1. F.L., imputato, e le parti civili, Anna A. e Ivana C., ricorrono per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, rispettivamente nella parte in cui è stata confermata la penale responsabilità del F. e nella parte in cui è stata assolta Z.E., in ordine al reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. perchè, in cooperazione tra loro, in qualità di medici della Divisione clinicizzata di cardiologia dell’Ospedale civile maggiore di (OMISSIS), omettendo la tempestiva identificazione della patologia (dissecazione aortica) da cui era affetto A.G., paziente seguito dal F. nella notte tra il (OMISSIS) e visitato dalla Z. alle ore 9 del (OMISSIS), e omettendo altresì, conseguentemente, l’effettuazione di adeguato intervento chirurgico, cagionavano la morte del paziente, verificatasi il (OMISSIS), per tamponamento cardiaco da rottura di dissecazione del segmento prossimale dell’aorta.
2. F.L. deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto i giudici di merito hanno dato per scontata l’esistenza di sintomi e di dolori che, dati documentali alla mano, non erano riscontrabili. Il ricorrente effettuò personalmente ecografia cardiaca, puntualmente descritta in cartella clinica, e non si spinse oltre, dato che in quel momento la diagnosi era unica e la terapia impostata aveva prodotto effetti positivi, con la cessazione del dolore toracico e la stabilizzazione dell’ECG, della pressione sanguigna e di altri parametri vitali. L’omessa visione diretta delle lastre della radiografia toracica non era operativamente possibile poichè al reparto richiedente perveniva il solo referto redatto dal radiologo, in quanto la lastra veniva materialmente trasmessa solo nei giorni successivi e pertanto, per di più nel giorno di Pasqua, era umanamente impossibile pretendere la trasmissione del supporto visivo. Inoltre, in forza del principio di affidamento, lo specialista deve riconoscere completa attendibilità al referto emesso dal collega di altra branca, che non era certamente viziato in maniera eclatante. Non vi fu dunque alcuna sottovalutazione di sintomi nè alcuna negligenza nell’applicazione dei protocolli di intervento, essendosi mantenuta ferma la diagnosi di sindrome coronarica acuta, che in quel momento non aveva alcuna alternativa e che appariva confermata dal buon esito apparente della terapia farmacologica impostata, anche alla luce dello stato totalmente asintomatico del paziente, che aveva visto regredire il dolore retrosternale così come il blocco atriale da cui era affetto. Nè la necessità di una revisione di tale diagnosi avrebbe potuto insorgere a seguito del rilievo, da parte del personale infermieristico, che il paziente aveva dormito poco durante le ultime ore della notte per intolleranza all’allettamento, liberamente interpretata dai periti come esordio di un dolore lombare ascrivibile alla dissecazione aortica in atto, peraltro senza che vi fosse dolore toracico e retrosternale.
2.1. Manca poi il nesso causale tra la condotta e l’evento. Lo stesso perito, prof. G., ha infatti affermato che almeno per le prime sei ore dal ricovero, e quindi fino alle 3 del mattino del (OMISSIS), era legittimo mantenere la diagnosi di ingresso e cioè quella di sindrome coronarica acuta. Infatti il perito ha affermato che se il paziente fosse stato operato entro le prime sei ore dalla comparsa dei sintomi, le probabilità di successo dell’intervento chirurgico sarebbero state stimabili in una percentuale superiore al 90%. Tuttavia le prime sei ore coincidono con il periodo in cui avvenne l’accesso al Pronto soccorso, il ricovero in unità coronarica e l’effettuazione dei primi esami ed è lo stesso perito ad affermare che in tale lasso di tempo era legittimo un approccio attendista. Il perito inoltre aggiunge che a 6-8 ore dall’accesso ospedaliero, avvenuto alle ore 20,18 del (OMISSIS), la dissezione si era estesa a tutta l’arteria. Tale estensione globale avrebbe dovuto essere diagnosticata per mezzo del cosiddetto dolore migrante dal torace alla zona lombare del paziente, trascritto per la prima volta nella cartella infermieristica alle ore 18 del (OMISSIS), quando ormai il turno del ricorrente si era concluso da più di 10 ore. Ancora si afferma che a 6-12 ore dall’esordio dei sintomi le chances di sopravvivenza sarebbero state superiori al 50-60%. Un dato probabilistico che non consente dunque di ritenere che un intervento devastante quale la sostituzione, in urgenza, di un’arteria principale, come l’aorta, avrebbe avuto probabilità di successo.
Dunque anche anticipando la possibilità di diagnosticare la dissecazione alle prime ore del mattino del 13-4, le probabilità di successo di un ipotetico intervento di sostituzione dell’arteria aortica non avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente. Il giudizio controfattuale porta, quindi, a ritenere che non sussista nesso eziologico tra la presunta omissione riscontrata e l’evento.
3. Le parti civili deducono violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la Corte d’appello ha correttamente affermato che pacificamente, sino al momento in cui la situazione precipitò, non era stata formulata, da parte dei sanitari, la diagnosi corretta.
E’ dunque emersa chiaramente una responsabilità comune, ascrivibile a entrambi gli imputati, che, seppur intervenuti in momenti diversi sul paziente, hanno omesso la dovuta diagnosi differenziale, che avrebbe salvato la vita dell’ A.. La Z., infatti, non rivalutò la diagnosi formulata dal collega che l’aveva preceduta, rimanendo invece ferma sull’erronea posizione diagnostica iniziale, nonostante non fosse stata raggiunta la certezza che la patologia alternativa potesse essere esclusa ed anzi fosse possibile escludere la malattia inizialmente diagnosticata. La Z. non sospettò nemmeno la dissezione dell’aorta come causa del violento dolore toracico e degli altri sintomi presentati dal paziente, non interpretando correttamente come negativi per una sindrome coronarica acuta i risultati dell’ECG e non visionando direttamente la lastra toracica.
3.1.Sussiste altresì il nesso causale tra la condotta della Z. e il decesso. I periti hanno chiarito che nelle prime sei ore dall’ingresso la possibilità di salvezza si attestava sul 90%; tra le 6 e le 12 ore le possibilità di salvezza scendevano in un range compreso fra l’88 e l’80%, per ridursi a percentuali comunque non inferiori al 60% per il resto del tempo. Ne deriva che per le prime ore dalla presa in carico da parte della dottoressa Z. le possibilità di salvezza del paziente erano dell’80 -90%. Dunque appare irragionevole che il giudice d’appello abbia ritenuto carente la prova del nesso causale, tanto più che ci si trovava in una struttura ospedaliera di eccellenza e che il paziente era giovane e privo di altre patologie.
3.2. Le censure sono state ribadite e ulteriormente illustrate dalla parte civile, C.I., con memoria depositata il 15 giugno 2018.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il reato è estinto per prescrizione. Tuttavia, agli effetti civili, occorre affrontare le problematiche poste dal ricorso,presentato dal F.. Dalla relativa disamina emergeranno anche le ragioni per le quali non è possibile applicare l’art. 129 cpv. c.p.p..
2. Il primo motivo del ricorso del F. è infondato.
Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva “tenuta”, sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l’accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-62006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l’apprezzamento della logicità della motivazione (ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).
3. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che, secondo la concorde valutazione dei consulenti tecnici della parte civile, del pubblico ministero e dei periti nominati dal giudice, la situazione patologica prospettatasi doveva indurre ad escludere la diagnosticata sindrome coronarica acuta e ad orientarsi per altra patologia, effettuando le indagini strumentali del caso. Viceversa i sanitari si sono arroccati sulla diagnosi iniziale, senza nemmeno ipotizzare la dissezione dell’aorta e quindi senza disporre le indagini strumentali che avrebbero consentito una valutazione più completa ed efficace. Infatti, una valutazione corretta del tracciato dell’ECG, la negatività degli enzimi miocardici e le indicazioni provenienti dall’ecografia e dalla radiografia toracica, piuttosto che confermare la validità della scelta diagnostica adottata, avrebbero dovuto orientare, secondo una buona scienza medica e soprattutto specialistica, per la diagnosi differenziale, imponendo l’adozione di tecniche strumentali di accertamento, quali la TC multistrato o una ecoangiografia, assolutamente routinari e nient’affatto eccezionali, che avrebbero condotto all’individuazione della dissezione dell’aorta. D’altronde, gli accertamenti strumentali effettuati al momento del ricovero non apparivano affatto dirimenti, poichè anzi le relative risultanze imponevano ulteriori approfondimenti, in considerazione dell’ aspecificità del tracciato dell’ECG e della negatività degli enzimi miocardici. Anche la valutazione delle risultanze dell’ecoscopia appare sommaria e volta a confermare piuttosto che a mettere in discussione la diagnosi iniziale, atteso che non è stata esaminata la parte superiore del cuore, l’origine dell’aorta e i tronchi sovraortici, il cui esame avrebbe potuto essere risolutivo nella definizione della corretta diagnosi. Sono poi stati trascurati ulteriori sintomi e cioè la persistenza e la migrazione del dolore, che, in connessione alle risultanze appena evidenziate, avrebbero imposto anch’essi una revisione dell’originaria diagnosi. Viceversa dopo la diagnosi di sindrome coronarica acuta, nulla è stato fatto per verificare e correggere tale giudizio, nonostante il paziente lamentasse dolori lombari resistenti alla terapia antalgica. L’arroccamento sull’iniziale diagnosi ha determinato così la dimissione del paziente dall’UCIC senza che nel diario clinico fosse nemmeno indicata la necessità di ulteriori accertamenti.
Nè si può obiettare che la dissezione dell’aorta costituisce patologia rara e di difficile individuazione, trattandosi oltretutto di un reparto di alta specializzazione, di livello ben superiore alla norma e di alto profilo internazionale. L’impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso Un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
4. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo sono del tutto aderenti al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo ma anche qualora si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi, ai fini di una corretta formulazione della diagnosi (Cass., Sez. 4, n. 46412 del 28-10-2008, Rv. 242250). D’altronde, allorchè il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a condurre alla formulazione di una diagnosi differenziale, la condotta è colposa allorquando non si proceda alla stessa e ci si mantenga invece nell’erronea posizione diagnostica iniziale (Cass., Sez. 5, n. 52411 del 4-7-2014, Rv. 261363).
4.1. Occorre però stabilire quale sia il regime giuridico applicabile al caso di specie. Al riguardo, occorre rilevare come dall’epoca in cui si è verificato il fatto, nell’anno 2009, ad oggi si siano succedute ben tre normative. Nel 2009 l’ordinamento non dettava alcuna particolare prescrizione in tema di responsabilità medica. Erano dunque applicabili i principi generali in materia di colpa, alla stregua dei quali il professionistà era penalmente responsabile, ex art. 43 c.p., quale che fosse il grado della colpa.
Era cioè indifferente, ai fini della responsabilità, che il medico versasse in colpa lieve o in colpa grave. Nel 2012 entrò in vigore il decreto-legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito in legge 8 novembre 2012 n. 189 (cosiddetta legge Balduzzi), il quale all’art. 3, comma 1, recitava: “L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attiene alle linee-guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi, resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. E’ poi, di recente, entrata in vigore la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), la quale, all’art. 6, ha abrogato il predetto D.L. n. 158 del 2012, art. 3 e ha dettato l’art. 590 sexies c.p., attualmente vigente. Nel caso di specie, va esclusa l’applicabilità sia del D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 1, che dell’art. 590 sexies c.p.. Per quanto riguarda quest’ultima norma, va, infatti, rilevato come il tenore testuale dell’art. 590 sexies, introdotto dalla L. n. 24 del 2017, nella parte in cui fa riferimento alle linee-guida, sia assolutamente inequivoco nel subordinare l’operatività della disposizione all’emanazione di linee-guida “come definite e pubblicate ai sensi di legge”. La norma richiama dunque la L. n. 24 del 2017, art. 5, che detta, come è noto, un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee- guida. Dunque, in mancanza di linee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui alla L. n 24 del 2017, art. 5, non può farsi riferimento all’art. 590 sexies c.p., se non nella parte in cui questa norma richiama le buone pratiche clinico-assistenziali, rimanendo, naturalmente, ferma la possibilità di trarre utili indicazioni di carattere ermeneutico dall’art. 590 sexies c.p., che, a regime, quando verranno emanate le linee-guida con il procedimento di cui all’art. 5, costituirà il fulcro dell’architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico. Ne deriva che la possibilità di riservare uno spazio applicativo nell’attuale panorama fenomenologico all’art. 590 sexies c.p. è ancorata all’opzione ermeneutica consistente nel ritenere che le linee-guida attualmente vigenti, non approvate secondo il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5, possano venire in rilievo, nella prospettiva delineata dalla norma in esame, come buone pratiche clinico-assistenziali. Opzione ermeneutica non agevole ove si consideri che le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico – assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico-terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche (Cass., Sez. 4, n. 18430 del 5-11-2013, Rv. 261293). Esse consistono dunque nell’indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente (Cass., n. 11493 del 24-12013; Cass., n. 7951 dell’8-10-2013, Rv. 259334) e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi (Sez. U., n. 29 del 21-12-2017): e quindi qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-asssitenziale. Ma anche se volesse accedersi alla tesi, pur non esente da profili di problematicità, dell’equiparazione delle linee- guida attualmente vigenti – non approvate ed emanate attraverso il procedimento di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 5 – alle buone pratiche clinico-assistenziali, previste dall’art. 590 sexies c.p., aprendo così la strada ad un’immediata operatività dei principi dettati da quest’ultima norma, rimarrebbe insuperabile il rilievo secondo cui essa esclude la punibilità soltanto laddove siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida oppure le buone pratiche clinico- assistenziali. E abbiamo poc’anzi visto invece come, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, esse non siano state affatto rispettate, poichè i giudici di merito hanno accertato profili di imperizia, consistenti nella mancata posizione in diagnosi differenziale della dissezione dell’aorta e nell’errata formulazione della diagnosi di sindrome coronarica acuta, nonostante gli esiti delle analisi, per nulla dirimenti. Hanno poi accertato profili di negligenza, consistenti nella omessa esecuzione degli esami indicati dalle linee guida; nella omessa visione diretta delle lastre della radiografia toracica, dimostrative dello sbandamento dell’aorta, e nella omessa esecuzione di una ECO completa, per esaminare la parte superiore del cuore, l’origine dell’aorta e i tronchi sovraortici. Vengono dunque a mancare due dei presupposti fondamentali per l’applicabilità dell’art. 590 sexies c.p. e cioè il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida e la ravvisabilità in via esclusiva di imperizia e non anche di negligenza. Per le stesse ragioni non può trovare applicazione neanche il D.L. n. 158 del 2012, art. 3; non potendosi ritenere che il F. si sia attenuto alle linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
4. Anche il secondo motivo del ricorso del F. è infondato. Secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica.
Naturalmente, esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita,. avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Cass., Sez. 4, n. 23339 del 311-2013, Rv. 256941). Per effettuare il giudizio contrattuale, è quindi necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento. In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 4-10-2012, Rv. 255008).
L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacchè solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Cass., Sez. 4, 25.5.2005, Lucarelli). E, al riguardo,le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno ribadito la perdurante validità del plesso concettuale costituito dalla teoria condizionalistica e dalla teoria della causalità umana, quanto alle serie causali sopravvenute, ex art. 41 c.p., comma 2, con l’integrazione del criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche. Secondo il predetto criterio, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – “legge di copertura “-, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducono ad eventi “del tipo” di quello verificatosi in concreto (Sez. U., 10 – 7- 2002, Franzese). Ad ogni spiegazione causale è, dunque, in linea di massima, coessenziale il riferimento ad una legge idonea ad istituire una correlazione fra l’accadimento di cui si cerca la spiegazione e determinati antecedenti fattuali. In assenza di tale legge, è difficile che i fatti, in sè considerati, forniscano una spiegazione, anche se non sembra da escludersi la possibilità di giungere all’enucleazione, in senso positivo o negativo, del nesso di condizionamento attraverso un procedimento di natura induttiva fondato sulla rilevazione di tutte le emergenze del caso concreto, laddove il sapere scientifico ed esperienziale, pur fornendo una serie di metodologie di indagine e di elementi di giudizio, non fornisca parametri nomologici cui correlare la verifica condizionalistica. Ma non appare revocabile in dubbio che, in linea di principio, nella ricerca del nesso di condizionalità necessaria, il riferimento ad una legge – o comunque ad un parametro nomologico, di matrice scientifica o esperienziale – sia fondamentale. Una legge è un enunciato generalizzante, asserente una successione regolare di eventi e perciò idoneo a rendere intelligibile un accadimento del passato ed a consentire previsioni su accadimenti del futuro. La spiegazione di un evento si svolge, perciò, in quest’ottica, secondo un ben preciso schema: ciò che deve essere spiegato (explanandum: ad esempio, la morte di Tizio) viene inferitò da un insieme di premesse (explanans) costituite da enunciati relativi alle condizioni empiriche antecedenti di rilievo (ad esempio, Caio ha sparato a Tizio, colpendolo al cuore) e da generalizzazioni asserenti delle regolarità (se un proiettile attinge il cuore di un uomo, questi muore). Dunque l‘explanandum viene reso intelligibile mediante la connessione ad un complesso di condizioni empiriche antecedenti, sulla base delle leggi incluse nell’explanans. E’ questa la c.d. nozione nomologico-funzionale di causa, prevalente nel pensiero scientifico moderno, secondo la quale il “perchè” di un evento risulta identificato con un insieme di condizioni empiriche antecedenti, contigue nello spazio e continue nel tempo, dalle quali dipende il susseguirsi dell’evento stesso, secondo un’uniformità regolare, rilevata in precedenza ed enunciata in una legge.
5. Ma da dove provengono le leggi utilizzabili dal giudice? Le fonti non possono che essere due: la scienza e l’esperienza. Esula dalla presente trattazione l’analisi del problema dell’utilizzabilità delle leggi di matrice esperienziale. Ci soffermeremo invece sulle leggi scientifiche, che vengono in rilievo nell’ottica della regiudicanda sub iudice.
Cos’è una legge scientifica ? A quali condizioni può dirsi che un enunciato abbia valenza di legge scientifica? Su questo tema si registra una sostanziale convergenza del pensiero scientifico ed epistemologico nell’enucleazione dei seguenti requisiti: la generalità; la controllabilità; il grado di conferma; l’accettazione da parte della comunità scientifica internazionale.
A) E’, in primo luogo, necessario che la legge soddisfi il requisito della generalità: occorre infatti che i casi osservati non coincidano con il campo di applicazione della legge. Ad esempio, l’asserto secondo il quale se si conficca un pugnale nel cuore di un essere umano, questi muore, ha una portata generale perchè, pur essendo vero che il numero di esempi finora osservati di pugnali conficcati in cuori umani è finito, esiste un’infinità di esempi possibili. Se un’asserzione non affermasse nulla di più di quanto venga affermato dalle sue prove, sarebbe assurdo adoperarla per spiegare o per predire qualcosa che non sia già contenuto nelle prove medesime.
B) La controllabilità. E’ coessenziale alla nozione di scientificità la possibilità di assoggettare la teoria a controllo empirico e, pertanto, di valutarla alla luce dei controlli osservativi e sperimentali. Una teoria risulta soddisfacente di fatto (e non solo potenzialmente) se supera i controlli più severi: specialmente quelli che possono essere ritenuti cruciali ancor prima di venire esperiti. Tuttavia, per quante conferme una teoria possa avere avuto, essa non è mai certa, in quanto un controllo successivo può sempre smentirla. Miliardi di conferme non rendono certa una teoria (ad esempio, tuttìi pezzi di legno galleggiano in acqua) mentre un solo fatto negativo (questo pezzo di ebano non galleggia), dal punto di vista logico, la falsifica. Di qui il celebre criterio della falsificabilità elaborato nel pensiero epistemologico moderno, secondo cui un sistema teorico è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza. E’ la caratteristica logica di essere deduttivamente falsificabili che contraddistingue le teorie scientifiche. Le teorie pseudo-scientifiche, come l’astrologia, fanno talvolta predizioni corrette ma sono formulate in un modo tale da essere in grado di sottrarsi ad ogni falsificazione e perciò non sono scientifiche. Va da sè che ove un’affermazione scientifica si imbatta in un singolo caso falsificante, essa deve essere immediatamente respinta. La controllabilità coincide con la falsificabilità e cioè con la smentibilità. Non esiste quindi alcun processo induttivo mediante cui le teorie scientifiche siano confermate. Noi possiamo controllare la validità delle teorie scientifiche esclusivamente deducendone conseguenze e respingendo quelle teorie che implicano una singola conseguenza falsa.
C) Grado di conferma di una teoria scientifica. Strettamente connesso alla nozione di controllabilità è il concetto di grado di conferma o di corroborazione di una teoria. Per grado di corroborazione di una teoria è da intendersi, in quest’ottica, un resoconto valutativo dello stato – ad un determinato momento storico – della discussione critica di una teoria, relativamente al suo grado di controllabilità, alla severità dei controlli cui è stata sottoposta e al modo in cui li ha superati. In sintesi, una valutazione globale del modo in cui una teoria ha retto, fino ad un certo momento della sua discussione critica, ai controlli empirici cui è stata sottoposta; e una valutazione dei risultati dei detti controlli empirici. E’ pertanto possibile parlare esclusivamente di grado di corroborazione di una teoria ad un determinato momento della sua discussione critica e non in assoluto. Al riguardo, anche dalla giurisprudenza d’oltre oceano (sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti 28 giugno 1993, pronunziata nel caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals Inc., che ha analizzato il problema degli effetti teratogeni di un farmaco antinausea, il Bendectin) provengono indicazioni interessanti. La sentenza Daubert indica infatti i seguenti. criteri di affidabilità delle teorie scientifiche:
1) Verificabilità del metodo. Il primo carattere che la conoscenza scientifica deve possedere è quello della verificabilità: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti.
2) Falsificabilità. Il secondo criterio richiede che la teoria scientifica sia sottoposta a tentativi di falsificazione, i quali, se hanno esito negativo, la confermano nella sua credibilità.
3) Conoscenza del tasso di errore. Occorre che al giudice sia resa nota, per ogni metodo proposto, la percentuale di errore accertato o potenziale che questo comporta.
In questa prospettiva, si è evidenziato, in giurisprudenza, che la legge causale scientifica può considerarsi tale soltanto dopo essere stata sottoposta a ripetuti, superati tentativi di falsificazione e dopo avere avuto ripetute conferme, donde, appunto, l'”alto grado di conferma” che la contraddistingue e donde la “fiducia” che non può non esserle riservata. La certezza che essa esprime viene connotata con le formule “alto grado di probabilità “, “alto grado di credibilità razionale “, “alto grado di conferma”, proprio perchè non è un valore assoluto, non è un’acquisizione irreversibile, poichè è certezza “allo stato” ma – va aggiunto-allo stato è certezza e non probabilità (Cass., Sez. 4, 25 novembre 2004, Nobili).
D) Il requisito più pregnante, nell’ottica della giurisprudenza di legittimità, però quello della diffusa accettazione in seno alla comunità scientifica internazionale. La rilevanza di questo requisito è tale da segnare il discrimine tra affermazione e negazione del nesso di causalità. Incertezza scientifica significa mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di un’ipotesi. E da tale incertezza non può che conseguire l’assoluzione dell’imputato perchè in questi casi non può ritenersi realizzata l’evidenza probatoria in ordine all’effettiva efficacia condizionante della condotta. Il giudice è, pertanto, tenuto ad accertare se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 43796 del 17-9-2010, Rv.248943), esaminando le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Cass., Sez. 4, n. 18678 del 14-3-2012, Rv. 252621). Rimane, però, fermo che, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è utilizzabile anche una legge scientifica.che non sia unanimemente riconosciuta,. essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (Sez. U., 25-1-2005, Rv. 230317; Cass., Sez. 4, n. 36280 del 21-6-2012, Rv. 253565). Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamentìe valutazioni di fattd, insindacabili in cassazione, ove sorr