comparto sanità, senza che potesse assumere rilevanza la distinzione operata dal Consiglio di Amministrazione dell’Università tra personale laureato e personale non laureato, in quanto in contrasto con la volutas legis di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 ed al D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e senza che potesse essere attribuita importanza all’effettività delle mansioni svolte (che, si sosteneva, non poteva prescindere dal titolo di studio). Richiamava la Corte territoriale i principi espressi da questa Corte nella decisione n. 21608/2012 nonchè nella precedente pronuncia resa a sezioni unite n. 8521/2012 e conclusivamente riteneva, a fronte del dato fattuale della equivalenza delle mansioni e delle posizioni funzionali coinvolte, fondato il diritto del ricorrente all’indennità di equiparazione commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica funzionale del ruolo sanitario, a prescindere dall’elemento formale del titolo di studio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di (OMISSIS) affidato a due motivi.

A.F. resiste con controricorso.

Con il primo motivo l’Università denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi per la controversia nonchè violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.I. 9 novembre 1982, anche in relazione all’art. 36 Cost.. Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza a Sezioni unite n. 8521/2012 e richiama la difforme decisione di questo stesso giudice di legittimità n. 4418/2012, intervenuta in un contenzioso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. In particolare sottolinea la rilevanza attribuita in tale ultima decisione alla parità di mansioni, funzioni e anzianità che assume siano presupposti indefettibili per il riconoscimento del diritto all’equiparazione alle figure ospedaliere reclamate. Rileva che l’equivalenza delle mansioni non può ritenersi sussistente e provato per il solo fatto dell’automatismo classificatorio di profili funzioni (universitario e ospedaliero). Evidenzia che le corrispondenze previste nel decreto interministeriale del 9 novembre 1982 e nella allegata tabella D hanno carattere provvisorio e sono del tutto superate dall’evolversi dei sistemi di inquadramento e di classificazione del personale.

Con il secondo motivo l’Università denuncia violazione dell’art. 51 c.c.n.l. Comparto sanità 1998/2001 rilevando che tale disposizione pattizia avalla la propria tesi difensiva circa la natura provvisoria della tabella D, acclarando la piena legittimità dei provvedimenti di ordine generale assunti dalle Università nelle more della definizione della tabella di corrispondenza.

Il primo motivo presenta profili di inammissibilità per la parte in cui sono denunciati pretesi vizi motivazionali formulati in riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), che consente la censura soltanto per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di motivazione apparente, di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Per il resto, quanto alle denunciate violazioni di legge e di norme contrattuali, il primo ed il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Nella specie, il dipendente ha chiesto la liquidazione dell’indennità di equiparazione di cui alla L. n. 200 del 1974, art. 1 e del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, commisurata alla retribuzione spettante alla ex 10^ qualifica del ruolo sanitario, poi transitata nell’unico ruolo dirigenziale (che, come è pacifico tra le parti, ha comportato per i livelli ex 9^, ex 10^ ed ex 11^ un unico trattamento economico dirigenziale, differenziato solo dalla retribuzione di posizione variabile). Tale richiesta è fondata sul fatto che, a termini dell’allegato D al D.I. 9 novembre 1982, la figura del Funzionario tecnico dell’area funzionale tecnico-scientifica e sociosanitaria dell’8^ qualifica funzionale è equiparata a quella di Coadiutore tecnico (farmacista, biologo, chimico, fisico, psicologo), ex 10^ livello sanitario ai sensi del D.P.R. n. 348 del 1983, art. 37. La tesi contraria dell’Università valorizza il carattere transitorio del D.I. 9 novembre 1982 cit., destinato a perdere efficacia con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale dei personale medico-scientifico e la conseguente ridefinizione delle qualifiche ad opera della contrattazione collettiva. Si contesta da parte dell’odierna ricorrente l’attribuita esclusiva rilevanza all’inquadramento formale previsto dalla tabella, prescindendo da ogni valutazione della effettiva corrispondenza delle funzioni e delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ovvero delle modalità di accesso alla qualifica (possesso del diploma di laurea).

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sent. n. 8521 del 2012, hanno già avuto modo di affermare quanto segue: A) la normativa primaria contenuta nel D.P.R. n. 761 del 1979, non recava una disciplina specifica circa i criteri di commisurazione dell’indennità – se non il principio di equiparare il trattamento economico complessivo a quello del personale delle unità sanitarie locali, di pari funzioni, mansioni e anzianità demandando, piuttosto, ad un decreto che contenesse apposite tabelle tale compito (D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, comma 4) -; “conclusione obbligata è dunque che la equiparazione è concretamente stabilita nell’allegato D del D.I. 9 novembre 1982″, da considerarsi, con la consolidata giurisprudenza amministrativa, esplicazione di discrezionalità normativa non suscettibile di sindacato in assenza di profili di chiara illogicità; B) corollario di tale regola è che la corrispondenza con il personale di pari qualifica e mansione del ruolo sanitario ex D.I. 9 novembre 1982, deve essere determinata in base all’inquadramento dei personale universitario nelle aree funzionali, nelle qualifiche e per profili professionali secondo le mansioni svolte ed i compiti assegnati in base al D.P.C.M. 24 settembre 1981; C) rilevano a tali fini le norme di legge particolari di cui ha beneficiato il personale suddetto, e precisamente la L. n. 312 dei 1980, art. 85, in base al quale il personale universitario in servizio alla data del 1 luglio 1979 è stato inquadrato nei profili professionali di collaboratore e funzionario tecnico secondo le mansioni svolte a prescindere dal titolo di studio; D) risulta irrilevante la sopravvenuta perdita di efficacia del D.I. 9 novembre 1982 cit. – con l’intervento del D.P.R. n. 348 del 1983 – o dal 1986 – a seguito della L. n. 23 del 1986 che ha istituito il ruolo speciale del personale medico-scientifico, posto che il nuovo contratto del personale USL succeduto all’accordo del personale ospedaliero cui si richiama il citato D.I. non può avere altro effetto se non quello di comportare l’adeguamento dell’indennità di perequazione in parola; E) allo stesso modo, il richiamo, contenuto nel decreto del 1982, alla ridefinizione delle qualifiche ed alla riforma del ruolo del personale tecnico-scientifico non comporta limiti di durata alla disposta equiparazione, ma ne prospetta la perdurante operatività nel tempo.

Quanto all’efficacia temporale di tale assetto normativo in relazione alla sopravvenuta disciplina contrattuale successiva alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazione, questa Corte, ancora a Sezioni unite, sulla base di un analitico esame di tali fonti collettive (cui si rinvia), ha sancito che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31, ha continuato a trovare applicazione, nelle more dell’approvazione di una tabella nazionale per la ridefinizione delle corrispondenze economiche tra il trattamento del personale addetto a strutture sanitarie convenzionate e quello del personale del S.S.N., e che sono state conservate le indennità di perequazione in godimento e le collocazioni in essere (sul punto v. Cass. SS.UU. nn. 6104 e 6105 del 2012).

I suddetti principi sono stati confermati in numerose successive pronunce – si vedano Cass. SS.UU. n. 17928 del 24 luglio 2013; Cass. n. 12908 del 24 maggio 2013; Cass. n. 5325 del 7 marzo 2014; Cass. n. 1078 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 10629 del 22 maggio 2015; Cass. 4 agosto 2015, n. 16350; Cass., Sez. Un., 14799 del 19 luglio 2016.

In particolare, nella decisione a Sezioni unite n. 14799/2016, con riferimento alla questione del mancato possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio delle funzioni correlate alle posizioni lavorative prese a base per l’invocata equiparazione, è stato ribadito che è rilevante e determinante la qualifica riconosciuta presso l’Università e la ricordata tabella di equiparazione (allegato D al D.I. 9 novembre 1982) indipendentemente dal possesso del titolo di studio in parola necessario per la qualifica rivendicata ai fini della concessione dell’indennità di equiparazione (cfr. nel medesimo senso Cass. 16 dicembre 2015, n. 25298 e Cass. 31 agosto 2015, n. 17347 nonchè le già citate Cass., Sez. Un., 17928/2013; Cass. n. 12908/2013; Cass. n. 5325/2014; Cass. n. 1078/2015). Nella medesima decisione è stato altresì rimarcato che lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante solo in quelle controversie nelle quali si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale si pone il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito.

La sentenza impugnata risulta conforme agli indicati principi nè viene in rilievo, nella presente controversia, la questione oggetto della decisione di questa Corte a sezioni unite n. 9279 del 9 maggio 2016, intervenuta a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 9388 dell’8 maggio 2015 di questa sezione, riguardante il (diverso) problema se la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità debba essere riconosciuta soltanto se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo o alla possibilità di ricoprirlo oppure se sia sufficiente l’equiparazione al livello dirigenziale operata dalla contrattazione collettiva (si veda assolutamente in termini e con riferimento ai collaboratori tecnici appartenenti alla ex 8^ qualifica funzionale del personale universitario equiparata all’ex 9^ livello del personale delle unità sanitarie locali, successivamente transitato nel ruolo unico dirigenziale, la già citata Cass. n. 17347/2015).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5”.

2 – L’Università ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale l’Università si è limitata a riproporre le ragioni di cui al ricorso ed a sostenere che, con riferimento alle corrispondenze rispetto al livello dirigenziale, andrebbe escluso ogni automatismo ed andrebbero verificate in concreto le mansioni svolte perchè, diversamente, verrebbe compromessa la funzione meramente perequativa dell’indennità in questione, in violazione del principio del giusto trattamento economico ex art. 36 Cost.. Valga, al riguardo, richiamare quanto affermato da questa Corte a Sezioni unite nella già citata sentenza n. 14799/2016: “Lo svolgimento di mansioni in concreto correlate alla qualifica presso la struttura ospedaliera che opera come termine di comparazione per l’indennità di equiparazione è rilevante (…) solo in quelle controversie nelle quali (…) si discute in specifico della spettanza anche dell’indennità di posizione minima (cosiddetta indennità di dirigenza) in relazione alla quale è stato posto il diverso problema dello svolgimento di fatto delle mansioni dirigenziali alla luce dell’art. 40 del c.c.n.l. 1998-2001 che connette tale specifica indennità allo svolgimento dell’incarico conferito; queste Sezioni unite hanno recentemente ribadito il principio per cui l’indennità di perequazione spettante al personale universitario non docente in servizio presso strutture sanitarie eindennità D.M.), riconosciuta dalla L. n. 200 del 1974, art. 1, per remunerare la prestazione assistenziale resa dal personale universitario non medico nelle cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, deve essere determinata – in caso di equiparazione tra l’originario 8^ livello di cui alla L. n. 312 del 1980 (relativo ai dipendenti dell’Università) e il 9^ livello, poi divenuto 1^ livello dirigenziale (relativo ai dipendenti ospedalieri) – senza includere automaticamente nel criterio di computo la retribuzione di posizione dei dirigenti del comparto sanità, la quale può essere riconosciuta solo se collegata all’effettivo conferimento di un incarico direttivo (S.U. 9 Maggio 2016, n. 9279)”. Tuttavia tale questione non risulta essere stata mai posta (cfr. sentenza impugnata).

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La complessità della vicenda ed i plurimi interventi di questa Corte anche a Sezioni unite giustificano la compensazione delle spese tra le parti.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

Peraltro l’esonero dal raddoppio del contributo unificato trova applicazione solo nei confronti delle Amministrazioni dello Stato (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778), non anche nei confronti degli enti pubblici che non fanno parte dell’amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo, e così nei confronti degli enti di ricerca scientifica, tra cui sono da annoverarsi le università pubbliche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

dentista - e' responsabile se esegue in modo non adeguato un intervento necessario- consenso informato che non tiene conto dei reali rischi

27/01/2017 n. 10271 - Cassazione penale, sez. IV

Corte di Cassazione – sentenza 10271/17 del 17 gennaio 2017)

Il sanitario che abbia ottenuto l’autorizzazione ad esercitare e che sia stato coinvolto in un procedimento penale per malpractice, non può ottenere il beneficio della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziario se in precedenza sia stato gravato di una condanna per esercizio abusivo della professione medica anche se definito con decreto penale di condanna a pena pecuniaria condizionalmente sospesa. Questa è l’opinione, espressa dalla Cassazione nella sentenza 10271 del 17 gennaio scorso, che ha confermato il precedente di merito della corte Milanese.
Nello specifico, il Tribunale aveva ritenuto penalmente responsabile di lesioni personali colpose il medico chirurgo odontoiatra che eseguì in modo totalmente imperfetto un intervento necessario e rispondente alle esigenze del paziente, acquisendo un consenso informato successivamente all’intervento, non rispettando in tal modo la procedura formale (che esige che il medico debba prospettare al paziente, per iscritto, i rischi concreti del trattamento sanitario che va a porre in essere).
In ambito tecnico, l’intervento proposto era stato riconosciuto opportuno per risolvere l’ atrofia ossea mandibolare di cui soffriva il paziente ed avuto successo laddove fossero stati infissi in maniera corretta gli impianti. L’osso disponibile consentiva il posizionamento d’impianti con la corretta angolazione, ciò non era avvenuto, in quanto, dapprima, gli impianti era stati inseriti con angolazione errata (ed uno non era stato addirittura caricato), ragion per cui la barra non era stata posizionata all’impianto all’emiarcata inferiore destra; e, poi, era stato infisso un impianto, estremamente lungo, che era arrivato proprio alla base della mandibola e che, per la sepsi che si era creata, aveva determinato la rimozione presso una struttura ospedaliera.
Secondo il consulente del Tribunale, il precoce insuccesso impiantare avrebbe dovuto imporre di procedere alla rimozione dell’impianto precedentemente infisso ed attendere la completa guarigione ossea; solo successivamente si sarebbe dovuto procedere all’intervento di infissione dei mini impianti per la stabilizzazione della protesi inferiore, cosa che però non era avvenuta, perchè nonostante la grave situazione che si era creata, erano stati posizionati nuovi mini impianti quando la guarigione ossea non era ancora intervenuta.
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1. La Corte di appello di Milano con la impugnata sentenza ha integralmente confermato in punto di affermazione di penale responsabilità la sentenza 28/10/2015 con la quale il Tribunale di Milano aveva dichiarato L.R. colpevole del reato di lesioni personali colpose (commesso in (OMISSIS)) per avere, quale medico chirurgo odontoiatra, nell’ambito della propria attività professionale, cagionato lesioni personali a S.S., per una serie di errori implantologici all’interno dell’arcata mandibolare inferiore del paziente. In punto di trattamento sanzionatorio, premesso che già in primo grado all’imputato erano state riconosciute le attenuanti generiche e concesso il beneficio della sospensione, la Corte ha ritenuto di poter ridurre la pena da mesi due a mesi uno di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado (anche laddove non era stato ritenuto concedibile il beneficio della non menzione).

2. Avverso la sentenza della Corte territoriale propone personalmente ricorso l’imputato articolando due profili di doglianza.
2.1. Nel primo si lamenta deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di valutazione della prova e di conseguente affermazione della di lui penale responsabilità per il reato contestato.
In particolare, secondo il ricorrente, la Corte di appello non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione: a) le modalità dell’intervento (in particolare, in merito alla somministrazione dell’antibiotico, nonchè alla spiegazione orale dell’informativa relativa ai rischi e possibili conseguenze dell’intervento); b) la situazione del paziente (fumatore, diabetico, assuntore di farmaci psicotici ed affetto da disturbo psichico non altrimenti specificato, nonchè edentulo da anni); c) il fatto che il paziente, a seguito del primo intervento, non aveva inteso attendere il tempo necessario prima di procedere a nuovo posizionamento dell’impianto; d) le ragioni per cui lui si era deciso a posizionare l’impianto in modo obliquo (e non parallelo), tenuto conto della mancanza di osso disponibile.

Ed ancora, secondo il ricorrente, la sentenza sarebbe apodittica laddove: a) “ha frettolosamente liquidato con illogiche ed infondate giustificazioni argomentative” l’interpretazione alternativa dei fatti offerta dalla difesa; b) contiene congetture, se non suggestioni, in particolare per quanto riguarda la sua personalità; c) ha omesso di motivare la mancata adesione delle tesi prospettate dal suo consulente tecnico di parte in punto di: non necessità di consenso informato scritto, correttezza del posizionamento obliquo degli impianti, inefficacia dell’antibiotico somministrato per causa a lui non imputabile, compromessa previa situazione di salute del paziente Sig. S..
Infine, il ricorrente si lamenta che la Corte aveva negato il beneficio della non menzione, rimandando sic et sempliciter ad un non meglio specificato contesto professionale.
2.2. Nel secondo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di valutazione della prova in relazione al profilo di colpa contestatogli ed alla sussistenza del necessario nesso causale tra la sua condotta, in tesi di accusa colpevole, e l’evento lesivo verificatosi.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non è fondato.
2.1 due denunciati profili di doglianza – che si esaminano congiuntamente per la loro stretta connessione – si pongono ai limiti della inammissibilità.
A) Il Tribunale di Milano – dopo aver ripercorso le risultanze dibattimentali e dopo aver dato atto che l’esame della persona offesa S.S. era stato reso difficoltoso dalla certificate difficoltà di eloquio dalla quale lo stesso era affetto in conseguenza delle lesioni per cui era processo (tanto che le parti convenivano sull’acquisizione della denuncia querela e del verbale di sommarie informazioni dallo stesso rese in data 8/4/2013) – ha preliminarmente rilevato (p. 5) che l’oggetto della contestazione delineava, quale condotta colposa causalmente collegata alla realizzazione dell’evento lesivo, una serie di condotte susseguitesi nel tempo e tutte attribuite al dr. L.V.: l’aver posizionato un impianto endosseo con una erronea inclinazione, così da determinare un precoce insuccesso, dal quale derivava l’instaurazione di un processo flogistico infettivo (che determinava perimplantite); l’aver svolto il secondo intervento, posizionando fixtures di dimensioni non corrette e con non corretto allineamento, senza attendere l’avvenuta guarigione ossea dal primo intervento e senza aver rimosso gli impianti precedentemente installati.

Quindi, il Giudice di primo grado ha ritenuto che (p.6), se non poteva dirsi certo il nesso causale tra la inclinazione degli impianti e le lesioni, era invece certo che il secondo intervento con l’utilizzo di minimpianti era stato realizzato nonostante il paziente presentasse ancora dolore (possibile sintomo di una situazione settica ancora in corso, situazione che veniva poi effettivamente riscontrata presso l’istituto (OMISSIS) e l’Ospedale di (OMISSIS), tanto che si segnalava la necessità di rimozione dell’impianto per evitare la frattura mandibolare), come pure era certo che il dr. L.V. non aveva provveduto ad una esaustiva prospettazione dei rischi di insuccesso dell’intervento, in entrambe le fasi in cui si era occupato del sig. S. (con la conseguenza che l’accesso terapeutico adottato in entrambe le occasioni non era coperto dal consenso del paziente).
A detto ultimo riguardo, l’unico dato documentale era costituito dal modulo di consenso informato – sottoscritto dal paziente il 12/09/2012 (e, dunque, successivamente ad entrambi gli interventi) – dal quale risultava che gli era stata prospettata una possibilità di successo variabile tra l’85 ed il 90% (cioè una probabilità di successo ben superiore a quella – intorno al 30%, quanto al primo intervento, e, intorno al 75%, quanto al secondo intervento – affermata dal consulente di parte).
In definitiva, secondo il Giudice di primo grado (p. 7), indubbia era la penale responsabilità del dr. L.V., in quanto questi aveva sottoposto S.S. ad un duplice intervento di implantologia, destinato a creare base di appoggio per protesi dentale mobile, senza preventivamente informare il paziente dell’elevato rischio di insuccesso, soprattutto quanto al secondo intervento, e senza gestire correttamente la presenza di un fenomeno flogistico infettivo che causava per impiantite, tra il primo ed il secondo intervento, così determinandone l’insuccesso.
B) E la Corte d’appello ha ritenuto indubbia la responsabilità del L.V. per le lesioni colpose allo stesso contestate sulla base delle seguenti argomentazioni:
– dall’espletata istruzione dibattimentale (e, in particolare, dagli accertamenti eseguiti dal consulente tecnico di parte del PM) era risultato il fallimento degli interventi effettuati dal dr. L.V.R. sul paziente S.S. (come peraltro presupposto nello stesso atto di appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna emessa in primo grado);
– dall’acquisito consenso informato del 12/9/2012 (e, dunque, successivo ad entrambi gli interventi) era risultato che, contrariamente a quanto imposto dalla correttezza nei rapporti con il paziente, il dott. L.V.R., in occasione dei due interventi su S.S., non aveva rispettato la procedura formale (che esige che il medico debba prospettare al paziente, per iscritto, i rischi concreti del trattamento sanitario che va a porre in essere);
– il consulente di parte del PM, sentito come teste, aveva spiegato chiaramente in che cosa era consistito “l’insuccesso terapeutico” In sintesi: tutto era partito da una grave atrofia ossea mandibolare; la terapia proposta opportuna e sicuramente indicata – avrebbe avuto successo laddove fossero stati infissi in maniera corretta gli impianti; l’osso disponibile consentiva il posizionamento d’impianti con la corretta angolazione, ciò non era avvenuto, in quanto, dapprima, gli impianti era stati inseriti con angolazione errata (ed uno non era stato addirittura caricato), ragion per cui la barra non era stata posizionata all’impianto all’emiarcata inferiore destra; e, poi, era stato infisso un impianto, estremamente lungo, che era arrivato proprio alla base della mandibola e che, per la sepsi che si era creata, aveva determinato la rimozione presso una struttura ospedaliera. Secondo il consulente di parte del PM, il precoce insuccesso impiantare avrebbe dovuto imporre di procedere alla rimozione dell’impianto precedentemente infisso ed attendere la completa guarigione ossea; solo successivamente si sarebbe dovuto procedere all’intervento di infissione dei mini impianti per la stabilizzazione della protesi inferiore, cosa che però non era avvenuta, perchè al dott. L.V.R. erano stati posizionati nuovi mini impianti nell’ottobre del 2012, quando la guarigione ossea non era ancora intervenuta;
– l’assunto del consulente di parte (secondo il quale il fallimento dell’intervento chirurgico si sarebbe giustificato con le condizioni di salute del paziente, affetto da diabete) non potevano essere accolte, in quanto, in quanto, fermo restando che lo stesso consulente di parte aveva confermato che la mandibola del paziente era “estremamente atrofica”, non aveva dato spiegazione convincente sul perchè il dr. L.V. non aveva atteso la completa guarigione ossea prima di procedere all’intervento di infissione dei mini impianti per la stabilizzazione della protesi inferiore.
C) Il ricorrente deduce vizio di motivazione, ma dimentica che detto vizio è deducibile in sede di legittimità esclusivamente quando la motivazione sia manifestamente illogica o contraddittoria, nel senso che non consente l’agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione in relazione a ciò che è stato oggetto di prova ovvero nel senso che impedisce, per la sua intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo sull’affidabilità dell’esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti.
Nulla di quanto sopra nel caso di specie nel quale – premesso che la giurisprudenza di legittimità è costante nel rilevare che, qualora le argomentazioni del giudici di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nell’apprezzamento degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, come per l’appunto si verifica nel caso di specie, le stesse motivazioni si saldano in un unico complessivo corpo motivazionale, al quale è dato fare riferimento – la sentenza impugnata ha dato adeguata contezza dell’iter logico giuridico seguito dalla Corte territoriale (in punto di sussistenza dei contestati profili di colpa e del necessario nesso causale tra condotta in concreto tenuta ed evento lesivo verificatosi) per addivenire al giudizio di affermazione di penale responsabilità dell’imputato.
3. Infondato, se non inammissibile, è anche il profilo di doglianza, articolato all’interno del primo motivo, concernente l’avvenuto diniego del beneficio della non menzione.
In punto di trattamento sanzionatorio, occorre ricordare che il Tribunale, in considerazione del corretto comportamento processuale tenuto dal dr. L.V., ha riconosciuto allo stesso le attenuanti generiche ed il beneficio della sospensione condizionale della pena.
E la Corte – dopo aver ribadito il comportamento processuale corretto del dr. L.V. – ha ritenuto che, in considerazione della complessità del caso “medico” che aveva davanti ed in parziale accoglimento del motivo di appello esperito in via subordinata, la pena andava ridotta a mesi uno di reclusione, partendo da una pena base di giorni quarantacinque di reclusione.
Entrambi i giudici di merito non hanno poi potuto fare a meno di rilevare che il dr. L.V. era gravato da un precedente per esercizio abusivo della professione medica (definito con decreto penale di condanna a pena pecuniaria condizionalmente sospesa) ed hanno ritenuto che, in considerazione del contesto professionale entro il quale si erano svolti i fatti, non poteva essere concesso il beneficio della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziario.
Anche detta motivazione, in quanto non contraddittoria e neppure manifestamente illogica, non è suscettibile di censura nella presente sede di legittimità.
4. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2017.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2017

inadempimento contratto di cessione di dossier farmaceutico -patto esclusiva - risarcimento del danno - come si calcola -

27/01/2017 n. 2125 - Cassazione civile, sez. II

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Con atto di citazione notificato in data 24.05.2007 la Biopharma s.r.l. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, La Germed Pliva Pharma s.p.a. (già Pliva Pharma s.p.a.), poi divenuta Germed Pharma S.p.A., chiedendo, previo accertamento dell’inadempimento della società convenuta in ordine ai contratti indicati in citazione, di dichiarare la risoluzione dei contratti medesimi e, per l’effetto, di condannare la società convenuta al risarcimento dei danni subiti, oltre gli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002, o in subordine legali, dalla data dei singoli inadempimenti al saldo.
In particolare l’attrice esponeva che:
a) in relazione al contratto avente ad oggetto il dossier ed AIC (Autorizzazione Immissione in Commercio) inerenti l’Amoxicillina + Clavulanico, i danni erano da liquidarsi in Euro 1.480.000,00;
b) in relazione al contratto di produzione inerente, l’Amoxicillina + Clavulanico. i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 1.000.000,00, ovvero nella misura pari al quantitativo di prodotto commesso alla D&G s.r.l. dal mese di settembre 2007, per un biennio, moltiplicato per l’importo di Euro 0,50, o nella diversa somma accertata;
c) in relazione al contratto inerente il Ceftriaxone, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 584.039,00 o, in parziale subordine. nella somma di Euro 133.013.00, o nella diversa somma accertata;
d) in relazione al contratto inerente il Ceftrazidime, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 1.289.426,00, o, in parziale subordine, nella somma di Euro 383.634.00. o nella diversa somma accertata:
e) in relazione al contratto inerente l’Amoxicillina, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 51.736,00, o, in parziale subordine, nella somma di Euro 28.908,00, o nella diversa somma accertata;
e in relazione al contratto inerente le Benzilpenicilline, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 584.039,00 o nella diversa somma accertata;
g) per la mancata commessa delle produzioni minori, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 300.000,00 o nella diversa somma accertata;
h) per il danno all’immagine, i danni erano da liquidarsi nella misura di Euro 2.000.000,00 o nella diversa somma accertata.
La Germed Pharma S.p.A. si costituiva in giudizio chiedendo:
in via principale. di rigettare le domande di risoluzione dei contratti in discussione relativi ai prodotti Amoxicillina, Ceftriaxone, Ceftazidima e Benzilpennicillina in quanto infondate, nonchè le domande risarcitorie avanzate dalla parte attrice; in via riconvenzionale, con esclusivo riferimento al contratto avente ad oggetto lo cessione del dossier e dell’AIC inerenti l’Amoxicillina + Clavulanico, di dare atto dell’intervenuta risoluzione di diritto del contratto del (OMISSIS) e, per l’effetto, di condannare la società Biopharma alla restituzione della somma di Euro 40.000.00, versata al momento della sottoscrizione del predetto contratto, oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; in subordine, di dichiarare la risoluzione del contratto predetto e, per l’effetto, di condannare la società Biopharma alla restituzione della somma di Euro 40.000,00, versata al momento della sottoscrizione del predetto contratto oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; in via ulteriormente subordinata, con esclusivo riferimento al suddetto contratto, in caso di mancato accoglimento delle domande di risoluzione, di determinare il minor prezzo dovuto nella somma di Euro 150.000,00 oltre I.V.A. e, per l’effetto, dato atto dell’intervenuto pagamento di Euro 40.000,00, di accertare il residuo debito nella limitata somma di Euro 110.000,00, ovvero, di accertare il diverso minor prezzo di cessione e il conseguente residuo debito in capo a Pliva o la condanna della società Biopharma a restituire l’eventuale differenza tra il valore accertato e quanto già versato da essa convenuta.
Nel corso dell’istruttoria acquisita documentazione, espletato l’interrogatorio formale delle parti ed esaminati i testi, l’adito Tribunale decideva la causa con sentenza in data 7.12.2012 che così disponeva: “dichiara la risoluzione del contratto stipulato in data (OMISSIS) tra la Biopharma s.r.l. e la Germed Pharma s.p.a., già Germed Pliva Pharma s.p.a. e già Pliva Pharma s.p.a. per l’inadempimento di quest’ultima società; quale effetto restitutorio del predetto scioglimento, condanna la Biopharma al pagamento alla società convenuta della somma di Euro 40.000,00, oltre gli interessi legali dal 30.1.2006 al saldo; rigetta le residue domande avanzate dalla parte attrice e dalla parte convenuta, ritenendo assorbita la domanda avanzata dalla società convenuta in estremo subordine; compensa tra le parti le spese di lite”.
Con citazione notificata in data 5.02.2013 la Biopharma s.r.l. ha proposto appello chiedendo la riforma della impugnata sentenza con accoglimento delle sue domande proposte in 1^ grado, per vedere accertato l’inadempimento della convenuta a tutti i contratti di produzione conclusi inter partes e condanna della stessa parte al pagamento del prezzo di vendita e del risarcimento del danno; vinte le spese dei due gradi del giudizio.
Si è costituita la Germed Pharma S.p.A. che ha chiesto il rigetto dell’impugnazione (ed in subordine perchè venisse accertato, in caso di accoglimento dell’appello, il minor prezzo dovuto per il contratto di cessione dossier e AIC relativi a Amoxicillina + Clavulanico); con il favore delle spese del grado.
La Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 2171 dell’8 aprile 2015, ha accolto l’appello ed in riforma della sentenza gravata, ha dichiarato risolti per inadempimento tutti i contratti stipulati ed indicati in citazione, condannando l’appellata al pagamento della somma di Euro 3.345.881,09, oltre interessi al tasso legale a far data dalla sentenza al saldo, nonchè al rimborso delle spese del doppio grado di giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Germed Pharma S.p.A. sulla base di sei motivi.
Biopharma S.p.A. ha resistito con controricorso.
Tutte le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia ex art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., ovvero per la violazione del principio della domanda da intendersi quale qualificazione della domanda con riferimento alla richiesta di adempimento del contratto di cessione di dossier Amoxicillina – Clavulanico.
Si deduce che con il primo motivo di appello la controparte aveva denunziato l’errore commesso dal Tribunale nell’interpretare la propria domanda relativamente a tale contratto, posto che per un mero refuso, la richiesta di risoluzione, anzichè essere limitata ai soli contratti di produzione, aventi ad oggetto gli altri farmaci di cui all’atto introduttivo del giudizio, era stata estesa anche al contratto di cessione dei dossier, in merito al quale l’effettiva richiesta era invece di condannare la Germed all’adempimento, e cioè al pagamento del corrispettivo pattuito.
Ma a fronte di tale motivo, la sentenza gravata, con una evidente distorsione nella lettura del motivo medesimo, lo ha accolto, finendo con il pronunziarsi su di una domanda diametralmente opposta rispetto a quella che la stessa attrice dichiarava di avere proposto. Infatti, la Corte distrettuale pur dichiarando di reputare fondato il motivo di gravame, il che avrebbe dovuto portarla a delibare sulla domanda di adempimento, ha confermato la correttezza della pronuncia di risoluzione, ritenendo che peraltro l’entità del danno subito da parte della contraente adempiente, ben poteva essere commisurata al corrispettivo che sarebbe stato conseguito ove il contratto avesse avuto regolare esecuzione.
Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per ultrapetizione ovvero extrapetizione, con riferimento alla richiesta di adempimento del contratto di cessione dossier Amoxicillina – Clavulanico.
Infatti, nell’accogliere il primo motivo di appello, la Corte romana avrebbe ulteriormente errato in quanto, sebbene Biopharma avesse richiesto l’adempimento del contratto, nel confermare la risoluzione dello stesso, con la condanna della Germed a titolo risarcitorio per una somma pari al prezzo pattuito, ha attribuito un bene della vita diverso da quello richiesto.
Il terzo motivo denunzia la violazione di legge consistita nell’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1453 c.c..
In effetti, una volta ribadita la risoluzione del contratto di cessione dei dossier, ha condannato la ricorrente al pagamento a titolo risarcitorio di una somma corrispondente al prezzo concordato (ed al netto degli acconti già ricevuti dalla controparte), reputando che fosse stata offerta la prova della corrispondenza del danno patito dalla contraente adempiente al mancato guadagno, non potendosi opporre che il contratto non aveva avuto esecuzione.
Infatti, a detta della Corte distrettuale, poichè emergeva la prova che l’appellante aveva fatto fronte ai propri impegni, l’appellata era tenuta a risarcire il danno ex art. 1223 c.c., considerando nello stesso la perdita subita ed il mancato guadagno, danno che era corrispondente al mancato prezzo versato, che ristorava quindi sia la perdita subita che il mancato guadagno.
Ritiene la ricorrente che il ragionamento non possa essere condiviso, in quanto frutto di una distorta applicazione dei principi in tema di causalità ed in tema di risarcimento del danno contrattuale.
Se la finalità del risarcimento del danno è quella di porre la parte adempiente nelle medesima situazione nella quale si sarebbe venuta a trovare ove la controparte avesse a sua volta adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, la sentenza non ha tenuto conto del fatto che a seguito della risoluzione, il contraente adempiente “recupera” la prestazione che avrebbe dovuto eseguire, sicchè il danno non può consistere nel prezzo che sarebbe stato pagato, quanto nella differenza tra il prezzo ed il valore della prestazione recuperata.
Il quarto motivo denunzia la violazione di legge, con riferimento all’errata applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ed in particolare degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., con la conseguente violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c..
Infatti, la Corte romana dopo avere confermato la risoluzione del contratto di cessione dei dossier e del collegato contratto di fornitura in esclusiva, aveva accolto la domanda risarcitoria anche in relazione a questo secondo contratto.
Ma tale soluzione era frutto di un’erronea interpretazione dell’accordo negoziale, che aveva indotto i giudici di merito a ritenere che la ricorrente si fosse obbligata a far produrre detti medicinali secondo dei quantitativi minimi. In realtà, sostiene Germed, alla luce del tenore letterale delle previsioni contrattuali, l’obbligo di far produrre dei quantitativi minimi di farmaci non era in alcun modo evincibile dai contratti in atti, con la conseguenza che è stato accordato un risarcimento a ristoro di un diritto in realtà non scaturente dal contratto.
Il quinto motivo di ricorso, ripropone le medesime censure circa la corretta interpretazione della volontà delle parti, in merito ai diversi contratti di produzione dei farmaci Ceftriaxone e Ceftazidina, posto che anche in tal caso la conclusione della Corte distrettuale circa l’esistenza di un obbligo a carico della ricorrente di far produrre alla Biopharma dei quantitativi minimi di fatinaci, era contrastata dal tenore letterale dei contratti.
Infine il sesto motivo di ricorso denunzia l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 1453 c.c., relativamente alla vicenda contrattuale concernente la produzione delle benzilpenicilline, nonchè l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 2697 c.c..
Infatti, la Corte di merito ha ritenuto che fosse stata offerta la prova che, allorquando la ricorrente aveva richiesto di ridurre la produzione di tali farmaci, in realtà Biopharma aveva già prodotto tutto l’ordinativo di 90.000 pezzi, sicchè aveva il diritto a percepire, sotto forma di risarcimento del danno, il prezzo che sarebbe stato corrisposto anche per i farmaci non ritirati.
La sentenza in parte qua aveva riconosciuto un danno che in realtà non risultava provato. Inoltre, come anche sostenuto nel terzo motivo di ricorso, una volta prodottasi la risoluzione del contratto, il danno non poteva essere riconosciuto in maniera pari al prezzo pattuito, occorrendo invece tenere conto di quanto l’attrice aveva recuperato in conseguenza della stessa risoluzione. Quindi anche in questo caso il danno doveva essere determinato in base alla differenza di valore tra le due prestazioni dedotte in contratto.
2. Attesa la stretta connessione delle questioni proposte, i primi due motivi di ricorso devono esser congiuntamente esaminati.
Effettivamente, come si ricava dalla lettura dei motivi di appello così come riportati nel ricorso, e come confermato dalla difesa anche della controricorrente, Biopharma, a fronte della pronuncia del Tribunale, che aveva ritenuto estesa la richiesta di risoluzione a tutti i contratti riportati in citazione, e quindi anche a quello del 20 luglio 2004 avente ad oggetto la cessione alla ricorrente del dossier Amoxicillina Clavulanico, sicchè avendo ritenuto sussistere l’inadempimento dell’acquirente, era pervenuta a pronunziare la risoluzione del contratto, però escludendo che potesse liquidarsi il danno nella somma richiesta dalla attrice (e cioè in misura pari al prezzo pattuito), aveva dedotto che in realtà non vi era domanda di risoluzione anche per tale contratto.
Ha, infatti, sostenuto che per un mero refuso, nelle conclusioni della citazione, la richiesta di risoluzione era stata estesa a tutti i contratti, ivi incluso quello qui in esame, relativamente al quale però l’effettivo tenore della domanda era quello di condanna della controparte all’adempimento.
In ogni caso, con il secondo motivo di appello proposto in via logicamente subordinata rispetto al primo, Biopharma deduceva che, anche laddove si fosse ritenuto che la domanda proposta era quella di risoluzione, aveva errato il Tribunale nel non riconoscere il danno nella misura richiesta, anche quale conseguenza dell’intervenuta risoluzione del contratto.
La sentenza gravata, pur avendo in premessa dato atto di quale era l’effettivo tenore del primo motivo di appello, ha però ritenuto fondato lo stesso sia in rito che nel merito.
Ha affermato che quando una parte contrattuale chiede al giudice di accertare i gravi inadempimenti della controparte in ordine a tutti i contratti e chieda la loro risoluzione per fatto e colpa della stessa controparte, con sua condanna al risarcimento del danno, non vi è dubbio che quella parte abbia inteso ottenere una pronuncia che consenta di rivalersi di quanto non ottenuto in via di esatto e puntuale adempimento contrattuale; e se il danno subito viene indicato come corrispondente al mancato incasso del prezzo pattuito in contratto, non si verte in una “situazione/domanda” nuova ed inammissibile ma semplicemente, nella allegazione del danno subito per il fatto dell’altrui inadempimento.
Quindi dopo avere altresì ricordato che la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, ha affermato che correttamente l’appellante aveva chiesto la risoluzione del contratto e la condanna della convenuta a risarcirle i danni cagionati equivalenti al corrispettivo del contratto non adempiuto (che è cosa del tutto diversa dalla domanda di adempimento del contratto che coinvolge tutte le prestazioni previste nel contratto).
Per l’effetto doveva altresì escludersi che fosse stata fatta confusione tra concetto di “danno” e prezzo, posto che ove la parte non inadempiente chieda che, a titolo di danno, le venga riconosciuto il mancato guadagno (il lucro cessante) pari al prezzo pattuito e non versato dalla controparte inadempiente, non pretende il riconoscimento automatico del pagamento di una somma a titolo di corrispettivo in assenza del contratto ma chiede di essere ristorata di un danno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ex artt. 1218 e 1223 c.c..
Quindi dopo avere richiamato gli argomenti del Tribunale, in merito all’accertamento del grave inadempimento della Germed, ha reputato di dover riformare la decisione appellata circa le conseguenze dell’accertato inadempimento della società appellata alle obbligazioni assunte con il contratto di vendita e produzione in data (OMISSIS); conseguenze che, in termini risarcitori, consistono nella perdita dei vantaggi che l’adempimento del contratto avrebbe portato alla società appellante.
Ha infatti ritenuto che secondo la Cassazione da tempo può ritenersi che il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, e deve pertanto escludersi per i mancati guadagni meramente ipotetici, dipendenti da condizioni incerte: giudizio probabilistico, questo, che, in considerazione della particolare pretesa, ben può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito. Per l’effetto poteva ritenersi che il pregiudizio subito dalla appellante consisteva nel mancato accrescimento patrimoniale che sarebbe conseguito all’esatto e completo adempimento delle obbligazioni gravanti sulla appellata (pagamento del corrispettivo della cessione dei due dossier tecnici pari a Euro 1.400.000,00 oltre iva).
Il danno, immediato, subito dalla appellante era quindi costituito dal mancato versamento del prezzo previsto nel contratto quale perdita subita ed al tempo stesso, mancato guadagno dell’intrapresa contrattuale pattuita con la appellata.
Effettivamente la risposta data dalla Corte distrettuale al primo motivo di appello non corrisponde a quelle che erano le richieste dell’appellante, che mirava ad ottenere una condanna all’adempimento del contratto, sicchè non vi sarebbe perfetta corrispondenza tra la richiesta ed il contenuto della sentenza, che invece ha confermato la pronuncia di risoluzione per inadempimento.
Inoltre con riferimento al secondo motivo di appello, con il quale si intendeva contestare, nell’ottica della intervenuta risoluzione del contratto, e nell’ipotesi di rigetto del primo motivo di appello, la correttezza della decisione circa l’impossibilità di poter riconoscere il danno nella misura richiesta dall’attrice, la Corte romana è pervenuta ad una declaratoria di assorbimento.
I motivi sono infondati, posto che, sebbene emerga in maniera evidente l’errore nel quale è incorsa la Corte di merito laddove pur dichiarando di accogliere il primo motivo di appello, lo ha nei fatti rigettato, tuttavia la sostanza della decisione si risolve in un accoglimento del secondo motivo di appello.
La contraddizione palesata dalla dichiarazione di formale accoglimento del primo motivo, a fronte di una decisione che si risolve in un suo rigetto, ma che al contempo vale come accoglimento del secondo motivo di appello, ben può essere sanata mediante la mera correzione della motivazione della sentenza impugnata, e ciò tenuto anche conto del fatto che la parte appellante che a suo tempo aveva contestato la decisione del Tribunale di pronunziare la risoluzione di tutti i contratti dedotti in giudizio, ivi incluso quello relativo alla cessione del dossier Amoxicillina – Clavulanico, non ha inteso contestare oltre la correttezza dell’interpretazione della domanda così come fornita dai giudici di merito, mostrandosi quindi soddisfatta della pronuncia di risoluzione.
In tale prospettiva appare quindi possibile affermare che il reale contenuto della sentenza, quale emerge in maniera evidente dalle conclusioni raggiunte, sia nel senso che il primo motivo di appello sia stato rigettato e che invece il secondo sia stato accolto, e ciò conformemente a quelle che comunque erano le richieste formulate dall’appellante.
Ne discende quindi che i primi due motivi devono essere disattesi.
3. Il terzo motivo merita invece accoglimento.
Il giudice di appello ha infatti riconosciuto il danno derivante dall’inadempimento della ricorrente e che ha portato alla risoluzione del contratto di cessione del dossier, in misura del tutto corrispondente al prezzo non pagato, affermazione questa di per sè non irragionevole, ma si denunzia che in tal modo ha trascurato del tutto l’effetto della risoluzione che consente al creditore adempiente, proprio in ragione del venir meno della causa delle reciproche attribuzioni, di rientrare nella piena titolarità del bene che era oggetto del contratto di cessione.
A tal fine la stessa controricorrente riconosce che effettivamente ha riacquistato la disponibilità giuridica dei dossier ceduti, ma assume che gli stessi oggi non conserverebbero più alcun valore, non solo per la stessa parte, ma anche per eventuali terzi, non essendo più un bene commercialmente appetibile.
Reputa il Collegio che in tal modo la decisione si sia posta in contrasto con i principi che il giudice di legittimità ha reiteratamente affermato in materia.
In tale ottica, si è infatti ribadito che (cfr. Cass. n. 12966/2014) ai sensi dell’art. 1453 c.c., la domanda proposta per la risoluzione di un rapporto contrattuale, in relazione all’inadempimento della controparte, non preclude alla parte non inadempiente il diritto a ottenere il risarcimento dei danni, commisurato, ex art. 1223 c.c., all’incremento patrimoniale netto che avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto, escluso il pregiudizio che lo stesso danneggiato avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza e che peraltro (cfr. Cass. n. 3598/2004), sebbene la domanda proposta per la risoluzione di un rapporto contrattuale, in relazione all’inadempimento della controparte, non precluda alla parte non inadempiente il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni, che va però commisurato, ex art. 1223 c.c., all’incremento patrimoniale netto che avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto. In termini si veda anche Cass. n. 4473/2001 che ha ribadito che in caso di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento del compratore, il danno va commisurato all’incremento patrimoniale netto che il venditore avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto (conf. ex multis Cass. n. 3750/1994 nella quale si precisa che a seguito della pronuncia di risoluzione di una compravendita immobiliare in ragione del mancato pagamento del prezzo da parte del compratore, il venditore adempiente, consegue con la restituzione del bene solo in parte la riparazione del pregiudizio subito).
Una volta posti tali principi, deve ritenersi sussistente la dedotta violazione di legge n alternativa si potrebbe ritenere che vi sia diretta violazione di le quanto ai criteri che devono presiedere alla liquidazione del danno, in quanto dando seguito alla soluzione alla quale è pervenuto il giudice di merito, e sebbene l’effetto della risoluzione abbia determinato il riacquisto e la disponibilità giuridica in capo alla venditrice del dossier oggetto di causa (con la conseguente possibilità di poterne nuovamente disporre), il contraente adempiente non è stato posto in una posizione di sostanziale indifferenza rispetto all’ipotesi di adempimento della prestazione (alla quale mira per equivalente il risarcimento del danno), ma in una condizione di maggior favore, venendo quindi a locupletare dall’altrui inadempimento, ritrovandosi pertanto sia con la prestazione che sarebbe stata adempiuta ove il contratto avesse ricevuto puntuale esecuzione, che con il bene che era oggetto di cessione, e del quale avrebbe perso la titolarità ove il contratto fosse stato adempiuto.
Nè la decisione di merito ha argomentato specificamente in ordine alla ritenuta assenza di valore dei dossier alla data della sua pronuncia, di guisa che la decisione impugnata, lungi dal risolversi, come sostenuto dalla società attrice, in un’erronea valutazione in fatto, si manifesta come una violazione dei criteri di legge che devono presiedere alla valutazione del danno, e che impongono, al fine di accertare il pregiudizio effettivo subito dal contraete adempiente, che lo stesso debba essere valutato al netto di quanto conseguito per effetto dell’inefficacia scaturente dall’effetto risolutorio, anche in punto di prestazioni eseguite in favore della controparte.
La sentenza deve pertanto essere cassata in accoglimento del motivo in esame, dovendo i giudici di merito in sede di rinvio provvedere all’accertamento del danno conformemente ai principi esposti.
4. Il quarto ed il quinto motivo possono essere congiuntamente esaminati attesa la quasi totale identità delle questioni giuridiche che gli stessi sollevano.
La Corte d’Appello, una volta dichiarata la risoluzione del contratto di cessione dei dossier per il farmaco Amoxicillina – Clavulanico, si è occupata anche della richiesta di risoluzione e risarcimento danni del collegato contratto di produzione, ritenendola, in riforma della decisione del Tribunale, fondata.
Infatti le parti avevano concordato, a seguito della cessione, che la Germed avrebbe fatto produrre in esclusiva i farmaci dalla società cedente, prevedendosi in particolare che parte del prezzo della cessione sarebbe stato corrisposto mediante un sovrapprezzo pari ad 0,50 sulla produzione del primo milione di astucci.
Secondo la sentenza gravata la Germed non aveva fatto fronte agli impegni assunti, non ordinando il quantitativo pattuito, avendo anche violato l’obbligo di far produrre i farmaci in oggetto in esclusiva alla controricorrente non avendo altresì rispettato il quantitativo minimo di un milione di astucci sui quali praticare il sovraprezzo al fine di assicurare anche il pagamento di parte del prezzo della cessione.
Analogamente, nell’esaminare la violazione delle prestazioni scaturenti dai contratti di produzione relativi ai farmaci Ceftriaxone e Ceftazidina, la sentenza gravata ha ritenuto che gli stessi prevedessero, diversamente da quanto invece opinato dal Tribunale l’obbligo di ordinare dei quantitativi minimi.
Il Giudice di primo grado, nell’esaminare il contratto di produzione sottoscritto in data 27.6.2003, ove si diceva che la Germed “intende produrre, nei quantitativi minimi in seguito descritti” entrambe le specialità medicinali in oggetto presso la società Biopharma, precisando che i termini e modalità di produzione sarebbero stati fissati in un separato accordo produttivo, ha evidenziato che, in sede di disciplina delle “condizioni di produzione” la ricorrente si impegnava a formalizzare un ordine annuale denominato “forecast” che sarebbe poi stato suddiviso in ordini parziali. Inoltre i contratti prevedevano, altresì, che “nel caso in cui gli ordini di produzione fossero inferiori rispetto a quelli previsti nel forecast annuale…” e, quindi, prevedeva che nel caso fossero minori al minimo annuale indicato dalle parti, “… la Committente si impegna a rimborsare al Produttore il costo dei materiali acquistati in giacenza”.
Secondo la Corte d’Appello, invece tali previsioni andavano correttamente interpretate nel senso che bisognava partire da quelle del contratto di vendita e produzione, e precisamente dall’impegno di cui al punto 1, con il quale la Pliva (oggi Germed) dichiarava che intendeva produrre nei quantitativi minimi in seguito descritti, ambo le specialità medicinali presso BIOPHARMA, per la successiva vendita in Italia. Tale previsione non poteva avere altro significato se non quello di aver fissato – a vantaggio del produttore Biopharma – un minimo annuo garantito, derogabile, in aumento (ma non in diminuzione), sulla base di previsioni (il cd. forecast) di maggior produzione da comunicare al produttore onde consentire di adeguare ed organizzare le sue linee produttive, già programmate per la produzione del “minimo” fissato in contratto.
In nessuna clausola del contratto di produzione, e del successivo disciplinare tecnico, era stata prevista, e pattuita, una derogabilità dei quantitativi minimi a discrezione della committenza, potendosi solo procedere ad aumenti di produzione ove comunicati alla produttrice in base alle previsioni future (il forecast) le quali, una volta comunicate al produttore (90 giorni prima dell’inizio della produzione) e da questo poste in effettiva produzione nelle nuove quantità, avrebbero determinato il diverso meccanismo del rimborso di cui al 1 punto 4.4. del contratto di fornitura (“nel caso in cui gli ordini di produzione fossero inferiori rispetto a quelli previsti nel forecast annuale, la Committente si impegna a rimborsare al Produttore il costo dei materiali acquistati in giacenza”), con il rimborso alla Biopharma dei materiali acquistati per poter procedere alla maggior produzione richiesta con il programma di produzione di cui al punto 3.5. (“la Committente formalizzerà un ordine annuale di produzione compilando l’allegato H. Il forecast annuale sarà suddiviso in ordini parziali emessi dalla Committente 90 giorni prima dell’inizio della produzione come riportato nell’allegato L”). Inoltre tale interpretazione (basata secondo la Corte d’Appello, sulla letterale volontà manifestata dalle parti nel testo contrattuale) trovava riscontro e conferma anche nell’intenzione dei contraenti al momento della stipula, desunta dalla natura stessa dei rapporti di interesse sottesi ai contratti in parola, essendo l’interesse della Biopharma quello di ottenere, dopo la cessione alla Germed dei dossier tecnici e dell’AIC dei due farmaci in esame (rientranti nella categoria dei c.d. farmaci equivalenti), l’esclusiva di produzione di quei fatinaci in un quantitativo tale (il minimo annuo) da poter essere remunerativo dell’investimento fatto per acquisire i diritti di produzione di quei farmaci che, non potendo vendere direttamente sul mercato, doveva produrre per conto di una azienda farmaceutica. A tal fine era necessario prevedere dei minimi garantiti (cioè non derogabili) di prodotto onde impedire al Committente (che avrebbe venduto i farmaci sul mercato) di fissare soglie di prodotto non adeguatamente remunerative sia delle spese che degli investimenti fatti per acquisire i dossier tecnici e la successiva A.I.C..
I motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.
Ed, invero, a fronte di una logica ed argomentata ricostruzione della volontà contrattuale fondata sia sulla necessaria valorizzazione delle espressioni letterali utilizzate al fine di determinare la reale intenzione dei contraenti, sia sulla valenza sistematica delle varie clausole, in attuazione di quanto disposto dall’art. 1363 c.c., la ricorrente, con una censura incentrata sulla sola violazione di legge (e quindi senza dedurre altresì, sia pure nel più limitato spazio che oggi offre la legge, la violazione della diversa previsione di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5) si limita a denunziare in maniera assolutamente generica la violazione delle regole legali di interpretazione del contratto, essendosi a ben vedere limitata solo a riprodurre il testo dei contratti, ma senza individuare in dettaglio quale sia stato l’errore commesso dal giudice di merito ed in che modo vi sia difformità tra l’attività interpretativa compiuta da quest’ultimo ed i parametri imposti dal legislatore.
La doglianza a ben vedere si traduce in una surrettizia richiesta di rivalutazione dei fatti di causa, occorrendo a tal fine richiamare il tradizionale orientamento di questa Corte per il quale l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneut

personale scolastico- supposto intento vessatorio su atti da parte del provveditorato

27/01/2017 n. 2148 -

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 3359 del 2011, rigettava l’appello proposto da S.G. nei confronti del MIUR, della Direzione scolastica regionale della Campania e dell’Ufficio scolastico provinciale di Napoli, avverso la sentenza emessa, tra le parti, dal Tribunale di Napoli, in data 20 dicembre 2007.

2. Espone il giudice di appello che il prof. S.G., premesso di essere stato, a partire dall’anno scolastico 1989/1990, Preside della scuola media statale “(OMISSIS) e, successivamente, dall’anno scolastico 2001/2002, Dirigente scolastico presso il “liceo classico liceo scientifico – istituto magistrale di (OMISSIS)”, esponeva che, a far data da una richiesta di ispezione dei primi mesi del 1994, era stato sottoposto dal Provveditorato agli Studi di Napoli) primate dalla Direzione scolastica regionale della Campania, poi, a mezzo dei suoi funzionari o di funzionari inviati per iniziativa dei detti uffici, ad una serie di atti e comportamenti di sistematica vessazione, protratti nel tempo e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato alla distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima ed all’obiettivo primario di provocarne le dimissioni, o comunque la cessazione del rapporto di lavoro.

In particolare, ricorda la Corte d’Appello, il ricorrente deduceva di essere stato sottoposto a: “esercizio esasperato eccessivo ed immotivato di forme di controllo (innumerevoli visite ispettive e provvedimenti di ispezione); impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie (rifiuto di rilascio di informazioni e copie di atti, anche relativi al fascicolo personale); frequenti sparizioni dagli uffici del provveditorato agli studi di Napoli e poi della direzione scolastica regionale della Campania di documenti rilevanti, relativi alla persona del S. od alla scuola da lui diretta, sparizioni a seguito delle quali spesso il S. o la scuola da lui diretta venivano esclusi da approvazione di finanziamenti o altri vantaggi o utilità; esclusione o illegittima postposizione del nominativo del S. e di quello della scuola da lui diretta da graduatorie relative a assegnazioni di incarichi o assegnazioni di fondi o assegnazioni di personale o da graduatorie per la partecipazione alle quali avevano regolarmente presentato domanda, il tutto motivato da misteriose sparizioni di documenti o non motivato affatto; sistematica omissione di intervento in relazione ai rapporti inviati dal prof. S. relativi alle condizioni della propria scuola e ai gravi problemi in essa presentatisi, problemi mai risolti in tempo ragionevole; sistematica omissione di intervento in relazione alle lamentele inviate dal prof. S. al Ministero, ai dirigenti apicali del provveditorato ed a quelli della Direzione regionale circa le vessazioni subite”.

Dettagliati i singoli comportamenti vessatori relativi ad un arco temporale intercorrente dal 1994 al 2005, il ricorrente allegava che gli stessi gli avevano provocato danni sia alla salute fisica, sia alla vita esistenziale e di relazione.

Chiedeva, quindi, di accertare che il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania ed il MIUR avevano violato gli artt. 2087 e 2043 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e l’art. 41 Cost., comma 2, ponendo in essere dal 1994 ad oggi (al ricorso) sistematicamente condotte qualificabili come mobbing, e che tali condotte avevano provocato ad esso ricorrente gravi danni quantificabili complessivamente in Euro 983.699,31, di cui Euro 53.217,04 per danno biologico, Euro 2.582,50 per danno biologico temporaneo, Euro 27.899,77 per danno morale, Euro 100.000,00 a titolo di danno all’immagine professionale, Euro 800.000,00 a titolo di danno esistenziale ed alla vita di relazione, ed Euro 6.000,00 a titolo di danno materiale, e per l’effetto chiedeva di condannare il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania e il MIUR, in proprio e quali successori ex lege del Provveditorato agli studi di Napoli, a pagare la somma di Euro 983.699,31, o quella diversa maggiore o minore che fosse risultata congrua al giudicante, il tutto con rivalutazione e gli interessi sulla somma via via rivalutata dall’evento al soddisfo, con clausola di provvisoria esecuzione e spese di giudizio.

Le domande venivano contrastate dall’Amministrazione che si costituiva in giudizio e ne chiedeva il rigetto.

2.1. Con un secondo ricorso, depositato il 16 marzo 2006, il prof. S. conveniva in giudizio le medesime Amministrazioni affermando che, dopo la presentazione del primo ricorso, veniva sottoposto dalla Direzione scolastica regionale della Campania e dal Centro servizi amministrativi di Napoli, a mezzo di propri funzionari, ad una serie ulteriore e più grave di atti e comportamenti di sistematica vessazione, protratti nel tempo e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato alla distruzione psicologica sociale e professionale della vittima, ed all’obiettivo primario di provocarne le dimissioni, o comunque la cessazione del rapporto di lavoro.

Ricorda la Corte d’Appello che il ricorrente esponeva, in particolare di essere stato sottoposto a: “impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie (rifiuto di rilascio informazioni e copie di atti, anche relativi al fascicolo personale del S. etc.); frequente sparizione dagli uffici del Centro servizi amministrativi di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR di documenti rilevanti, relativi alla persona del S. o alla scuola da lui diretta, sparizione a seguito della quale spesso il S. o la scuola da lui diretta venivano impediti nella possibilità di tutelare i propri diritti o conseguire particolari vantaggi; impedimento nella possibilità di tutelare i propri diritti o conseguire particolari vantaggi (visionare ed estrarre copia di documenti, assumere il nome di ” M.E.” come nome della scuola, etc.); esclusione del nominativo del S. e di quello della scuola da lui diretta da graduatorie relative ad assegnazione di incarichi o assegnazione di fondi o assegnazione di personale, graduatorie per la partecipazione alle quali avevano presentato domanda, motivata da misteriose sparizioni di documenti o non motivata affatto; attribuzione al S. di ordini illegittimi e nel contempo screditanti per la sua persona e per la sua immagine professionale, quale quello di recarsi in sedi ufficiali a sostenere il contrario di quello che legittimamente egli in documenti precedenti aveva sostenuto nell’interesse dell’Amministrazione; sistematica omissione di intervento in relazione alle lamentele inviate dal ricorrente al Ministero circa le sistematiche vessazioni subite”.

Descritti tali fatti avvenuti successivamente al 22 aprile 2005, il ricorrente lamentava che gli stessi avevano provocato un aggravamento delle proprie condizioni di salute ed ulteriori ripercussioni negative sulla propria vita familiare e personale.

Chiedeva, quindi, di accertare che il Centro servizi amministrativi di Napoli, la Direzione scolastica regionale della Campania ed il MIUR avevano violato gli artt. 2087 e 2043 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e l’art. 41 Cost., comma 2, ponendo in essere dall’aprile 2005 ad oggi (al ricorso) sistematicamente condotte qualificabili come mobbing, e che tali condotte avevano provocato allo stesso gravi danni quantificabili, complessivamente, in Euro 283.699,31, di cui Euro 53.217,04 per danno biologico, Euro 2.582,50 per danno biologico temporaneo, Euro 27.899,77 per danno morale, Euro 100.000,00 a titolo di danno all’immagine professionale, Euro 100.000,00 a titolo di danno esistenziale ed alla vita di relazione, e per l’effetto chiedeva di condannare le suddette Amministrazioni a pagare ad esso ricorrente la indicata somma o quella diversa maggiore o minore che fosse risultata congrua al giudicante, il tutto con rivalutazione e gli interessi sulla somma via via rivalutata dall’evento al soddisfo, con clausola di provvisoria esecuzione e spese di giudizio.

Anche in questo caso l’Amministrazione si costituiva chiedendo il rigetto delle domande.

3. Il Tribunale riuniva i ricorsi per ragioni di connessione e li rigettava, compensando tra le parti le spese di giudizio.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il S. prospettando 11 motivi di impugnazione.

5. Resiste il MIUR con controricorso

6. Il S. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. 1. Prima di esaminare i motivi del ricorso, è opportuno ricordare quanto segue, tenuto conto che, ratione temporis (la sentenza di appello veniva depositata l’8 giugno 2011), trova, nella specie, applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo anteriore alla novella introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

2. il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass., n. 9233 del 2006).

Lo scrutinio effettuato dalla Corte di cassazione non può, dunque, riguardare il convincimento in sè stesso del giudice di merito, come tale incensurabile, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, il che si tradurrebbe in un complessivo riesame del merito della causa (Cass., n. 16526 del 2016, n. 14929 del 2012; Cass., n. 5205 del 2010; Cass., n. 10854 del 2009).

Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale dunque alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Ed infatti, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass., n. 13054 del 2014).

Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass., sentenza n. 11511 del 2014).

3. Va altresì ricordato (Cass., n. 17698 del 2014) che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti, i comportamenti lesivi.

4. Tanto premesso, può passarsi all’esame dei motivi di ricorso, che di seguito si riportano in sintesi.

5. Con il primo motivo di ricorso (pagg. 64-69 del ricorso) è dedotta la censura di insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: “come la Corte debba comportarsi di fronte alle risultanze istruttorie” (pagg. 11 e 12 della sentenza di appello), art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Rileva il ricorrente che il giudice di appello ha affermato, in relazione alla censura rivolta alla sentenza di primo grado in ordine al mancato pedissequo esame dei singoli episodi narrati dal ricorrente a conferma della persecuzione subita, dopo avere richiamato alcune pronunce di legittimità, che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che spetti in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e quindi di scegliere tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottese, dando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti.

L’esigenza di un’adeguata motivazione può quindi ritenersi soddisfatta quando il convincimento raggiunto dal giudice risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e di tutte le emergenze istruttorie, bensì di quelle delle stesse ritenute di per sè idonee a giustificarlo.

Pertanto, la Corte d’Appello affermava che la circostanza che nella motivazione della sentenza di primo grado impugnata non si fosse dato conto dei singoli ed innumerevoli episodi allegati da parte del ricorrente non significava che gli stessi non fossero stati attentamente esaminati e valutati; significava solo che nell’iter argomentativo seguito dal primo giudice gli stessi non erano stati ritenuti rilevanti a confortare la tesi sostenuta dal ricorrente.

Il ricorrente censura l’applicazione che di tali principi, dopo averli enunciati, la Corte d’Appello ha fatto nel corso della sentenza, in quanto non avrebbe esaminato un intero ricorso (il secondo autonomo ricorso, incorrendo nel vizio di omesso esame di domanda, ad avviso del ricorrente censurabile ex art. 360 c.p.c., n. 5), non avrebbe esaminato il risultato della prova testimoniale, non avrebbe esaminato la mancata ottemperanza ad un ordine di esibizione disposto dal giudice di primo grado, non avrebbe esaminato interi capitoli di episodi contenuti nel primo ricorso.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Va rilevato che, come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 22759 del 2014, n. 2687 del 2015), l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Diversamente, il vizio di omessa pronuncia con riguardo ad istanze istruttorie è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr., Cass., n. 6715 del 2013).

Pertanto, il vizio di omessa pronuncia con riguardo alla domanda oggetto del secondo ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile.

Per quanto attiene al dedotto mancato esame di prove, episodi e ordine di esibizione, i principi enunciati dalla Corte d’Appello sono conformi a quelli enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, sopra richiamati e l’odierna censura, per come formulata, non consente l’effettuazione del giudizio di rilevanza su deduzioni o prove che non sarebbero state vagliate in quanto non specifica le stesse, nè tale specificazione può trarsi dagli incisi della sentenza riportati a pag. 65 del ricorso.

Ed infatti, come statuito con la sentenza n. 3668 del 2013, la nozione di punto decisivo della controversia, di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sotto un primo aspetto si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, afferisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa.

Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile solo per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile solo perchè su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo sic et sempliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito.

6. Con il secondo motivo di ricorso (pagg. 69- 73 del ricorso) è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; la sconcertante motivazione sul mancato esame della mancata ottemperanza all’ordine di esibizione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello con la quale la stessa riteneva del tutto infondato il terzo motivo di gravame non essendo stata specificata, da parte dell’appellante, quale rilevanza avrebbero avuto ai fini del giudizio i documenti di cui si chiedeva l’esibizione.

Si contesta che a fronte di una mancata motivazione da parte del giudice di primo grado, il giudice di appello ha ritenuto che l’appellante avrebbe dovuto dimostrare la rilevanza dell’ordine di esibizione.

Atteso il rilievo dell’ordine di esibizione, il giudice di merito avrebbe dovuto esplicitare le ragioni per cui riteneva di non trarre argomenti di prova dal comportamento omissivo delle parti. Comunque i documenti erano rilevanti perchè provenivano da un superiore gerarchico ( D.F.L., che il ricorrente ricorda citato a pag. 10 della sentenza di appello. Parte dello svolgimento del processo, ove il giudice di secondo grado ripercorre i motivi di appello, n. 17 relativo alla sussistenza di comportamento persecutorio in ragione della continua ed abnorme sottoposizione ad ispezioni) del ricorrente, ed erano citati dagli ispettori nell’elenco degli allegati alla relazione ispettiva ministeriale.

6.1. La statuizione della Corte di Appello si sottrae al denunciato vizio in quanto, come affermato da quest’ultima, la rilevanza dei documenti oggetto dell’ordine di esibizione inadempiuto doveva essere prospettata in relazione al ragionamento decisorio del giudice di primo grado, ponendo in rilievo la decisività degli stessi ai fini di una diversa statuizione rispetto a quella assunta dal Tribunale.

Ciò, tenuto conto, peraltro, che come statuito da questa Corte (cfr., Cass., n. 15554 del 2004, n. 15768 del 2004) integrando l’inosservanza dell’ ordine di esibizione di documenti un comportamento dal quale il giudice può, nell’esercizio di poteri discrezionali, desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116 c.p.c., comma 2, non è censurabile in sede di legittimità, neanche per difetto di motivazione, la mancata valorizzazione dell’inosservanza dell’ ordine ai fini della decisione di merito.

7. Con il terzo motivo (pagg. 73-74 del ricorso) è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2.

Quanto affermato dalla Corte d’Appello in relazione all’ordine di esibizione non solo sarebbe illogico e contraddittorio ma violerebbe l’art. 116 c.p.c., comma 2, dovendo il giudice dall’inottemperanza desumere argomenti di prova, o motivare in merito.

7.1. Il motivo non è fondato.

Come si è già ricordato dall’ingiustificata inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti emesso ai sensi dell’art. 210 c.p.c., il giudice può desumere argomenti di prova in pregiudizio della parte che non ha osservato l’ordine anche ai fini della liquidazione equitativa del danno, e trattandosi di potere discrezionale, il suo mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità neppure per difetto di motivazione.

Nè può trovare applicazione, nella specie, Cass, ord. 225 del 2016, atteso che nella relativa fattispecie (prova in ordine alla capacità reddituale dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, ove il giudice abbia chiesto ad entrambe le parti l’esibizione della documentazione relativa ai rapporti bancari da ciascuna intrattenuti, ed una sola di queste abbia ottemperato alla richiesta fornendo materia per gli accertamenti giudiziali) veniva in rilievo l’asimmetria comportamentale ed informativa tra le due parti (che non vi è nella presente fattispecie in esame), entrambe destinatarie dell’ordine di esibizione, ottemperato solo da una, con conseguente inadempienza dell’altra da cui desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., comma 2, con obbligo di motivazione per il giudice.

8. Con il quarto motivo di ricorso (pagg. 74-88 del ricorso) è prospettata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: la Corte di merito avrebbe omesso la ricerca del filo conduttore, prima enunciata e poi interrotta (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il ricorrente ricorda che la Corte d’Appello in premessa ha ricordato gli elementi che concorrono ad integrare la fattispecie del mobbing (in sintesi, cfr. citata Cass., n. 17698 del 2014: una serie di comportamenti di carattere persecutorio, l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente, il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito, l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi), ponendo in rilievo che la peculiarità della condotta illecita posta in essere dal datore di lavoro, in violazione dell’art. 2087 c.c., consiste nell’intento vessatorio e persecutorio che deve caratterizzare i singoli comportamenti reiterati nel tempo. Tale intento persecutorio deve emergere in maniera oggettiva e quindi da circostanze e fatti precisi che sarebbero percepiti in maniera identica da chiunque si trovasse in quella particolare situazione. Non possono invece rilevare condizioni soggettive del lavoratore.

Il giudice di secondo grado, quindi, affermava che l’appellante intendeva ricondurre ad un unico intento persecutorio espresso dall’Amministrazione nei suoi confronti una serie di condotte poste in essere da soggetti diversi nell’arco di oltre dieci anni, dovendosi ipotizzare che tutte le condotte lamentate, sia gli atti volontari quali l’invio di ispezioni, sia gli atti presumibilmente dovuti a disservizi e disfunzioni dell’Amministrazione, quali la perdita di documenti, fossero ricollegabili tra loro da un unico filo conduttore, cioè l’intento vessatorio dell’Amministrazione.

La Corte d’Appello riteneva inverosimile una tesi simile in considerazione del gran numero di soggetti che, nell’arco temporale preso in esame, sarebbero stati coinvolti in tale finalità vessatoria.

Tale statuizione (pagg. 13 e 14 della sentenza di appello) è censurata in quanto la Corte d’Appello dapprima ricorda i quattro elementi costitutivi del mobbing, ma poi valorizza, quale peculiarità della condotta del datore di lavoro, il solo intento persecutorio e dimentica gli altri tre elementi. Ciò, inoltre, ad avviso del ricorrente regge la prova logica solo ritenendo ellitticamnete sussistenti gli altri tre elementi.

Altra censura è mossa, in particolare, al mancato esame dei singoli ed innumerevoli episodi allegati da esso ricorrente per il solo fatto che il numero rilevante degli stessi e l’essere accaduti in un vasto arco temporale, ne escluderebbe l’intento persecutorio.

La Corte d’Appello avrebbe, inoltre, dovuto verificare se effettivamente detti episodi erano riconducibili ad un gran numero di soggetti e non ad un piccolo numero di soggetti e la posizione degli stessi nella gerarchia dell’Amministrazione.

8.1. Il motivo non è fondato.

Occorre rilevare che, come ricordato dalla Corte d’Appello, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. 26 marzo 2010, n. 7382).

Congruamente, quindi, la Corte d’Appello ha affermato che la mancanza dell’intento persecutorio non potesse far ricondurre la vicenda in esame al mobbing lavorativo.

Nè tale statuizione ha come presupposto logico (come asserisce il ricorrente) un’implicita affermazione di sussistenza di alcuno degli altri requisiti, attesa l’autonomia degli stessi.

Con adeguata motivazione che si sottrae al vizio denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 5, nei sensi in cui, come si è sopra illustrato, detta censura può essere dedotta in sede di legittimità, la Corte d’Appello ha escluso l’intento persecutorio.

Nella specie il giudice di secondo grado, dopo aver ricordato che l’appellante intendeva ricondurre ad un unico intento persecutorio espresso dall’Amministrazione nei suoi confronti una serie di condotte poste in essere da soggetti diversi nell’arco di oltre dieci anni, e precisato che il ricorrente sosteneva che comportamenti quali l’invio di ispezioni ministeriali, l’impedimento dell’accesso a notizie, la sparizione dagli uffici del C.S.A. di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR di documenti relativi alla sua persona od alle scuole da lui dirette, l’esclusione del suo nominativo e del nominativo delle scuole da lui dirette da graduatorie relative ad incarichi o assegnazioni di fondi o di personale, sarebbero riconducibili ad una medesima volontà ostile volta a mortificarne la professionalità e ad emarginarlo dal suo contesto lavorativo, ha escluso la sussistenza dell’intento persecutorio con motivazione ampia, puntuale ed immune da vizi logici.

Afferma la Corte d’Appello che la tesi del ricorrente, considerando il normale avvicendarsi nell’arco di oltre un decennio del personale impiegatizio e direttivo degli uffici del C.S.A. di Napoli, della Direzione scolastica regionale della Campania e del MIUR, presupporrebbe l’esistenza di una stabile organizzazione creatasi all’interno dell’Amministrazione scolastica con l’unico fine di perseguire, in forme diversificate, l’appellante. Bisognerebbe, infatti, ipotizzare che tutte le condotte lamentate dall’appellante – sia gli atti volontari come l’invio di ispezioni, sia quelli dovuti presumibilmente a disservizi e disfunzioni dell’Amministrazione, quali la perdita di documenti – siano ricollegate dall’intento vessatorio dell’Amministrazione, tesi inverosimile in ragione del gran numero di soggetti coinvolti in tale finalità vessatoria.

La censura del ricorrente, lungi dall’indicare elementi circostanziati, già portati all’attenzione della Corte d’Appello, evidenziandone in modo compiuto la eventuale rilevanza critica rispetto al ragionamento decisorio del giudice di secondo grado, è specificata in modo non adeguato (in particolare pagg. 86 e 88) estrapolando, decontestualizzandole, frasi e parole dalla sentenza di appello, indicando circostanze (l’emersione dall’indice dei documenti – di cui non è indicata la collocazione negli atti del processo, nè è riportato il completo contenuto dello stesso, con ricadute sull’autosufficienza della deduzione della ricorrenza di uno stesso nome B.A. in 69 episodi, di un altro D.F.L. in 25 episodi, di un altro D.S. in 19 episodi) e ponendo domande esplorative che non censurano adeguatamente l’accertamento valutativo della Corte d’Appello in ragione dei principi sopra richiamati, in particolare al par. 1.

9. Con il quinto motivo di ricorso (pagg. 88-91 del ricorso) è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (le risultanze della prova per testimoni): illogicità dei criteri adoperati per la valutazione delle stesse, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il ricorrente censura la statuizione con la quale la Corte d’Appello affermava che la testimonianza del M. che avvalorava che gli ispettori

Quarantotto e G. avessero proferito frasi offensive nei suoi confronti era smentita da quella dei due ispettori medesimi, sentiti come testi, che avevano negato di aver proferito tali frasi, poichè non risultava spiegato perchè si era ritenuto più credibile un teste non indifferente rispetto ad uno indifferente.

9.1. Il motivo non è ammissibile in quanto è rivolto nei confronti solo di una delle due ratio decidendi che autonomamente sorreggono la pronuncia sulla testimonianza del M. e degli ispettori. Ed infatti, il giudice di secondo grado (pagg. 14 e 15 della sentenza) ha, inoltre, affermato l’irrilevanza delle suddette risultanze istruttorie, in quanto le frasi offensive, al più potevano costituire espressione di condotte scortesi e maleducate degli ispettori, ma non certo di comportamenti vessatori.

10. Con il sesto motivo di ricorso (pagg. 91 – 95 del ricorso) è dedotta insufficienza e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: le ispezioni che si susseguono per chiarire se stesse, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ censurata la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha escluso che il potere di controllo sia stato esercitato in modo ossessivo e pretestuoso in quanto la prima ispezione era scaturita da una denuncia dello stesso dirigente scolastico, la seconda era finalizzata ad un approfondimento e la terza era atto dovuto dell’amministrazione, diretto ad accertare la fondatezza di eventua