disciplina italiana della revoca delle misure di accoglienza e contrasto con la normativa europea

16/04/2020 n. 437 - TOSCANA -sezione seconda

FATTO e DIRITTO
1. L’odierno ricorrente, cittadino pakistano e richiedente protezione internazionale, è stato ammesso alla fruizione delle misure di accoglienza ma con provvedimento della Prefettura di Firenze 3 giugno 2019, prot.
-OMISSIS-, il beneficio è stato revocato in quanto egli è risultato assunto presso un’impresa con contratto a tempo determinato fino al 30 giugno 2019 e busta paga (per il mese di aprile 2019) pari a € 574,00. La
circostanza non è stata comunicata al gestore del centro di accoglienza in cui egli era inserito.
Il provvedimento è stato impugnato con il presente ricorso lamentando la mancanza di disponibilità, nonostante il lavoro svolto, di risorse in misura pari o superiore a quelle previste normativamente e deducendo che la
mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento dell’impiego non potrebbe costituire violazione tale da determinare la revoca delle misure di accoglienza, anche in riferimento ai
principi di eccezionalità, gradualità e di proporzionalità fissato dall’art. 20 della Direttiva 2013/33/UE.
Con provvedimento della Commissione istituita presso questo Tribunale Amministrativo Regionale 10 luglio 2019, n. 50, è stata accolta l’istanza di ammissione del ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Si è costituita con memoria di stile l’Avvocatura dello Stato per il Ministero dell’Interno chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 26 luglio 2019, n. 465, è stata accolta la domanda cautelare.
La causa, fissata per l’udienza pubblica del 7 aprile 2020, è stata trattenuta in decisione su istanza congiunta delle parti costituite.
2. Il ricorso è fondato deve essere accolto.
Il provvedimento fonda la revoca dell’ammissione del ricorrente alle misure di accoglienza su una doppia motivazione: da un lato l’asserita disponibilità di reddito tale da consentirgli di provvedere autonomamente al proprio sostentamento in conseguenza dello svolgimento di attività lavorativa; dall’altro, la mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento di un impiego inserito in violazione dell’articolo
3 del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria.
Quanto al primo aspetto, l’estratto conto previdenziale del ricorrente evidenzia che egli nell’anno 2019 ha percepito un reddito pari ad € 3.666,00 oltre la busta paga relativa al mese di dicembre 2019 per € 358,00: la cifra è inferiore all’importo dell’assegno sociale annuo (€ 5.953,87) che costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l’adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento (T.A.R. Basilicata I, 4 giugno 2019 n. 481).
Sotto questo profilo il provvedimento impugnato è dunque illegittimo. Quanto alla violazione del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria, nel caso di specie è necessario fare applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C – 233/18.
La materia dell’accoglienza degli stranieri richiedenti protezione internazionale nel nostro ordinamento è disciplinata dal d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, il quale costituisce trasposizione delle direttive 2013/33/UE,recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.
L’articolo 23 del decreto disciplina la revoca delle misura di accoglienza prevedendo, tra l’altro, alla lettera e) quale causa di revoca la violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti. Il legislatore italiano assume quindi a presupposto della revoca delle misure di accoglienza la violazione delle regole che disciplinano la vita interna delle strutture in cui i richiedenti sono inseriti, a condizione che la stessa sia o grave o reiterata, nonché l’adozione da parte dell’ospite del centro di comportamenti gravemente violenti.
La norma costituisce attuazione di quanto disposto dall’articolo 20 della direttiva 2013/33/UE la quale prevede che gli Stati membri possono “ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni
materiali di accoglienza” in casi specificamente indicati, tra cui non rientrano le ipotesi indicate al paragrafo quattro ovvero “gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ..comportamenti gravemente
violenti” per le quali la norma comunitaria stabilisce che gli Stati membri possono prevedere sanzioni (non meglio specificate).
Il successivo paragrafo 5 della norma comunitaria recita che “le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo
individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del
principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.
È noto che nel rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie queste ultime assumono prevalenza, nel senso che costituiscono parametro di legittimità delle prime le quali, ove contrastanti, devono essere disapplicate sia dal
Giudice che dall’Amministrazione nel caso concreto (C.G.A. sez. giurisd. 16 maggio 2016, n. 139; T.A.R. Marche I, 1 agosto 2016 n. 468; T.A.R.Campania-Napoli III, 6 luglio 2016 n. 3394).

Le posizioni giuridiche create dall’Unione Europea devono infatti essere tutelate in modo uniforme ed
eguale all’interno di tutti gli Stati membri; organo competente ad assicurare la corretta interpretazione delle norme comunitarie è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nel seguito: “Corte”) le cui sentenze devono sempre trovare applicazione all’interno degli Stati membri. L’ordinamento interno si ritrae dalle materie che vengono disciplinate in sede comunitaria e le norme eurounitarie, una volta entrate in vigore, divengono le uniche competenti a regolarle secondo un criterio di competenza, con la conseguenza che le norme interne o sono conformi ad esse oppure, se
contrastanti, non possono trovare applicazione in alcun caso concreto.
Nella materia in trattazione è intervenuta la citata sentenza della Corte che, chiamata a giudicare circa la conformità del diritto belga a quello comunitario nella materia in esame, ha fornito l’interpretazione corretta delle disposizioni che qui vengono in rilievo. Nel caso di specie era accaduto che un cittadino afghano, arrivato in Belgio come minore non
accompagnato, aveva presentato domanda di protezione internazionale ed era stato accolto nei centri di accoglienza di Sugny e Broechem.

In quest’ultimo, il 18 aprile 2016 era stato coinvolto in una rissa tra residenti di varie origini etniche. La polizia era intervenuta per farla cessare e aveva arrestato detto cittadino afgano poiché sarebbe stato uno degli istigatori della colluttazione, rilasciandolo il giorno successivo. Per tali fatti era stato escluso per quindici giorni dalla fruizione dell’accoglienza e contro tale decisione aveva proposto ricorso giudiziario, nel corso del quale è stato effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte.
Questa, con la citata sentenza, ha statuito che l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretato nel senso che
uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad uno straniero richiedente protezione internazionale in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente
violenti, la revoca (anche solo temporanea) delle condizioni materiali di accoglienza, e tanto per diverse ragioni.
In primo luogo l’applicazione di una simile sanzione è ritenuta incompatibile con l’obbligo, derivante dall’articolo 20, paragrafo 5, terza frase, della direttiva 2013/33/UE, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso poiché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Sotto questo profilo difetterebbe anche la
proporzionalità di tale sanzione.
Secondo la Corte gli Stati membri dell’Unione Europea, se non possono adottare la revoca quale sanzione conseguente alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, tuttavia possono prevedere altre tipologie di sanzioni che producano effetti meno “radicali” nei confronti del richiedente protezione internazionale quali la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, eventualmente congiunta al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, oppure il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio. Inoltre l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE non osta ad una misura di trattenimento
del richiedente protezione internazionale ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva stessa, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 dalla medesima previste.
Alla luce di quanto statuito dalla Corte, segue che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lettera e) del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato.
Il Collegio è consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo poiché l’ordinamento italiano non prevede alcuna sanzione (ulteriore alla revoca dell’accoglienza) a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti. E’ tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla
Corte.
3. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato.
Le spese processuali vengono integralmente compensate tra le parti in ragione della novità della normativa applicata.
4. Il ricorrente è stato ammesso al beneficio del gratuito patrocinio e ilpatrocinatore avv. Daniela Consoli ha depositato domanda di liquidazione
per l’importo di € 4.990,00.
L’avv. Daniela Consoli risulta iscritta presso l’Ordine forense di Firenze nelle liste dei difensori che possono svolgere gratuito patrocinio nel processo amministrativo e, pertanto, può essere disposta la liquidazione del compenso per il suo onorario.
Visti gli artt. 82 e 130 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; vista la richiesta di liquidazione depositata dall’avv. Consoli e ritenuto di operare ex art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 una riduzione del 50% in ragione della
non particolare difficoltà della fattispecie, lo stesso viene quantificato nella misura di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Spese compensate.
Liquida a favore dell’avv. Daniela Consoli, a titolo di onorario per gratuito patrocinio, la somma di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in video conferenza secondo quanto disposto dall’articolo 84, comma 6 del d.l n. 18/2020, con
l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
Nicola Fenicia, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Alessandro Cacciari Rosaria Trizzino
IL SEGRETARIO

quarantena fiduciaria - violazione da parte di giornalista

24/03/2020 n. 471 - Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quinta)

L’applicazione della domiciliazione fiduciaria, misura fissata in relazione a determinate evenienze ad esito di specifiche valutazioni proprie del particolare settore medico di riferimento, segue anche precauzionalmente al fatto in sè, comunque e da qualunque autorità riscontrato, non potendosi ritenere che un tale effetto segua unicamente ad accertamenti provenienti dalle forze dell’ordine. Ha aggiunto che l’ordinanza del Presidente della Giunta regionale n. 15 del 13 marzo 2020 richiama plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate, il che esclude ogni possibile contrasto di dette misure con quelle predisposte per l’intero territorio nazionale.

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farmaco biosimilare - libertà terapeutica - diritto di scelta del farmaco da parte del medico - illegittimo il bando di gara

10/03/2020 n. 148 - T.A.R. Cagliari, (Sardegna) sez. I,

La norma di legge dedicata alla disciplina delle procedure di acquisto dei farmaci biosimilari prodotti dopo l’intervenuta scadenza del brevetto, dopo aver stabilito il sistema di acquisizione dei medicinali (acquisizione che, quando i farmaci basati sul medesimo principio attivo sono più di tre, deve effettuarsi attraverso accordi-quadro con tutti gli operatori economici), delinea anche il rapporto tra le esigenze di natura finanziaria, che perseguono l’obiettivo di razionalizzare la spesa farmaceutica per giungere al suo tendenziale contenimento, e la tutela del diritto alla salute sotto lo specifico profilo della libera scelta terapeutica del medico, il quale “è comunque libero di prescrivere il farmaco, tra quelli inclusi nella procedura di cui alla lettera a), ritenuto idoneo a garantire la continuità terapeutica ai pazienti”. Nella comparazione, la scelta del legislatore appare chiaramente privilegiare lo spazio della libertà terapeutica del medico (da intendere sia come libertà di prestazione della cura, che trova davanti a sé la libertà del paziente di ricevere la cura medesima, posizioni giuridiche entrambe costituzionalmente fondate sull’art. 32 Cost.; sia come libertà delle scelte terapeutiche, articolazione dell’autonomia professionale del medico, fondata sull’art. 33 Cost. quale forma di manifestazione della libertà della scienza).

Ciò chiarito, la norma di cui all’art. 15, comma 11 quater, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, cit., non subordina alla sussistenza di specifiche condizioni la manifestazione della libertà del medico nella scelta del farmaco biosimilare ritenuto più idoneo agli obiettivi terapeutici perseguiti.

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danno da dequalificazione professionale - allarme ansioso in disturbo post traumatico da stress

01/02/2017 n. 84 - Sez Calabria

FattoDiritto
 
 

1. Espone il ricorrente di essere entrato a far parte dell’Arma dei Carabinieri in data 17 settembre 1992, frequentando il corso biennale di formazione per Allievi Sottufficiali.
Dopo aver prestato servizio presso il Comando Stazione Carabinieri di Locri, il Nucleo Operativo della Compagnia di Locri per i successivi due anni ed il R.O.S. – Sezione Anticrimine C.C. di Reggio Calabria, dal 2005 è stato assegnato al Comando Scuola Allievi Carabinieri di Reggio Calabria, attuale sede di servizio.
Dopo aver espletato l’incarico di “Comandante del Nucleo Comando”, presso la I e poi presso la III Compagnia Allievi Carabinieri per otto anni, con risultati eccellenti, a far data dal 20 settembre 2013 è stato assegnato alla Squadra Servizi – alle dipendenze gerarchiche del Mar. A.s. UPS -omissis-, in qualità di Comandante della Squadra, e del Capitano -omissis-, Comandante del sovraordinato Reparto Comando – con i seguenti incarichi:
– “Addetto alla Squadra Servizi”;
– “Capo Deposito Carburanti e Lubrificanti di p.c.”.
Espone, altresì, che, giunto alla predetta Squadra Servizi, gli è stata affidata la gestione di tutta l’attività burocratica e del personale dipendente (organizzazione dei turni di servizio, licenze, malattie ecc…), oltre allo svolgimento dei prescritti turni di Maresciallo di picchetto ed alla gestione logistica del personale dell’esercito alloggiato nello stabile ex Reparto Corsi e che, dunque, il suo lavoro comprendeva: mansioni organizzative, di coordinamento e di “disbrigo pratiche d’ufficio”.
In relazione alla problematica oggetto della presente controversia, il ricorrente, in via di sintesi, lamenta che, a seguito del suo rifiuto ad espletare l’incarico di “Capo Deposito Carburanti e Lubrificanti di p.c.”, in quanto attività assolutamente nuova nonché poiché privo della prescritta abilitazione, i superiori gerarchici, per il periodo che va dal febbraio al novembre 2014, avrebbero posto in essere una condotta punitiva che, inizialmente limitata all’azzeramento delle ore di straordinario ed al sollevamento da ogni lavoro burocratico, si è poi conclusa con l’allontanamento dall’ufficio.
Ravvisando negli episodi innanzi esposti gli estremi della condotta mobbizzante, del demansionamento e della dequalificazione professionale, chiede il risarcimento dei danni patiti, ritenendo sussistenti tutti i presupposti della responsabilità.
Deposita in giudizio certificazione medica rilasciata nel dicembre 2014 ed attestante la patologia di “Allarme ansioso in disturbo post traumatico da stress”.
In data 31 ottobre 2015, si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, eccependo l’infondatezza della domanda ed invocandone la reiezione, nonché depositando corposa documentazione.
Si sono, altresì, costituti in giudizio -omissis- ed -omissis-, insistendo anch’essi per l’infondatezza dell’avversa pretesa.
All’udienza del 23 novembre 2016, l’Avvocatura dello Stato ha eccepito la tardività della memoria e della documentazione depositata in giudizio dal ricorrente il 24 ottobre 2016.
Alla ridetta udienza pubblica del 23 novembre 2016, la causa viene ritenuta per la decisione.
2. Va, in primis, disposto lo stralcio della memoria e dell’allegata documentazione, in quanto depositata da parte ricorrente in violazione dei termini di cui all’art. 73, I comma, c.p.a.
3. Il ricorso non è fondato.
Nella sostanza il ricorrente fa valere, con il presente giudizio, i danni che gli sarebbero derivati sia dall’illegittimo “demansionamento” (vale a dire, dall’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle della sua qualifica di appartenenza) sia dal complessivo comportamento di mobbing posto in essere nei suoi confronti.
3.1. E’ nota in proposito la differenza tra le due situazioni: il mobbing, diversamente dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing (cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, 12 gennaio 2015 n. 28 del 2015; T.R.G.A. Trentino – Alto Adige, Bolzano, 23 settembre 2015, n. 279 del 2015; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 2 marzo 2015, n. 342).
In ogni caso, i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
3.2. La giurisprudenza, in proposito, ha precisato che, ai fini di ritenere provato un danno da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece procedere il giudice di merito, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (di recente, in tal senso, Cass., Sez. lav., 18 agosto 2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie” (in tal senso, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509).
3.3. E così, per un verso, quanto al danno da demansionamento, la giurisprudenza ha evidenziato che, sul piano probatorio, sebbene l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul presupposto che l’illecito di demansionamento non è ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto nell’effettiva perdita delle mansioni svolte (in tal senso, da ultimo, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 7 febbraio 2015, n. 2280).
Per altro verso, ed analogamente, quanto al danno da mobbing è stato ribadito che il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282).
3.4. Con riguardo, poi, al danno – conseguenza, ossia allo specifico pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nelle suindicate categorie: non è sufficiente, in altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (da ultimo, in tal senso, TAR Lazio, Roma, Sez. I ter, 26 giugno 2015, n. 8705 del 2015; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 12 marzo 2015, n. 725).
4. Nel caso di specie, il ricorrente è complessivamente venuto meno ai descritti oneri probatori.
Egli, a sostegno delle proprie pretese, ha dedotto le seguenti circostanze di fatto, di natura asseritamente persecutoria.
4.1. Come su accennato, in relazione all’incarico di “Capo Deposito Carburanti e Lubrificanti di p.c.”, è lo stesso ricorrente ad affermare di averne proposto l’affidamento ad altro militare e, segnatamente, al Maresciallo A.s. USP -omissis-.
Appurato che quest’ultimo, sebbene privo della prescritta autorizzazione come il ricorrente, lo svolgeva da diversi anni e che il -omissis- aveva manifestato le sue legittime difficoltà ad espletarlo, la richiesta del ricorrente è stata effettivamente accolta.
Con provvedimento del Comandante n. 188/3-2 del 20 febbraio 2014, il ricorrente è stato sollevato dall’incarico in discorso (all. n. 7 dell’Avvocatura), rimanendo così titolare dell’incarico di “Addetto alla Squadra Servizi”.
Con provvedimento n. 188/2-2, in pari data, il medesimo incarico è stato affidato al Maresciallo -omissis- (all. n. 16 dell’Avvocatura), già titolare dell’incarico di Comandante Insegnante I squadra, I Plotone / III Compagnia Allievi.
D’altro canto, emerge ex actis che il Comandante della Scuola abbia tentato, in data antecedente, di far conseguire la prescritta abilitazione al -omissis- (cfr., nota prot. n. 188/3- 1 dell’11 febbraio 2014, all. n. 15 dell’Avvocatura), ma che ciò non sia stato possibile per l’assenza di personale già abilitato e dunque legittimato all’affiancamento di dieci giorni in cui si sostanzia l’abilitazione richiesta.
L’Amministrazione, dunque, conformemente alla richiesta del ricorrente, lo ha esonerato dall’attività di gestione del deposito carbolubrificanti.
4.2.1. A seguito di ciò, nella ricostruzione del ricorrente, si sarebbe attuata una “vendetta” nei suoi confronti; “vendetta” che gli sarebbe stata finanche rappresentata dal Comandante della Squadra M.llo -omissis-, in un colloquio dell’11 marzo 2014, alla presenza del Brig. -omissis- e dell’App. Sc. -omissis-.
Durante tale colloquio gli sarebbe stato disvelato che:
a) il trasferimento dell’App. -omissis- da Addetto alla Sezione Logistica dell’Ufficio Comando ad Addetto della Squadra Servizi del Reparto Comando, disposto con provvedimento del Comandante n. 1149 del 29 gennaio 2014 (all. n. 17 dell’Avvocatura), sarebbe stato preordinato ad esautorare il ricorrente stesso dal disbrigo delle attività burocratiche;
b) il ricorrente avrebbe dovuto svolgere prevalentemente servizi di Maresciallo di Picchetto al Corpo di Guardia, ivi compresi la metà di quelli assegnati al M.llo -omissis-, addetto alla gestione del deposito carbolubrificanti;
c) il ricorrente non avrebbe più effettuato straordinario.
4.2.2. Come è noto, la condotta illecita di mobbing “non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008 n. 2015; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 8 ottobre 2008, n. 2438)” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 10 luglio 2015, n. 1168).
4.2.3. Ebbene, non soltanto la circostanza dell’avvenuto colloquio in sé (che pure non avrebbe alcuna rilevanza ove l’intento di vendetta non fosse stato attuato) è meramente allegata e non provata dal ricorrente (che non ha articolato prove testimoniali sul punto), ma, soprattutto, l’amministrazione ha dedotto circostanze di fatto idonee a provare, poiché non contestate, quanto segue.
– In relazione alla circostanza sub b): soltanto una volta, essendo impossibile coprire tutti i turni, al ricorrente è stato ordinato di eseguire un servizio di picchetto 12/18/ al posto del M.llo -omissis-. Nel periodo di assegnazione alla squadra servizi, per il resto, ha effettuato un numero di turni identico a quello del suo Comandante M.llo -omissis-.
– In relazione alla circostanza sub a): l’App. Sc. -omissis- è stato trasferito in quanto militare riformato parziale dalla C.M.O di Messina e, dunque, idoneo solo a compiti d’ufficio. Per tale ragione, il Comandante della Squadra Servizi gli ha affidato il disbrigo delle pratiche burocratiche delle quali, sempre sotto le direttive del Comandante della Squadra servizi, si occupava prima il ricorrente. Giova precisare che il disbrigo di pratiche burocratiche non rientra tra i compiti prioritari della Squadra Servizi, che sono, invece, rappresentati da servizi armati di caserma, che il ricorrente non assume mai di non aver svolto.
– Quanto alla circostanza sub c), appare evidente che essa si fonda sull’erroneo convincimento del ricorrente che il lavoro straordinario sia un beneficio al quale hanno diritto i dipendenti.
Come è noto, lo straordinario viene disposto ed autorizzato per imprevedibili esigenze di servizio, delle quali il ricorrente non allega la sussistenza nel periodo di riferimento.
4.3. A comprova dell’intento persecutorio nei suoi confronti, il ricorrente allega l’episodio relativo al servizio di vigilanza ai seggi elettorali in occasione delle consultazioni del maggio 2014, occasione in cui, a fronte di 11 ore di lavoro straordinario effettuate in eccedenza rispetto agli stanziamenti prefettizi, inizialmente il Comandante -omissis- avrebbe riconosciuto solo 7 ore; dopo la richiesta di chiarimenti al Capitano -omissis-, gli sarebbero state decurtate anche le predette sette ore.
L’Amministrazione ha dedotto sul punto, e si tratta di circostanza pacifica in quanto non contestata, che nel mese di giugno le ore di straordinario per servizio ai seggi elettorali furono decurtate a tutti i 30 militari della Scuola che vi avevano preso parte.
Tali 11 ore di straordinario furono poi corrisposte al ricorrente nell’agosto 2014, come risulta dal cedolino che egli stesso ha versato in atti e che, pure, indicizza “9. Paga agosto 2014 (senza straordinario)”.
Dalla mera lettura del cedolino, invece, emerge chiaramente il pagamento dello straordinario.
4.4. Deduce ancora il ricorrente che, nel mese di marzo 2014, venne spostato in un diverso stabile della Scuola e relegato in uno stanzone spoglio, scarsamente illuminato, senza computer né linea telefonica.
Tutto ciò, a suo dire, sarebbe avvenuto per ritorsione da parte dei suoi diretti superiori gerarchici a causa della conversazione tenuta con il Comandante della Squadra Comando, al quale aveva segnalato delle improprie modalità di compilazione del memoriale di servizio in merito allo straordinario (in relazione alle quali ha in seguito presentato un esposto in Procura).
In particolare, il Comandante -omissis- gli avrebbe rappresentato l’inopportunità di riferire ad altri le questioni d’ufficio e gli avrebbe anticipato lo spostamento in altro stabile della Scuola.
Premesso che nelle stesse deduzioni del ricorrente non v’è traccia, in questa conversazione, di un nesso causale tra le due circostanze, anche su tale vicenda difetta qualsivoglia prova.
Al contrario, l’Amministrazione ha esplicitato che l’esigenza di spostamento della Squadra Servizi è derivata dalla necessità di istituire un presidio presso il diverso stabile, ove venivano ospitati circa 100 militari.
L’assenza di postazione computer dedicata è derivata dalla presenza di due soli p.c., né la circostanza che il ricorrente si sia avvalso del pc posto nell’ufficio dell’App. -omissis- appare singolare, attesa la suddetta carenza ed il pacifico disbrigo da parte di quest’ultimo di pratiche burocratiche sotto la direzione del Comandante.
4.5. Deve soggiungersi, in punto di fatto, quanto segue.
Al ricorrente è stato proposto di:
– frequentare un corso di armaiolo e gestire le quattro armerie della Scuola;
– gestire i 100 uomini dell’esercito;
– gestire il personale della Compagnia;
– dirigere il Nucleo gestione palazzine.
La risposta, per come affermato dall’Amministrazione nell’allegato 19 e non contestato dal ricorrente, è sempre stata negativa.
5.1. Appare evidente al Collegio, in conclusione, che:
– non sussistono i presupposti della condotta mobbizzante;
– la stessa dequalificazione professionale lamentata dal ricorrente si sostanzia, in definitiva, nella perdita dell’incarico relativo alla gestione del deposito carburante (esonero richiesto dallo stesso ricorrente) e nel trasferimento del disbrigo delle pratiche burocratiche all’App. -omissis-.
Trattasi di compiti che, ai sensi dell’art. 848 del Codice dell’Ordinamento Militare, non rientrano nel profilo del personale degli Ispettori.
A ciò deve aggiungersi che l’Amministrazione ha tentato di affidare ulteriori compiti (quali quelli indicati in precedenza) al ricorrente, ma senza esito, per scelte imputabili solo a quest’ultimo.
5.2. Stando così le cose, le deduzioni in punto di illogicità e contraddittorietà per assenza di armonia e consequenzialità tra le qualità interne, i giudizi e la qualifica finale di “eccellente” nelle valutazioni caratteristiche relative al periodo per cui è causa (ed oggetto di autonomo gravame) sono prive di rilievo.
I giudizi formulati con le schede valutative dai superiori gerarchici, nell’ambito in questione, sono caratterizzati da una altissima discrezionalità tecnica (cfr. sentenza di questo Tribunale n. 204 del 24 settembre 2015 e precedenti ivi richiamati).
Nel caso di specie, l’esercizio di tale discrezionalità ha condotto ad una valutazione elevata che, considerato il quadro di insussistenza di una complessiva condotta vessatoria da parte del revisore e del compilatore, come fin qui accertata, non disvela ex se un intento punitivo e, a fortiori, non è idonea a provare l’esistenza dell’asserito disegno persecutorio.
5.3. Anche la mancata convocazione ad un’unica riunione, quella del 5 novembre 2014, infine, non può ritenersi rilevante all’assolvimento degli oneri probatori gravanti sul ricorrente, in quanto episodio isolato e non significativo.
6. Da ultimo, il Collegio si sofferma sui file audio depositati dal ricorrente e relativi alle conversazioni tenute con il Capitano -omissis- in data 15 maggio e 27 novembre 2014.
Trattasi di registrazioni che non sono state disconosciute da controparte e che dunque possono essere oggetto di prudente apprezzamento dal parte del giudice ai sensi dell’art. 2729 c.c. (Cass., Sez. lav., 8 maggio 2007, n. 10430).
Ebbene, dalle stesse non si evince alcun clima di ostilità nei confronti del ricorrente né di riconoscimento del demansionamento da parte del Comandante -omissis- che, peraltro, quand’anche sussistente, non avrebbe alcun valore, poiché il ridetto demansionamento deve essere oggettivo e non certo rimesso alle valutazioni soggettive di chicchessia.
7. Alla luce delle su indicate circostanze, il Collegio ritiene che il ricorrente non abbia adempiuto (né si sia offerto di adempiere articolando prova testimoniale su circostanze in tal senso rilevanti) agli oneri probatori su di esso gravanti in materia.
Come è noto, “in relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della prova, la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio presupposto nell’espletamento dell’attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo su di esso incombente ai sensi dell’art. 2087 c.c..
Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218 c.c., grava sul lavoratore l’onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere di provare l’assenza di una colpa a sé riferibile.
In ordine all’onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest’ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l’asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 11 agosto 2009 n 4581; T.A.R. Lazio, Roma, III, 14 dicembre 2006 n. 14604);
– in altri termini, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all’amplificazione da parte di quest’ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 7.4.2008 n. 2877);
– in particolare, nell’esaminare i casi di preteso mobbing, il giudice deve evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall’altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. (T.A.R. Umbria, Sez. I, 24 settembre 2010 n. 469);
– in altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;
– tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall’interessato può essere quanto mai fuorviante” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 10 luglio 2015, n. 1168).
Nel caso di specie, ritiene il Collegio che sia emerso, al più, un quadro di mancata realizzazione di personali aspirazioni del ricorrente ad occupare posizioni gradite che, per legittime esigenze di servizio, egli non ha potuto conseguire.
Conseguentemente, difetta radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno e del conseguente obbligo risarcitorio ovvero la condotta mobbizzante o di dequalificazione, ragion per cui il ricorso va respinto.
8. Le spese di lite possono essere integralmente compensate tra le parti avuto riguardo alla natura delle questioni esaminate e alla delicatezza degli interessi coinvolti.

 
 
P.Q.M.
 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria – Sezione Staccata di Reggio Calabria, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, I comma, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare -omissis-.