Infermiere non può essere sospeso per mancata vaccinazione se già in aspettativa per altro titolo

26/11/2021 - Tribunale di Milano- sezione lavoro

Con la sentenza del 26.11.2021 a firma della Dott.ssa Porcelli, il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta di reintegra di un’infermiera sospesa per mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale nonostante la stessa si trovasse in aspettativa retribuita biennale ex lege 104/1992.

Per il Giudice, in particolare, la sospensione presuppone, al momento della sua adozione, lo svolgimento in concreto delle prestazioni professionali da parte del soggetto che astrattamente rientra tra i lavoratori destinatari dell’obbligo di vaccinazione.

Secondo la sentenza il rapporto di lavoro della ricorrente già sospeso per la fruizione dell’aspettativa prevista dalla L. 104/1992 non può essere sospeso per altra motivazione.

responsabilità della struttura per soffocamento alimentare di un paziente. contestazione perizia ctu

31/08/2020 n. 18081 - Cassazione civile sez. VI

1. La Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta da BXXX. per i danni subiti in conseguenza del decesso della congiunta XX, avvenuto, mentre era ricoverata nella clinica (OMISSIS), per soffocamento alimentare.

Avverso tale decisione XX e XX, in proprio e nella qualità di eredi di B.C., propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste la XXX, depositando controricorso.

L’altra intimata non svolge difese nella presente sede.

2. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Fissata per la trattazione l’adunanza del 12 marzo 2020, a causa del sopravvenire dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in attuazione del D.L. 8 marzo 2020, n. 11, art. 1, il Primo Presidente, con decreto del 9 marzo 2020 (prot. Interno n. 526) ne ha disposto il rinvio a nuovo ruolo (come di tutte le cause fissate per le udienze e adunanze camerali in calendario nel periodo compreso tra il 9 e il 22 marzo 2020, con la sola eccezione – che qui non viene in rilievo – di quelle indicate nel cit. D.L., art. 2, comma 2, lett. g).

Quindi, in attuazione dei decreti del P.P. nn. 44, 47, 55 e 76, a loro volta attuativi del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 7, convertito dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, e successivamente modificato dal D.L. 30 aprile 2020, n. 28, art. 3, comma 1, lett. c), essendo stata prevista la possibilità, per la Sesta Sezione, di fissare adunanze camerali nel numero ivi precisato nel periodo dal 1 al 19 giugno, la presente causa è stata destinata per la trattazione in adunanza camerale nella data odierna, con decreto del Presidente titolare del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.

CONSIDERATO
che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamentano in sintesi che la Corte d’appello, nonostante i rilievi degli appellanti che evidenziavano, anche sulla scorta di consulenza di parte, che, nell’occorso, sarebbe stato possibile e necessario praticare una tracheotomia, “si è limitata a disquisire in merito alla sola tecnica di (OMISSIS)”, adottata dai sanitari, affermando che era manovra idonea a salvare la vita: ciò in acritica adesione alle conclusioni rassegnate dal c.t.u., nonostante questi, specialista in psichiatria, non fosse dotato di specifiche competenze in materia.

Si dolgono, altresì, che sia stata ritenuta corretta l’esecuzione della manovra di (OMISSIS), nonostante la mancanza di prove al riguardo, che non fossero i documenti medici prodotti dalla controparte.

Segnalano ancora la contraddittorietà della valutazione dell’ausiliario che, pur avendo evidenziato che la paziente aveva difficoltà di autocontrollo alimentare e aveva manifestato una condotta alimentare caratterizzata dalla voracità, ha tuttavia poi negato sussistessero elementi clinici che deponessero per la necessità di un’assistenza particolare per lo svolgimento dell’attività alimentare.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., per non avere la Corte di merito operato un prudente apprezzamento della prova “specie in relazione alle considerazioni assorbenti di cui al motivo 1”, ciò traducendosi in un “omesso esame circa un punto decisivo del giudizio con violazione dell’art. 112 c.p.c.”.

3. Con il terzo motivo essi denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 61 c.p.c., e dell’art. 24 Cost., per avere ritenuto, senza darne adeguatamente conto, “chiaro e convincente” il parere espresso dal consulente tecnico d’ufficio, rigettando la richiesta di rinnovazione della c.t.u. medico-legale con la quale si era segnalata l’esigenza che, accanto ad una specialista in psichiatria, l’incarico fosse dato anche a un medico specialista del tratto orofaringeo o comunque ad un medico chirurgo.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono infine “carenza di motivazione”.

5. Il ricorso si espone ad un preliminare ed assorbente rilievo di inammissibilità, per palese inosservanza del requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Risulta, infatti, totalmente omessa l’esposizione sommaria dei fatti, da detta norma richiesta a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, allo scopo di garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. Sez. U. 18/05/2006, n. 11653).

La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U. 20/02/2003, n. 2602).

Stante tale funzione, per soddisfare detto requisito è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata.

Nel caso di specie il ricorso, come detto, omette del tutto tali requisiti contenutistici.

Prima dell’esposizione dei motivi, invero, il ricorso si limita a indicare le “parti della sentenza di appello contestate” e ciò fa attraverso la trascrizione di brevi stralci della sentenza (rispettivamente tratti dalle pagg. 4, 5, 6 e 7): stralci che attengono a distinti e specifici passaggi argomentativi e che, come tali, non consentono in alcun modo di avere una qualche contezza dei fatti sostanziali e processuali dibattuti nel corso del giudizio.

6. Stante tale preliminare e, come detto, assorbente rilievo è appena il caso di evidenziare che, comunque, anche i motivi di ricorso prospettano plurime ragioni di inammissibilità.

6.1. E’ palese, anzitutto, l’inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, imposto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Il ricorrente si limita invero a richiamare la relazione di consulenza tecnica d’ufficio ovvero la perizia di parte o altri elementi di giudizio (informazioni tratte da internet) senza debitamente riprodurne il contenuto nel ricorso – salvo che per brevi stralci – e senza comunque puntualmente indicare in quale sede processuale risultino prodotti, laddove è al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U 19/04/2016, n. 7701).

6.2. Nel primo motivo, inoltre, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è dedotto nei termini in cui la giurisprudenza consolidata di questa Corte lo dice deducibile.

Varrà in proposito rammentare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni del art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 07/04/204, nn. 8053 e 8054).

Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poichè non può ricondursi, di per sè, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la “consulenza tecnica di parte” in quanto tale ovvero la richiesta di rinnovazione della c.t.u..

Giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, (v. Cass. 09/07/2019, n. 18328).

E’, pertanto, evidente che, non avendo i ricorrenti evidenziato quale “fatto storico”, decisivo, il giudice a quo abbia omesso di esaminare, la doglianza che lamenta una omessa e/o insufficiente motivazione si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6.3. Mette conto peraltro ancora rimarcare che, come ripetutamente rilevato dalla stessa ricorrente, la valutazione della Corte territoriale recepisce sul punto una valutazione del c.t.u. (ciò che com’è noto esaurisce i compiti motivazionali del giudice del merito salvo che non siano contro la stessa proposte tempestive e specifiche critiche, non meramente oppositive: v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815); a fronte di tale dato la ricorrente si limita a richiamare il diverso opinamento del c.t.p. sui vari temi in discussione, omettendo però di indicare se lo stesso sia stato effettivamente e immotivatamente negletto dal c.t.u. per il che avrebbe dovuto essere trascritta almeno la parte della relazione di consulenza tecnica d’ufficio a tale aspetto dedicata.

Anche, dunque, con riferimento al previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avrebbe potuto configurarsi un vizio di motivazione sindacabile in cassazione.

Secondo incontrastato indirizzo, infatti, il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815).

6.4. Sotto il profilo della dedotta (con il secondo motivo) violazione dell’art. 116 c.p.c., è poi appena il caso di rammentare come, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma processuale (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, solo nell’ipotesi – certamente non ravvisabile nella specie – in cui il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

6.5. Equivoco, contraddittorio e per nulla illustrato è poi il contestuale riferimento, nel secondo motivo, anche ad una asserita violazione dell’art. 112 c.p.c..

Varrà comunque in proposito rilevare che la violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato è in astratto apprezzabile solo con riferimento alle domande ed eccezioni in senso stretto non certo (come invece sembrano assumere i ricorrenti) in relazione alle valutazioni di merito dei fatti allegati (positivi o negativi) e delle prove acquisite a fondamento delle une o delle altre.

6.6. Il terzo motivo non illustra la pertinenza della evocata norma processuale (art. 61 c.p.c.), nè la ragione per la quale essa debba ritenersi nella specie violata.

Varrà comunque rammentare che, come questa Corte ha ripetutamente chiarito, l’eventuale nullità della consulenza tecnica è soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere relativo, con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione del consulente (cfr.: Cass. 21/08/2018, n. 20829; 15/06/2018, n. 15747; 31/01/2013, n. 2251; 15/04/2002, n. 5422; 14/08/1999, n. 8659; 24/06/1984, n. 3743).

Generica e priva di contenuto censorio è anche l’evocazione dell’art. 24 Cost..

6.7. Altrettanto va detto con riferimento al quarto motivo, il vizio di “carenza motivazionale” essendo dedotto del tutto apoditticamente solo in rubrica, la successiva illustrazione concretandosi nella mera enunciazione di massime giurisprudenziali che tale vizio definiscono.

E’ appena il caso dunque di rilevare che non può nella specie dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (legittimità della convenzione e fondatezza della pretesa azionata).

6.8. Appare peraltro evidente che le censure svolte si volgono tutte, nella sostanza, ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dal giudice a quo, e sono pertanto da considerare del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle -fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

7. Il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.050 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2020

diritto del bambino autistico al trattamento riabilitativo pari a 24 mesi - terapia aba (applied behaviour analysis) analisi del comportamento applicata

06/07/2020 n. 12233 - Roma sezione lavoro- reclamo nella causaR.G. n. 41548/2019

LA MASSIMA
Condanna la ASL RM 1, in persona del legale rappresentante pro-tempore, deve essere condannata a erogare in via diretta, o mediante la copertura dei relativi costi, la terapia ABA al minore N.L.M.L., nella misura di venti ore settimanali (le linee guida emanate dall’Istituto Superiore di Sanita’ per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti prevedono per tale trattamento cognitivo comportamentale – metodo ABA la misura minima di venti ore settimanali) per la durata provvisoria di 24 mesi, cioe’ il tempo necessario per la eventuale instaurazione di un giudizio ordinario, all’esito del quale individuare piu’ specificamente, anche tramite l’ausilio di consulenza tecnica, le necessita’ di trattamento terapeutico del minore in relazione alle sue condizioni di salute.

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Con reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.L.A. e N.F.M.L.,, nella qualita’ di genitori esercenti la potesta’ genitoriale sul minore N.L.M.L., impugnavano l’ordinanza n. 34765/2020 emessa dal Tribunale di Roma Sezione Lavoro in data 19 aprile 2020 resa all’esito del giudizio cautelare ex art. 700 c.p.c. (procedimento R.G. n. 41548/2019).

In tale giudizio i reclamanti, nell’interesse del figlio N.L.M.L., avevano chiesto l’accertamento e la declaratoria del diritto del predetto minore a ricevere a carico del SSN – ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, dell’art. 19 della Legge n. 833/1979 e delle Linee Guida per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti, cosi’ come aggiornate nel 2015 – il trattamento riabilitativo cognitivo -comportamentale pari a 40 ore settimanali di terapia, per un periodo non inferiore a 48 mesi, con utilizzazione del metodo ABA, constatata l’evidenza scientifica della predetta metodologia terapeutica.

Gli odierni reclamanti avevano dedotto, quanto al fumus boni iuris, che in seguito al disturbo autistico era stata riconosciuta a N.L.M.L. la condizione di portatore di handicap in situazione di gravita’ di cui all’art. 3 comma 3 della Legge n. 104/92 e l’indennita’ di accompagnamento di cui all’art. 1 della Legge n. 18/80; che diversi sanitari anche appartenenti a strutture pubbliche come il Policlinico Tor Vergata avevano prescritto al minore la predetta terapia cognitivo-comportamentale ad indirizzo ABA; che la predetta terapia era indicata per la sua efficacia dalle Linee guida per l’autismo adottate dal Ministero della Salute – Istituto Superiore della Sanita’, dalle quali risultavano evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute; che la terapia ABA intrapresa per migliorare la condizione del minore N.L.M.L., era stata effettuata presso un Centro privato con 4 ore di trattamento, i cui costi erano stati interamente sostenuti da essi reclamanti, attesa l’assenza di strutture pubbliche, mancando del tutto le strutture organizzative dei servizi territoriali preposti; che le spese sostenute, risultanti dalle fatture allegate, ammontavano a un totale di euro 6.916,80, sia per la terapia ABA svolta nel periodo dal settembre 2019 all’inizio di dicembre 2019 per 4 ore settimanali, nonche’ per logopedia e psicomotricita’; che la ASL non aveva accolto le richieste di erogazione della prestazione da parte della ASL e/o di rimborso delle ingenti spese sostenute; che i notevoli costi dei trattamenti in questione erano oramai divenuti insostenibili, ma, stanti i benefici prodotti dalla terapia, l’eventuale sospensione della stessa o il mutamento della sua struttura avrebbe potuto pregiudicare gli effetti positivi prodotti sulla salute del minore.

Con riferimento al pericolo di un pregiudizio grave e irreparabile gli odierni reclamanti avevano evidenziato che essi erano oramai prossimi a non poter piu’ continuare a garantire le attuali ore di terapia avendo esaurito i propri risparmi, tenendo conto dell’esigenza di soddisfare le altre minime esigenze di vita dell’intero nucleo familiare, tanto piu’ che, secondo le indicazioni dei sanitari, avrebbero dovuto essere aumentate le ore settimanali di terapia, con la conseguenza della compromissione dei miglioramenti fin qui ottenuti; che le condizioni di salute del minore N.L.M.L. avrebbero subito un pregiudizio grave e irreparabile connesso alla sospensione della prestazione necessaria per tutto il tempo occorrente alla instaurazione e conclusione di un giudizio ordinario, in considerazione della patologia diagnosticata e della sua progressiva evoluzione; che, in ogni caso, il minore non poteva essere trasferito presso altre strutture o presso altri operatori sanitari, in quanto cio’ avrebbe comportato un trauma per il minore stesso, anche in considerazione della possibile compromissione dei notevoli benefici che il bambino stava conseguendo presso il Centro AITA in cui era in cura e delle caratteristiche proprie della patologia da cui era affetto che presupponeva una estrema resistenza al cambiamento.

Nel giudizio ex art. 700 c.p.c. si era costituita l’Azienda Sanitaria Locale Roma 1, contestando le avverse deduzioni ed evidenziando l’assenza di evidenze scientifiche univoche circa la generica e universale validita’ ed efficacia dell’approccio terapeutico richiesto e, in ogni caso, la necessita’ di una verifica di tale efficacia da effettuarsi caso per caso. Chiedeva il rigetto del ricorso per insussistenza tanto del fumus boni iuris quanto del periculum in mora.

Il giudice di prime cure con ordinanza n. 34765/2020 emessa dal Tribunale Sezione Lavoro in data 19 aprile 2020 aveva rigettato il ricorso ritenendo l’insussistenza del periculum in mora dal momento che le parti ricorrenti non avevano tempestivamente allegato e chiesto di provare specifiche circostanze atte a dimostrare l’effettivita’ del rischio per la salute del minore, che, secondo la loro prospettazione, sarebbe stata minacciata dalla sospensione della terapia ABA, somministrata dal settembre 2019 con spese interamente a carico del nucleo familiare. Inoltre il primo giudice aveva rilevato come L.A. e N.F.M.L., nulla di specifico avevano allegato e/o chiesto di dimostrare in ordine all’effettiva impossibilita’ di affrontare la spesa mensile per la terapia ABA, non avendo descritto in misura adeguata la loro effettiva situazione reddituale e patrimoniale e nulla avendo dedotto ne’ provato in ordine alla loro occupazione lavorativa, all’effettiva ed attuale situazione reddituale e patrimoniale del nucleo familiare, all’eventuale esposizione debitoria per altre circostanze estranee alla situazione in esame. Infine, il giudice nel provvedimento reclamato aveva evidenziato come l’esborso dell’importo necessario ad assicurare al minore le terapie diverse da ABA prima, e tale ultima terapia poi, si protraesse comunque dal 2016, senza che anteriormente al dicembre 2019 fosse stata intentata alcuna azione di merito o cautelare.

Avverso la citata ordinanza, L.A. e N.F.M.L., proponevano il reclamo al collegio, ribadendo le argomentazioni sopra esposte in ordine al fumus boni iuris e al periculum in mora ed evidenziando, quanto al pregiudizio di un danno grave e irreparabile, che il periculum doveva intendersi quale danno imminente ed irrimediabile alla salute cui era esposto il diritto nel tempo necessario a farlo valere in un giudizio in via ordinaria, mentre, nella fattispecie, erroneamente il giudice lo aveva ancorato a un mero dato reddituale di essi reclamanti; che, peraltro, avevano allegato al ricorso d’urgenza non solo la copia del CU 2018 di L.A. ma anche il modello fiscale della societa’ di essi istanti, di cui il N.F.M.L., era amministratore; che da tali documenti, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure si ricavava la situazione reddituale di entrambi i genitori del minore N.L.M.L. e non solo della L.A. ; che in particolare, quest’ultima, alla stregua di tale documentazione risultava aver percepito nell’anno 2017 a titolo di reddito da lavoro dipendente la somma di euro 10.259,17 su base annuale, pari a circa euro 1.000,00 mensili, mentre l’utile della societa’ di cui la predetta era socia, era stato pari a euro 5.041,00; che, inoltre, nella dichiarazione 2018 relativa alla posizione della L.A. si evinceva nel riquadro “familiari a carico” la presenza di due soggetti, ossia il marito e il figlio, identificabili tramite il codice fiscale; che erano considerati familiari fiscalmente a carico tutti i membri della famiglia che nel 2017 non avevano posseduto un reddito complessivo superiore a euro 2.840,51, al lordo degli oneri deducibili; che, quindi, essi reclamanti avevano dato prova della effettiva ed attuale situazione reddituale e patrimoniale del nucleo familiare; che, peraltro, la società di famiglia F.eJ. S.R.L.S, come emergeva dalla documentazione in atti, nel periodo di imposta 2017 aveva avuto solo un utile di circa euro 5.000,00 e successivamente, precisamente a gennaio 2020, era stata inattiva e attualmente era in fase di liquidazione; che, in conseguenza delle difficolta’ economiche evidenziate, dall’11 marzo 2020, N.F.M.L.,, non ricoprendo piu’ il ruolo di amministratore pro tempore, lavorava part time presso un ristorante con una retribuzione per il mese di marzo 2020 pari a euro 401,62 come da busta paga allegata; che attualmente L.A. era disoccupata, come risultava dalla percezione dell’indennità di disoccupazione NASPI allegata; che, inoltre, secondo il parere del centro AITA, presso il quale il minore N.L.M.L. svolgeva la terapia ABA, il bambino, visti i miglioramenti ottenuti, avrebbe avuto bisogno di aumentare le ore settimanali di terapia ABA, senza che, tuttavia, essi reclamanti potessero permetterselo; che, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza reclamata, la situazione di indigenza economica era evidente e documentata, tanto più a fronte della necessità di affrontare la spesa necessaria per una terapia riabilitativa continuativa rispetto a una malattia cronica; che, quindi, non poteva dubitarsi della sussistenza del requisito del periculum in mora legato alla impossibilità continuare a sostenere i rilevanti costi della terapia, la cui interruzione/sospensione avrebbe determinato un pericolo concreto di un grave pregiudizio alla salute del minore; che alla luce delle evidenze scientifiche e della stessa legislazione nazionale e regionale non poteva essere messa in dubbio la validita’ della metodologia ABA per il trattamento dei bambini con disturbi dello spettro autistico per cui, tenuto conto del diritto assoluto alla salute del minore N.L.M.L., sussisteva anche il requisito del fumus boni iuris. Pertanto, i reclamanti avevano reiterato le richieste formulate nella precedente fase del giudizio.

Si costituiva in sede di reclamo l’Azienda Sanitaria Locale Roma 1 ribadendo quanto affermato in ordine all’insussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. In particolare, evidenziava come il piano terapeutico del minore fosse stato predisposto dai sanitari e dalle strutture private che lo avevano in cura, senza l’intervento del Medico Neuropsichiatra Pubblico il quale, tra l’altro, aveva il compito di verificare e valutare il programma di trattamento eventualmente proposto da strutture accreditate al fine della corretta tutela della salute del paziente; che, comunque, il bambino beneficiava della terapia richiesta e modulata dai centri presso i quali i genitori si erano rivolti, svolgendo 4 ore settimanali di terapia domiciliare per cui non sussisteva il fumus boni iuris; che, con riguardo alla mancanza, nella fattispecie, del pregiudizio imminente e irreparabile quale presupposto del provvedimento d’urgenza richiesto assumeva che le controparti non avevano dato adeguata e convincente prova della solo affermata impossibilita’ di far fronte per il futuro ai costi della terapia; che, peraltro, L.A. e N.F.M.L., non avevano chiesto il rimborso, ma l’assunzione della spesa a carico di essa Azienda Sanitaria ma non nella misura corrispondente alle ore di terapie di cui il minore attualmente beneficiava bensi’ in misura ingiustificatamente decuplicata (40 ore settimanali) senza tenere conto degli impegni scolastici e dei profili soggettivi che non potevano non essere presi in considerazione in relazione al singolo caso concreto; che tale tipo di richiesta necessitava di approfondimenti e controlli clinici da parte della struttura pubblica incompatibili con lo strumento cautelare prescelto dalla controparte con particolare riguardo alla predisposizione o validazione di un corretto piano terapeutico individualizzato e nella erogazione, diretta o mediante l’intervento di strutture private accreditate o, ancora, di strutture private non accreditate ma quantomeno autorizzate all’esercizio di attivita’ sanitaria. Pertanto, concludeva per il rigetto del reclamo in quanto infondato, con vittoria di spese e onorari del giudizio.

Osserva il Collegio che, nella fattispecie, il ricorso risulta parzialmente fondato e pertanto deve essere accolto per quanto di ragione. Ed invero, deve essere riconosciuto il diritto del minore N.L.M.L. a ricevere, in via diretta dalla ASL RM 1, ovvero mediante rimborso delle ore di terapia ricevute da terzi, a carico del Sistema Sanitario Regionale, l’erogazione del trattamento riabilitativo ABA per 20 ore settimanali, per la durata di 24 mesi.

Con riferimento al requisito del fumus boni iuris si osserva che l’art. 74 della Legge Regionale n. 7 del 22 ottobre 2018 ha formalmente incluso la terapia cognitivo-comportamentale ad indirizzo ABA nell’ambito dei trattamenti riconosciuti dalle Linee Guida come “trattamenti ad evidenza scientifica riconosciuta”. Tale norma stabilisce, quindi, al fine di favorire un migliore adattamento alla vita quotidiana del minore in eta’ evolutiva pre-scolare (ossia fino al compimento dei 6 anni) nello spettro autistico, di sostenere le famiglie, dando priorita’ a quelle con un numero di figli nello spettro superiore ad 1 e con un ISEE inferiore o pari a 8 mila euro. Da cio’ consegue, ai sensi dell’art.1 commi 2 e 7, del D.lgs. n. 502/1992 e del DCPM del 12 gennaio 2017, l’obbligo del S.S.R. di fornire tale trattamento.

Infatti l’art.1 comma 2 del D.lgs. 502/1992 prevede che: “2. Il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso le risorse finanziarie pubbliche individuate ai sensi del comma 3 e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignita’ della persona umana, del bisogno di salute, dell’equita’ nell’accesso all’assistenza, della qualita’ delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonche’ dell’economicita’ nell’impiego delle risorse”.

Il successivo comma 7 stabilisce che: “7. Sono posti a carico del Servizio sanitario le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate. Sono esclusi dai livelli di assistenza erogati a carico del Servizio sanitario nazionale le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che:

a) non rispondono a necessita’ assistenziali tutelate in base ai principi ispiratori del Servizio sanitario nazionale di cui al comma 2;

b) non soddisfano il principio dell’efficacia e dell’appropriatezza, ovvero la cui efficacia non e’ dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili o sono utilizzati per soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate;

c) in presenza di altre forme di assistenza volte a soddisfare le medesime esigenze, non soddisfano il principio dell’economicita’ nell’impiego delle risorse, ovvero non garantiscono un uso efficiente delle risorse quanto a modalita’ di organizzazione ed erogazione dell’assistenza”.

Inoltre, l’art. 3 della Legge n. 134/2015 prevede che i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) relativi al disturbo dello spettro autistico vengano aggiornati sulla base delle piu’ avanzate conoscenze specifiche. Tale norma, infatti, cosi’ testualmente recita: “1. Nel rispetto degli equilibri programmati di finanza pubblica e tenuto conto del nuovo Patto per la salute 2014-2016, … si provvede all’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, con l’inserimento, per quanto attiene ai disturbi dello spettro autistico, delle prestazioni della diagnosi precoce, della cura e del trattamento individualizzato, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle piu’ avanzate evidenze scientifiche disponibili”.

Il DCPM 12 gennaio 2017 nell’aggiornare i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) ha previsto, infine, all’art. 60 comma 1 che: “1. Ai sensi della legge 18 agosto 2015, n. 134, il Servizio sanitario nazionale garantisce alle persone con disturbi dello spettro autistico, le prestazioni della diagnosi precoce, della cura e del trattamento individualizzato, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle piu’ avanzate evidenze scientifiche”.

Inoltre le linee guida emanate nel novembre 2012 dal Ministero della Salute – Istituto Superiore di Sanita’ aventi ad oggetto “il trattamento di disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti” evidenziano che “tra i programmi intensivi comportamentali il modello piu’ studiato e’ l’analisi comportamentale applicata (Applied Behaviour Analysis ABA): gli studi sostengono una sua efficacia nel migliorare le abilita’ intellettive (QI), il linguaggio e i comportamenti adottativi nei bambini con disturbi dello spettro autistico. Le prove a disposizione, anche se non definitive, consentono di consigliare l’utilizzo del modello ABA nel trattamento dei bambini con disturbi dello spettro autistico…”.

Quindi, in virtu’ della richiamata normativa e delle stesse valutazioni del Ministero della salute, deve concludersi che il trattamento con metodologia ABA e’ un trattamento riabilitativo compreso nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e che e’ riconosciuto dalle piu’ recenti evidenze scientifiche e, quindi, come tale, rientra nei trattamenti sanitari che il Servizio Sanitario Regionale eroga. La ASL, pertanto, e’ tenuta ad somministrare a tutti gli assistiti il trattamento medesimo, purche’ sussistano le condizioni richiamate dal disposto del D.lgs. n. 502/1992 e conseguentemente sussiste la legittimazione passiva della ASL, nella fattispecie, della ASL Roma 1. Incontestata tra le parti e’ l’attribuzione della controversia al giudice ordinario in quanto, secondo costante giurisprudenza, le cause relative a lesioni del diritto soggettivo alla salute, non suscettibile di affievolimento, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

Con riguardo alla fattispecie in esame non puo’ dubitarsi che, in via generale, sia legittima l’imposizione di tetti di spesa sanitaria pubblica, date le insopprimibili esigenze di equilibrio finanziario, di sostenibilita’ e di razionalizzazione della spesa. Tuttavia, la circostanza che determinate prestazioni sanitarie non siano state inserite nei livelli essenziali di assistenza, pur rappresentando un limite fissato alle Regioni (art. 117, comma secondo, lett. m, Cost.) e connesso alla salute intesa quale diritto finanziariamente condizionato, non puo’ costituire ragione sufficiente, in se’ sola, a negare del tutto prestazioni essenziali per la salute degli assistiti, ne’ puo’ incidere sul nucleo irriducibile ed essenziale del diritto alla salute, poiche’ l’ingiustificato diverso trattamento delle persone affette da una patologia, in base alla capacita’ economica delle stesse, non puo’ costituire un limite rispetto all’esercizio di un diritto fondamentale.

In particolare secondo la giurisprudenza di legittimita’ “vanno anzitutto richiamati i principi enunciati dalle Sezioni Unite, secondo cui la discrezionalita’ della pubblica amministrazione nel valutare sia le esigenze sanitarie di chi chieda una prestazione del Servizio Sanitario Nazionale, sia le proprie disponibilita’ finanziarie, viene meno quando l’assistito chieda – come nella fattispecie – il riconoscimento del diritto alla erogazione di cure tempestive non ottenibili dal servizio pubblico, facendo valere una pretesa correlata al diritto alla salute, per sua natura non suscettibile di affievolimento. Sotto questo profilo, non puo’ essere quindi condiviso l’assunto dell’azienda ricorrente che, richiamando la normativa regolamentare emanata per la definizione dei livelli essenziali di assistenza e delle prestazioni specialistiche ambulatoriali assicurate dal servizio pubblico, afferma che la valutazione e decisione in ordine alle prestazioni sanitarie erogabili e’ rimessa unicamente all’Amministrazione Sanitaria. Si deve invece affermare, alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, che data la dimensione di diritto assoluto e primario, costituzionalmente garantito, della situazione soggettiva fatta valere, questa non puo’ essere definitivamente sacrificata o compromessa, sicche’ allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporla a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su tale diritto, non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perche’ la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, tale dimensione, suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata; si deve conseguentemente negare l’esercizio di poteri discrezionali (compresi quelli autorizzativi) da parte della pubblica amministrazione e, quindi, la configurabilita’ di atti amministrativi (comunque disapplicabili ai sensi della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, articolo 5, all. E), condizionanti il diritto all’assistenza (cfr. per tutte Cass., Sez. Un., 20 agosto 2003 n. 12249; 24 giugno 2005 n. 13548; Cass., Sez. Un., 30 maggio 2005 n. 11334, 1 agosto 2006n. 17461). Cio’ posto, la sussistenza o meno del diritto all’erogazione della prestazione richiesta da parte del Servizio Sanitario Nazionale deve essere accertata in relazione ai presupposti stabiliti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, articolo 1 (nel testo modificato dal Decreto Legislativo 19 giugno 1999, n. 229, articolo 1), con cui si stabilisce al comma 2 che “il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dalla Legge 23 dicembre 1978, n. 833, articoli 1 e 2, i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignita’ della persona umana, del bisogno di salute, dell’equita’ nell’accesso all’assistenza, della qualita’ delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonche’ dell’economicita’ nell’impiego delle risorse” (cfr. Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 17541 del 23 agosto 2011). In definitiva, la discrezionalita’ della pubblica amministrazione nel valutare sia le esigenze sanitarie di chi chieda una prestazione del Servizio Sanitario Nazionale, sia le proprie disponibilita’ finanziarie, viene meno quando l’assistito chieda il riconoscimento del diritto all’erogazione di cure tempestive non ottenibili dal servizio pubblico, facendo valere una pretesa correlata al diritto alla salute, per sua natura non suscettibile di affievolimento. In tale ambito, quindi, non puo’ essere riconosciuto l’esercizio di poteri discrezionali (compresi quelli autorizzativi) da parte della pubblica amministrazione e, quindi, la configurabilita’ di atti amministrativi (comunque disapplicabili ai sensi della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E), condizionanti il diritto all’assistenza. Pertanto, quando si tratti del nucleo essenziale del diritto alla salute e la prestazione in considerazione sia indispensabile e indifferibile per la sua tutela, le esigenze della finanza pubblica e le disposizioni normative debbono subire una deroga in vista del soddisfacimento del diritto alla salute tutelato dalla Costituzione quale ambito inviolabile della dignita’ umana.

Pertanto, e’ pacifica l’inclusione del metodo ABA tra i trattamenti riconosciuti dalle Linee Guida come “trattamenti ad evidenza scientifica riconosciuta”, ed e’ anche incontestata la diagnosi di disturbo dello spettro autistico posta per la prima volta in data 3 luglio 2017 dai sanitari della ASL RM 1 secondo cui il minore N.L.M.L. e’ affetto da “disturbo globale dello sviluppo con particolare compromissione dell’area comunicativa e sociale, a rischio di grado severo di disturbo dello spettro autistico” (cfr. doc. n. 3 del fascicolo di parte ricorrente della prima fase del giudizio). Tale diagnosi, peraltro e’ stata confermata dal certificato del 25 settembre 2019 della stessa ASL RM 1 (cfr. doc. n. 10 del fascicolo di parte ricorrente della prima fase del giudizio) nonche’ dal certificato del 16 gennaio 2019 dell’Unita’ Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico di Tor Vergata secondo cui il predetto minore soffre di “disturbo dello spettro autistico (cod. ICD9 – CM 299.0; cod. ICD 10F 84.0) con compromissione del funzionamento globale senza compromissione cognitiva associata. Tratti di disattenzione e disregolazione motoria e comportamentale” (cfr. doc. n. 7 del fascicolo di parte ricorrente della prima fase del giudizio). In tale situazione deve essere accertato se il minore N.L.M.L., abbia diritto al trattamento ABA a spese del S.S.N. in quanto implicante un significativo beneficio in termini di salute (a livello individuale o collettivo), non ottenibile con altre forme di assistenza erogate dal S.S.N.. In primo luogo, al riguardo, deve essere evidenziata la gravita’ delle condizioni di salute del minore, tanto che con verbale INPS del 2 ottobre 2017 (cfr. doc. 4 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase) gli e’ stato riconosciuto lo stato di portatore di handicap grave secondo i requisiti previsti dall’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992. Inoltre, con verbale INPS del 14 dicembre 2017 (cfr. doc. 4 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase) N.L.M.L. ha ottenuto il riconoscimento del diritto all’indennita’ di accompagnamento ex art. 1 della Legge 18/80 e succ. mod. e integrazioni, necessitando di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. Nel settembre del 2019 il minore ha iniziato le cure presso la struttura privata con utilizzazione del metodo ABA come emerge dalla relazione di inizio terapia della dott.ssa C.G., psicologa dello sviluppo e supervisore ABA (cfr. doc. 8 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase). La validita’ della terapia con riguardo al disturbo dello spettro autistico da cui il minore e’ affetto e’ stata attestata dalla stessa dott.ssa G. che nella relazione del 27 novembre 2019 (cfr. doc. 9 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase) ha affermato che “a fronte di una serie d’incontri settimanali e di supervisioni mensili, ho potuto osservare che N.L.M.L. ha conseguito notevoli miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda la relazione con l’adulto, la compliance e la riduzione delle rigidita’ importanti che gli impedivano di portare avanti tutta una serie di autonomie personali” per cui ha suggerito “di intensificare il percorso terapeutico, come da Linee Guida dell’istituto Superiore della Sanita’, ripartendo l’intervento tra il domiciliare e la terapia a scuola”. La necessita’ e l’efficacia del trattamento riabilitativo cognitivo comportamentale mediante la metodologia ABA con riguardo alle specifiche condizioni di salute del minore N.L.M.L. risulta affermata anche dalla struttura pubblica e in particolare dall’Unita’ Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico di Tor Vergata che nella relazione del 16 gennaio 2019 ha prescritto al minore quanto segue: “In relazione alle caratteristiche sopradescritte e alla diagnosi di base, si ritiene necessario proseguire e intensificare l’intervento abilitativo in atto, integrando l’attuale piano di trattamento logopedico e neuropsicomotorio, con un percorso di terapia psicologica con orientamento cognitivo-comportamentale, come indicato da linee guida ISS, finalizzato al miglioramento delle difficolta’ emerse dalla presente valutazione” (cfr. doc. n. 7 del fascicolo di parte ricorrente della prima fase del giudizio).

Sulla base di tali elementi e in relazione alle specifiche condizioni di salute del minore N.L.M.L. deve ritenersi la sussistenza del requisito del “fumus boni iuris”, poiche’ la domanda dell’erogazione del trattamento sanitario riabilitativo cognitivo comportamentale mediante la metodologia ABA risulta riconducibile nella fattispecie alla tutela del fondamentale diritto alla salute cui e’ riconosciuto valore primario dall’art. 32 della Costituzione. Infatti, il Ministero della Salute – Istituto Superiore di Sanita’ ha riscontrato e affermato la validita’ scientifica e l’efficacia terapeutica della prestazione sanitaria richiesta ritenendola appropriata per la patologia del disturbo dello spettro autistico da cui e’ affetto il figlio dei reclamanti. Inoltre, sia strutture pubbliche che private hanno prescritto la terapia in questione riconoscendola efficace e indispensabile per la salute del minore. In definitiva ricorrono, nella fattispecie, le evidenze scientifiche della terapia (cfr, Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 6775 del 19 marzo 2018).

Inoltre, i reclamanti hanno dedotto e provato che non vi sono strutture riabilitative pubbliche o convenzionate che erogano la terapia cognitivo comportamentale (cfr. elenco centri di riabilitazione di cui al doc. n. 5 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase del giudizio). Ne’ risultano presenti altre forme di assistenza, meno costose e di efficacia comparabile, volte a soddisfare le medesime esigenze ed erogabili dalle strutture pubbliche o convenzionate. Peraltro, l’Azienda Sanitaria Locale Roma 1 non ha contestato tali circostanze.

Sussiste, altresi’, il requisito del periculum in mora con riguardo tanto alle condizioni di salute del minore N.L.M.L. quanto con riferimento alla situazione economica della famiglia, che non e’ risultata in grado di sostenere gli elevati costi del trattamento sanitario riabilitativo cognitivo comportamentale mediante la metodologia ABA. In proposito, in via generale, la Suprema Corte ha avuto occasione di chiarire che “la sussistenza del diritto all’erogazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale di cure tempestive non ottenibili dal servizio pubblico, quando siano prospettati motivi di urgenza suscettibili di esporre la salute a pregiudizi gravi ed irreversibili, deve essere accertata sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dal Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, articolo 1 (nel testo modificato dal Decreto Legislativo 19 giugno 1999 n. 229, articolo 1 applicabile ratione temporis). In base al principio di appropriatezza ed efficacia enunciato da tale normativa, i benefici conseguibili con la prestazione richiesta devono essere posti a confronto con l’incidenza della pratica terapeutica sulle condizioni di vita del paziente, dovendosi considerare in particolare – in relazione ai limiti anche temporali del recupero delle capacita’ funzionali – la compromissione degli interessi di socializzazione della persona, derivante dalla durata e gravosita’ dell’impegno terapeutico” (Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 10692 del 24 aprile 2008, Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 18676 del 4 settembre 2014, Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 7279 del 10 aprile 2015, Cass. civ., Sez. Lav., Sentenza n. 6775 del 19 marzo 2018).

Nello specifico la sospensione della terapia in corso, in attesa della definizione di un ordinario giudizio di cognizione, comporterebbe un pregiudizio grave e irreparabile per il minore. Da un lato, infatti, sarebbero compromessi i risultati positivi gia’ ottenuti, consistenti in un accrescimento del patrimonio di competenza sociale, comunicativa e dell’autonomia personale, come risultanti dalla relazione del 27 novembre 2019 della dott.ssa C.G. (cfr. doc. 9 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase) e, dall’altro, sarebbero impediti i miglioramenti dello stato di salute attesi in base alle relazioni e prescrizioni medico sanitarie in atti. Tali elementi, oltre che la gravita’ della patologia da cui e’ affetto il minore che ne compromette del tutto l’autonomia, la progressiva evoluzione della malattia e i rilevanti costi del trattamento in questione rispetto alla situazione reddituale del nucleo familiare, inducono a ritenere l’esistenza del pericolo di un pregiudizio grave e irreparabile per la salute del minore in relazione al tempo necessario alla definizione di un ordinario giudizio di cognizione, derivante dalla sospensione del trattamento terapeutico. Del resto, alla stregua dei chiarimenti forniti con il reclamo non puo’ dubitarsi che le condizioni economiche della famiglia non consentano di affrontare neppure in via provvisoria le ingenti spese necessarie per la terapia cognitivo comportamentale – metodo ABA. Ed invero L.A. dalla Certificazione Unica per l’anno 2018 versata in atti (cfr. doc. n. 22 del fascicolo di parte ricorrente della prima fase del giudizio) risulta aver percepito nell’anno 2017 a titolo di reddito da lavoro dipendente la somma complessiva di euro 10.259,17, mentre dalla dichiarazione dei redditi della stessa L.A. sempre relativa ai redditi dell’anno 2017 (cfr. doc. n. 22 del fascicolo di parte ricorrente della precedente fase del giudizio) emerge che l’utile della societa’ F.eJ. S.R.L.S di cui la predetta e’ socia, e’ stato pari a euro 5.041,00. Dalla stessa dichiarazione dei redditi si ricava che il marito N.F.M.L., e il figlio minore N.L.M.L. sono a carico della L.A. , circostanza da cui emerge che nell’annualita’ in esame non hanno posseduto un reddito complessivo superiore a euro 2.840,51, al lordo degli oneri deducibili. Peraltro, la predetta societa’ al 31 gennaio 2020 risulta inattiva (cfr. doc. n. 2 del fascicolo di parte reclamante) e alla data del 10 marzo 2020 in liquidazione (cfr. doc. n. 3 del fascicolo di parte reclamante). Inoltre, da marzo 2020 N.F.M.L., lavora part time presso un ristorante, come risulta dalla busta paga versata in atti (cfr. doc. n. 4 del fascicolo di parte reclamante) da cui si ricava che per tre settimane di lavoro nel mese di marzo 2020 ha ricevuto la retribuzione di euro 401,62. Nelle more, L.A. ha perso il suo lavoro e attualmente e’ disoccupata e riceve la relativa indennita’ NASPI (cfr. doc. n. 5 del fascicolo di parte reclamante). In tale situazione non puo’ dubitarsi dell’impossibilita’ per il nucleo familiare di affrontare gli elevati costi della terapia in questione, con il descritto pregiudizio imminente e irreparabile per la salute del minore, derivante dalla sospensione del trattamento sanitario riabilitativo cognitivo comportamentale mediante la metodologia ABA.

Conseguentemente, la ASL RM 1, in persona del legale rappresentante pro-tempore, deve essere condannata a erogare in via diretta, o mediante la copertura dei relativi costi, la terapia ABA al minore N.L.M.L., nella misura di venti ore settimanali (le linee guida emanate dall’Istituto Superiore di Sanita’ per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti prevedono per tale trattamento cognitivo comportamentale – metodo ABA la misura minima di venti ore settimanali) per la durata provvisoria di 24 mesi, cioe’ il tempo necessario per la eventuale instaurazione di un giudizio ordinario, all’esito del quale individuare piu’ specificamente, anche tramite l’ausilio di consulenza tecnica, le necessita’ di trattamento terapeutico del minore in relazione alle sue condizioni di salute.

In applicazione del principio della soccombenza, la parte reclamata va condannata al pagamento delle spese dei due gradi del presente procedimento cautelare, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sul reclamo in epigrafe, cosi’ provvede:

– in accoglimento del reclamo annulla l’ordinanza reclamata e accerta il diritto del minore N.L.M.L. a ricevere, in via diretta dalla ASL RM1, ovvero mediante rimborso delle ore di terapia ricevute da terzi a carico del Sistema Sanitario Regionale, l’erogazione del trattamento riabilitativo con metodologia ABA per 20 ore settimanali, per la durata di 24 mesi con decorrenza dalla notifica della presente ordinanza;

– condanna la ASL RM 1, in persona del legale rappresentante pro-tempore, al pagamento, in favore dei reclamanti, delle spese dei due gradi del giudizio cautelare, che si liquidano in complessivi euro 3.000,00, oltre spese generali al 15%, oltre IVA e CPA coma per legge.

Si comunichi.

Cosi’ deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 giugno 2020

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rettificazione sesso - autorizzazione al mutamento del sesso

12/03/2020 n. 365 - Tribunale modena

Co. Ri. citava in giudizio avanti all’intestato Tribunale la Procura della Repubblica di Mo., premettendo che il Tribunale, con sentenza n. 1678/2018 pubblicata in data 11.10.2018 e passata in giudicato, aveva accolto la domanda di rettificazione di sesso dalla stessa formulata, attribuendole il sesso femminile ed i prenome “Co.” in luogo di An., e chiedendo l’autorizzazione a sottoporsi all’intervento chirurgico di rettificazione dei caratteri/tratti sessuali.

Esponeva all’uopo l’attrice di aver maturato la decisione di sottoporsi all’intervento successivamente la conclusione del precedente giudizio, e che il proprio percorso di transizione, iniziato nel 2013, non era mai stato oggetto di ripensamenti. Le relazioni mediche e psicologiche cui la stessa si era sottoposta, d’altro canto, avevano tutte concluso per una decisione pienamente consapevole riguardante il cambiamento di sesso e le relative conseguenze.

All’udienza del 7 novembre 2019 parte attrice era sentita liberamente dall’Istruttore, il difensore precisava le conclusioni e il Giudice tratteneva la causa in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda è fondata.

La relazione psicologica rilasciata il 7.2.2018 dalla dott.ssa Da. An. Na., consulente presso il MI., rileva che la sig.ra Ri. (all’epoca Ri. An. ) presenta disforia di genere, ovvero transessualismo irreversibile e, escludendo la presenza di patologia mentale, “…esprime parere favorevole a che la persona Ri. A. possa rettificare gli atti anagrafici e di stato civile e possa accedere all’intervento chirurgico di rettificazione e attribuzione di sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164” (doc 2 fasc. att.).

Anche la relazione in data 21.12.2017 della dott.ssa Ma. Cr. Me., endocrinologa presso l’AOU S. Or. – Ma. di Bo., ha attestato che gli interventi medici eseguiti negli anni da Ri. An. testimoniano la sua ferma volontà di vivere in conformità al sesso femminile assumendone i tipici ruoli; conclude poi affermando che: “…dal punto di vista medico non sussistono controindicazioni all’intervento” (doc. 3).

La documentazione prodotta deve ritenersi sufficiente per l’accoglimento della domanda, trattandosi di relazioni provenienti da professionisti affiliati a strutture sanitarie pubbliche, in particolare da consulenti del MI. (Movimento Identità Transessuale), che svolge attività convenzionata con l’Azienda USL di Bologna e che si caratterizza come centro specialistico di riferimento a livello nazionale per persone che presentano disforia di genere. D’altro canto, essi sono già stati ritenuti esaustivi dal Tribunale nel procedimento conclusosi con la sentenza che ha autorizzato la rettificazione dei dati dell’attrice con cambiamento del nome e annotazione negli atti anagrafici.

Dall’ interrogatorio libero dell’attrice, inoltre, è emersa la sua meditata volontà di sottoporsi all’intervento di rettificazione del sesso al fine di completare il percorso intrapreso con la domanda di rettifica dei dati anagrafici.

Ricorrono pertanto i presupposti per autorizzare l’intervento richiesto.

PQM

Il Tribunale di Modena, autorizza Ri. Co. a sottoporsi all’intervento chirurgico di rettificazione dei caratteri/tratti sessuali.

Co.ì deciso in Modena, il 29/01/2020 Il Giudice Relatore Il Presidente dott. Susanna Zavaglia dott. Riccardo Di Pasquale

dpcm 8 marzo 2020: si agli spostamenti per il rientro dei figli presso la residenza o il domicilio

11/03/2020 n. - Tribunale di Milano - sezione IX

DECRETO
Il Presidente FF Dott. Piera Gasparini
Letta l’istanza urgente depositata il giorno 11.3.2020 dal difensore di (…), avente ad oggetto la richiesta di rientro dei minori presso il domicilio di Milano;
ritenuto che sulla stessa non sia necessario sentire le parti, in quanto i coniugi nel corso della recente udienza del 3.3.2020 hanno concordato il mantenimento delle attuali condizioni di affido e collocamento dei minori, con indicazione di un preciso e dettagliato calendario di frequentazioni degli stessi con il genitore non collocatario in via prevalente, ossia il padre, alla stregua degli accordi separativi così come integrati dalle dichiarazioni rese alla predetta udienza, tanto da richiedere la decisione del giudice, nella fase presidenziale del divorzio, esclusivamente sulle questioni economiche;
rilevato, pertanto, che il predetto accordo è da ritenersi vincolante ai fini del regime di collocamento e frequentazione dei minori con il padre;
ritenuto che le previsioni di cui all’art. 1, comma 1, Lettera a), del DPCM 8 marzo 2020 n.11 non siano preclusive dell’attuazione delle disposizioni di affido e collocamento dei minori, laddove consentono gli spostamenti finalizzati a rientri presso la “residenza o il domicilio”, sicchè alcuna “chiusura” di ambiti regionali può giustificare violazioni, in questo senso, di provvedimenti di separazione o divorzio vigenti;
rilevato che anche le FAQ diramate dalla Presidenza del CDM in data 10.3.2020 indicano al punto 13 che gli spostamenti per raggiungere i figli minori presso l’altro genitore o presso l’affidatario sono sempre consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione e divorzio;
ritenuto che in relazione alle contingenze determinate della diffusione epidemica COVID 19 non sussistano ragioni per considerare gravi ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. i comportamenti tenuti da OMISSIS
PQM
a tutela dei minori e rigettata ogni altra domanda,
inaudita altera parte
DISPONE
che le parti si attengano alle previsioni di cui al verbale di separazione consensuale del 24.10.2018 omologato in data 12.11.2018 così come integrate dall’accordo delle parti del 3.3.2020.
Si comunichi con urgenza alle parti.
Milano, 11/03/2020
Il Presidente FF dott. Piera Gasparini

responsabilita' della struttura sanitaria per l'inadempimento di prestazioni medico libero professionale

09/03/2020 n. 4939 - Tribunale Roma

La struttura sanitaria risponde dell’operato del medico anche laddove quest’ultimo non sia qualificabile quale lavoratore subordinato, purché ci sia un collegamento tra la prestazione effettuata dal sanitario e l’organizzazione della struttura medesima, non assumendo alcuna rilevanza la circostanza che il medico sia “di fiducia” del paziente ovvero che sia stato scelto dallo stesso (ex multis, Cass., Sez. III, n. 13953/2007: “Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal S.s.n. o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto”).

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distrofia di genere e cambio anagrafico - il tribunale di milano descrive il percorso

17/02/2020 n. 1479 - Tribunale Milano sez. I

Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica. La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente -, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico

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protezione sussidiaria ad un cittadino pakistano proveniente dalla regione del punjab

30/01/2017 n. - ordinanza tribunale Palermo

Il Giudice, evidenziando che nella regione pakistana del Punjab “… si registra una situazione di gravissima insicurezza in conseguenza dell’attività terroristica posta in essere da parte di alcuni gruppi armati dell’estremismo islamico…”, ha riconosciuto al ricorrente, proveniente da tale regione, la protezione sussidiaria, ritenendo sussistenti i presupposti di cui all’art. 14, lett. c), D.lgs 251/07.