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collocamento del minore: il giudice deve effettuare una valutazione prognostica al fine di individuare il genitore più idoneo

19/05/2020 n. 9143 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. XXXX, già convivente more uxorio con YYYY., dalla quale aveva avuto un figlio di nome JJJJ, propose ricorso al Tribunale per i minorenni di Lecce, per sentir provvedere, ai sensi dell’art. 333 c.c., alla riorganizzazione delle competenze genitoriali, con l’esclusione della capacità genitoriale della madre e la disciplina dell’affidamento del figlio, in modo tale che egli potesse esercitare i diritti previsti dalla legge.

Si costituì la YYYY, e resistette alla domanda, assumendo che il figlio rifiutava la figura paterna per aver assistito a numerosi episodi di violenza posti in essere dal ricorrente nei confronti di essa resistente.

1.1. Con decreto dell’11 gennaio 2019, il Tribunale per i minorenni dispose il collocamento del padre e del figlio presso un’idonea comunità educativa.

2. Il reclamo proposto dalla YYYY è stato rigettato dalla Corte d’appello di Lecce con decreto dell’8 aprile 2019.

Premesso che il procedimento in esame era stato preceduto dalla proposizione di un analogo ricorso, rigettato dal Tribunale per i minorenni con decreto emesso il 26 marzo 2015, che aveva disposto l’affidamento del minore al Servizio sociale del Comune di Maglie, ai fini dell’immediato avvio di un percorso di mediazione o di attenuazione della conflittualità tra i genitori, e precisato che l’iter mediativo non aveva trovato attuazione, a causa del permanere di un’elevata conflittualità tra le parti, la Corte ha rilevato che erano rimasti ineseguiti anche i provvedimenti da essa adottati con Decreto del 10 giugno 2016, in sede di reclamo avverso il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c., con cui il Tribunale di Lecce aveva disciplinato l’esercizio del diritto di visita spettante al XXXX, mentre erano falliti i tentativi compiuti dal Servizio sociale per avviare un progetto di mediazione e sostegno al minore ed alla genitorialità, in esecuzione di un successivo decreto emesso dal Tribunale di Lecce il 20 luglio 2016.

Ciò posto, la Corte ha richiamato la relazione depositata dai c.t.u. nominati in primo grado, dalla quale emergevano la difficoltà per il minore di accettare la separazione tra i genitori e la conseguente necessità di operare uno specifico intervento con il coinvolgimento di un neuropsichiatra infantile, nonché quella di avviare un percorso di psicoterapia individuale per il trattamento dei dati personologici delle parti, al fine di approfondire certi vissuti traumatici della YYYY, incidenti sul processo di dipendenza attivato con il figlio, e di consentire al XXXX di sviluppare le sue capacità di comprensione, gestione e manifestazione dei vissuti emotivi. Rilevato che le relazioni successivamente trasmesse dai Consultori familiari e dal neuropsichiatra confermavano il rifiuto del minore di interagire con il padre e la presenza di un condizionamento da parte di figure parentali, in primo luogo della madre, ha ritenuto meritevoli di conferma le misure adottate in primo grado, affermando che, ai fini dei provvedimenti previsti dall’art. 333 c.c., non potevano assumere alcun rilievo i comportamenti penalmente illeciti ascritti dalla reclamante al XXXX, in assenza di una pronuncia giudiziaria quanto meno di primo grado. Ha aggiunto che un infortunio subito dal minore mentre si trovava a casa dei nonni era stato ridimensionato e ricondotto a cause accidentali, escludendo inoltre che il piccolo JJJJ avesse potuto subire danni a causa dei maltrattamenti posti in essere dal XXXX nei confronti della P. nel corso della convivenza, interrottasi pochi mesi dopo la sua nascita.

La Corte ha altresì escluso la necessità di disporre una nuova c.t.u., rilevando che le relazioni degli operatori delle strutture socio-sanitarie coinvolte, pur avendo rappresentato le problematiche personologiche del XXXX, avevano concordemente evidenziato la necessità di favorire la relazione tra il minore ed il padre, in autonomia rispetto alla madre, nonché la sostanziale chiusura di quest’ultima verso ogni progetto di mediazione e recupero della genitorialità, a causa di sentimenti personali di rifiuto nei confronti dell’uomo. Ha aggiunto che la scelta del regime residenziale del minore con il padre, in luogo di quello con la madre, costituiva l’unico strumento utilizzabile per ristabilire i rapporti tra padre e figlio, trovando giustificazione nella mancata modificazione dell’atteggiamento della donna, che consentiva di escludere la prospettiva di comportamenti resilienti da parte della stessa.

3. Avverso il predetto decreto la YYYY ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Il XXXX ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, proposta dalla difesa del controricorrente in relazione al carattere provvisorio del provvedimento impugnato, costituente espressione di giurisdizione non contenziosa, e quindi inidoneo ad acquistare efficacia di giudicato.

La più recente giurisprudenza di legittimità, rimeditando il proprio precedente orientamento, anche alla luce delle modificazioni normative introdotte in materia di filiazione dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219 e dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha infatti riconosciuto la proponibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso il decreto con cui, in sede di reclamo, la corte d’appello abbia confermato, modificato o revocato provvedimenti de potestate adottati dal tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., osservando che tali provvedimenti hanno carattere decisorio e definitivo, in quanto incidenti su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, nonchè revocabili o modificabili solo in presenza di fatti nuovi, e pertanto idonei ad acquistare efficacia di giudicato rebus sic stantibus (cfr. Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32359; Cass., Sez. I, 25/07/2018, n. 19780; 21/11/2016, n. 13633). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche a provvedimenti, come quelli che dispongano l’affidamento ai servizi sociali, non ablativi ma comunque limitativi della responsabilità genitoriale, in quanto incidenti sulle modalità di esercizio della stessa, essendosi rilevato che tale misura non comporta alcuna modificazione nella qualificazione giuridica del provvedimento (cfr. Cass., Sez. I, 12/11/2018, n. 28998): allo stesso modo, deve ritenersi quindi operante in riferimento al decreto impugnato, con il quale la Corte d’appello, decidendo sul reclamo proposto dalla ricorrente, ha confermato il collocamento del controricorrente e del figlio minore presso una comunità educativa, disposto dal Tribunale per i minorenni a seguito del ricorso proposto dall’uomo ai sensi dell’art. 333 c.c.; non vi è infatti prova del carattere meramente provvisorio ed urgente del provvedimento, il quale, pur non avendo comportato la conclusione del procedimento dinanzi al Giudice minorile, e non prevedendo comunque una soluzione definitiva, risulta idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sulle posizioni delle parti, essendo destinato ad operare almeno fino a quando non venga meno la conflittualità che caratterizza attualmente i rapporti tra le stesse (cfr. Cass., Sez. VI, 24/ 01/2020, n. 1668).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 337-ter c.c., dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 32 Cost., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto irrilevanti i maltrattamenti e le violenze posti in essere dal M. nei confronti di essa ricorrente e del minore, a causa del mancato accertamento degli stessi in sede penale. Premesso infatti che nei confronti dell’uomo risultavano pendenti tre procedimenti penali per i reati di cui agli artt. 572, 582 e 585 c.p., sostiene che, nel richiamare la presunzione di innocenza, la Corte territoriale non ha considerato che la stessa opera come garanzia per l’imputato in sede penale, ma non costituisce prova d’innocenza in sede civile, ed ha quindi omesso di valutare il prevalente interesse del minore, il quale imponeva di procedere all’accertamento dei fatti indipendentemente dall’esito dei giudizi penali, nonchè di decidere sulla base del criterio civilistico del “più probabile che non”, anzichè secondo quello penalistico della certezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

2.1. Il motivo è infondato.

Pur avendo impropriamente richiamato la presunzione d’innocenza, operante esclusivamente in sede penale, la Corte territoriale non ha affatto escluso la rilevanza dei comportamenti penalmente censurabili ascritti dalla YYYY al XXXX, essendosi limitata a negare il carattere decisivo dei procedimenti penali pendenti per l’accertamento degli stessi, non ancora pervenuti neppure alla pronuncia di una sentenza di primo grado, ed avendo pertanto proceduto ad un’autonoma valutazione dei predetti comportamenti, all’esito della quale ne ha ridimensionato la portata, sia sotto il profilo materiale che sotto quello della potenziale dannosità per l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore. Non possono pertanto ritenersi violati nè le disposizioni richiamate dalla ricorrente, che individuano l’interesse superiore del minore quale criterio fondamentale di valutazione cui devono ispirarsi tutte le decisioni riguardanti l’affidamento e la protezione dello stesso, nè il principio di autonomia e separazione, cui è improntata la vigente disciplina dei rapporti tra processo civile e processo penale, il quale postula che, al di fuori delle ipotesi di sospensione necessaria e delle altre previste dagli artt. 651 c.p.p. e segg., aventi carattere derogatorio, il processo civile, anche se riguardante un diritto il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che costituiscono oggetto di un giudizio penale, prosegua il suo corso senza essere influenzato da quest’ultimo, ed il giudice civile, pur potendo utilizzare gli elementi di prova acquisiti in sede penale, accerti autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale (cfr. Cass., Sez. VI, 3/07/2018, n. 17316; Cass., Sez. lav., 12/01/2016, n. 287; 10/03/2015, n. 4758).

3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omessa, insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, affermando che l’interesse superiore del minore imponeva di procedere, ai fini della scelta delle misure da adottare concretamente, ad un bilanciamento tra i rischi ed i benefici collegati alle diverse soluzioni, nonchè di formulare un giudizio prognostico in ordine alla possibilità ed ai tempi di recupero del rapporto genitoriale ed alla capacità dei genitori di riprendere un ruolo educativo ed affettivo. Rileva che, nel disporre l’ingresso del minore in comunità, con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, la Corte territoriale ha omesso di valutare se tale soluzione risultasse meno traumatica della continuità affettiva nella dimora materna, nonchè di esaminare l’ipotesi di una riemersione delle violenze familiari, avendo fondato il proprio convincimento su elementi valutativi della genitorialità privi di specificità e significatività, senza tener conto del parere contrario espresso dal curatore del minore, delle conclusioni dei c.t.u. e dei provvedimenti adottati dal Tribunale ordinario, che avevano escluso la sussistenza di comportamenti ostruzionistici di essa ricorrente.

3.1. Il motivo è inammissibile.

In tema di provvedimenti riguardanti i figli, questa Corte, nel confermare il ruolo fondamentale dell’interesse del minore, quale criterio esclusivo di orientamento delle scelte affidate al giudice, ha ripetutamente precisato che il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione non può in ogni caso prescindere dal rispetto del principio della bigenitorialità, nel senso che, pur dovendosi tener conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore (cfr. Cass., Sez. I, 8/04/2019, n. 9764; 23/09/2015, n. 18817; 22/05/2014, n. 11412). A tale criterio si è puntualmente attenuto il decreto impugnato, il quale, nell’esaminare le diverse soluzioni ipotizzabili per il collocamento del minore, ha conferito particolare rilievo all’esigenza di assicurare il recupero del rapporto con il padre, pregiudicato da una lunga interruzione dovuta allo atteggiamento di rifiuto manifestato dalla madre nei confronti dell’ex convivente; in quest’ottica, la Corte territoriale ha valutato il comportamento tenuto da entrambi i genitori nei rapporti con il figlio e la disponibilità manifestata da ciascuno di essi al superamento della conflittualità in atto tra loro, evidenziando gli effetti potenzialmente pregiudizievoli di tale situazione sullo equilibrato sviluppo del minore, ed attribuendo quindi la preferenza, tra le varie alternative, al collocamento del piccolo JJJJ. con il padre presso una struttura educativa, ritenuto idoneo da un lato ad evitare il grave condizionamento psicologico determinato dal continuo contatto con la madre, dallo altro a consentire il superamento delle problematiche di tipo personologico manifestate dal padre, attraverso adeguati interventi psicoterapeutici. Nel censurare tale apprezzamento, la ricorrente non è in grado di individuare circostanze di fatto non considerate nel decreto impugnato, ma si limita ad insistere su elementi che hanno costituito oggetto di specifica valutazione, quali il distacco dall’ambiente familiare materno o i comportamenti violenti addebitati al padre, nonché sul parere contrario espresso dal curatore del minore e dal c.t.u., non aventi carattere vincolante per la Corte territoriale, la quale, nel discostarsene, ha ampiamente motivato la scelta effettuata. Nel lamentare l’omissione e l’illogicità della motivazione, la ricorrente omette poi d’indicare lacune argomentative o carenze logiche talmente gravi da impedire di ricostruire il ragionamento seguito per giungere alla decisione, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257).

4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 26 e 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata con L. 27 giugno 2013, n. 77, osservando che, nel disporre il collocamento del minore in comunità con il padre, autore delle violenze e dei maltrattamenti, il decreto impugnato non ha tenuto conto dell’obbligo, emergente dalle predette disposizioni, di prendere in considerazione, ai fini della determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli, gli episodi di violenza rientranti nell’ambito applicativo della Convenzione, in modo tale da evitare di compromettere i diritti e la sicurezza delle vittime o dei bambini.

4.1. Il motivo è infondato.

La Corte di merito, pur avendo ridimensionato la portata degli episodi di violenza addebitati dalla ricorrente all’ex convivente, non ha affatto omesso di adottare le misure volte a garantire i diritti ed i bisogni del minore, nello interesse superiore dello stesso, e di prendere in considerazione, ai fini del suo collocamento, l’esigenza di far sì che il recupero dei rapporti con il padre non vada a detrimento della sua sicurezza: la soluzione adottata, pur non corrispondendo a quella suggerita dal c.t.u., è stata infatti individuata sulla base di ampi approfondimenti istruttori, demandati sia al consulente che ai servizi sociali, conformemente a quanto prescritto dell’art. 26 cit., comma 2, per i bambini che siano stati testimoni di ogni forma di violenza, mentre la scelta di trasferire il minore presso una struttura educativa, invece di collocarlo direttamente presso il padre, risponde proprio alle finalità di tutela previste dell’art. 31, comma 2, essendo volta ad assicurare una graduale ripresa dei rapporti con la collaborazione e sotto la vigilanza di persone professionalmente qualificate.

5. Il ricorso va pertanto rigettato.

La natura della causa e la peculiarità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione delle spese processuali.

Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020

appalto per la fornitura domiciliare di ossigenoterapia- la previsione relativa alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) al medesimo offerente - legittimità

06/05/2020 n. 2865 - Consiglio di Stato - in sede giurisdizionale (sezione terza)

La previsione relativa alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima.

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9656 del 2019, proposto da
Vivisol S.R.L, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Franco Ferrari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di Ripetta 142;
contro

Innovapuglia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Angelo Clarizia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Principessa Clotilde, 2;
Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marina Altamura, con domicilio eletto presso la Delegazione della Regione Puglia in Roma, via Barberini n. 36;
nei confronti

Asl Br, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pierandrea Piccinni, Maurizio Nunzio Cesare Friolo, con domicilio eletto presso lo studio Barbara Cataldi in Roma, corso Risorgimento 11;
Azienda Sanitaria Locale di Taranto, Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Barletta – Andria – Trani, Azienda Sanitaria Locale di Bari, Azienda Sanitaria Locale di Foggia, Azienda Sanitaria Locale di Lecce non costituiti in giudizio;
per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) n. 01037/2019, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Innovapuglia S.p.A., della di Regione Puglia e della Asl Br;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza del giorno 30 aprile 2020, tenuta nelle forme di cui all’art. 84 del d.l. n. 18/2020, il Cons. Raffaello Sestini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1 – La controversia in esame si inserisce in un più ampio contenzioso riguardante la procedura aperta indetta da Innovapuglia S.p.A., quale soggetto aggregatore della Regione Puglia, per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine per i fabbisogni delle Aziende Sanitarie della medesima Regione. La gara, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (70 punti massimi per la qualità e 30 punti massimi per il prezzo), era articolata in 6 lotti per approvvigionare le 6 ASL della Regione mediante la stipula, da parte di Innovapuglia S.p.A, di 6 convenzioni quadro di durata biennale per l’effettuazione degli ordini da parte delle Aziende Sanitarie interessate

1.1 – Quanto ai contenuti della gara, le prestazioni richieste per ogni lotto comprendevano, in particolare, la fornitura periodica e la consegna di ossigeno terapeutico allo stato liquido in appositi contenitori criogenici, unità base e unità portatile, forniti in comodato d’uso gratuito; la fornitura e la consegna dei materiali di consumo e accessori occorrenti per l’espletamento del servizio; il servizio di assistenza tecnica e di manutenzione ordinaria e straordinaria; la sanificazione periodica dei contenitori criogenici; l’informazione e la formazione dei pazienti e degli assistenti sul corretto utilizzo delle apparecchiature; l’attivazione di un Call Center; l’applicativo informatico per la gestione del paziente e della fornitura di ossigeno comprendente tutti i dati richiesti del flusso informativo mensile obbligatorio nonché il ritiro delle apparecchiature e dell’eventuale materiale residuo.

1.2 – Quanto al prezzo, erano previsti due prezzi unitari a base d’asta, con obbligo di un identico sconto per entrambi: € 1,30/giorno per i servizi riferiti alla dispensazione domiciliare dell’ossigenoterapia; € 1,50/mc -quale prezzo medio stimato tra i prezzi attualmente praticati a livello nazionale, onnicomprensivo dei costi annessi per i materiali di consumo – per l’ossigeno liquido.

2 – Alcune imprese (in particolare, l’appellante Vivisol S.r.l., Medicair Sud S.r.l., Puglia Life S.r.l.) impugnavano davanti al TAR per la Puglia la lex specialis di gara, presentando istanza di decreto inaudita altera parte, per non dover presentare la propria offerta, ma tali istanze venivano rigettate. Anche esse presentavano pertanto offerte: l’odierna appellante Vivisol, in ATI con Medicair Sud, (che proponeva separato ricorso e poi separato appello) Puglia Life (che proponeva, anche essa, separato ricorso e poi separato appello) in ATI con Sapio Life S.r.l. (che interveniva ad adiuvandum in grado di appello).

2.1 – Il TAR rigettava le istanze cautelari e respingeva i tre ricorsi nel merito, con compensazione delle spese di lite tra le parti, con tre separate sentenze tutte impugnate in appello. Quella che definiva il ricorso di Vivisol SRl veniva impugnata con l’appello in epigrafe.

2.2 – Venivano altresì estromessi dalla gara i RTI formati da Sico – Società Italiana Carburo Ossigeno S.p.a. e Domolife S.r.l. per violazione dell’obbligo posto dalla lex specialis di gara di partecipazione nella stessa forma (individuale o associata) e composizione (in caso di RTI). I provvedimenti di esclusione venivano ritenuti legittimi dal TAR, dando atto del vincolo imposto dalla lex specialis di gara, con separate sentenze parimenti appellate dalle imprese interessate e decise da questa Sezione nella medesima udienza.

3 – Nel presente giudizio di appello, in particolare, l’appellante Vivisol, che nel frattempo è risultata aggiudicataria provvisoria per due lotti in ATI con Medicair Sud, da un lato, la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia dall’altro, hanno ampiamente dibattuto mediante un ripetuto scambio di memorie. E’ inoltre intervenuta l’ASL BR. Infine, con memoria del 28 aprile 2020 Innovapuglia, replicando alla memoria di Vivisol del giorno precedente, ha chiesto la pubblicazione anticipata del dispositivo di sentenza ai sensi dell’art. 120, commi 9 e 11, c.p.a.

4 – Ai fini della decisione del giudizio, devono essere preliminarmente decise le dedotte eccezioni concernenti l’ammissibilità e la procedibilità del ricorso, che vengono messe in dubbio dalle parti resistenti (e cioè dalla Regione Puglia e in modo più analitico da Innovapuglia SpA) in ragione della avvenuta partecipazione dell’impresa alla gara e del suo posizionamento in ATI come prima in graduatoria in relazione a due lotti (numero massimo di lotti aggiudicabili al medesimo soggetto secondo le previsioni di gara), per i quali ha altresì già ottenuto l’aggiudicazione provvisoria, di modo che non potrebbe lucrare, anche in caso di accoglimento del gravame, alcuna ulteriore utilità meritevole di tutela in sede giurisdizionale.

4.1 – Le predette eccezioni non possono peraltro essere accolte. Infatti, la presentazione dell’offerta non pregiudica la perduranza dell’interesse a coltivare la lite diretta all’annullamento dell’intera gara (Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/2019, n. 8037), in quanto l’offerta (per quanto irrevocabile) resta comunque destinata ad essere travolta dall’annullamento in toto della gara, richiesto dalla ricorrente. Inoltre, Innovapuglia non ha ancora adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva che avrebbe fatto acquisire all’impresa il diritto di eseguire la prestazione.

5 – Nel merito, secondo l’appellante il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso di primo grado, non avvedendosi che la lex specialis di gara per come formulata non aveva consentito la presentazione di un’offerta ponderata, aveva imposto un prezzo non remunerativo sottoposto ad uno sconto incongruo ed aveva compromesso l’autonomia imprenditoriale delle imprese partecipanti, condizionandole a partecipare per tutti i lotti nella stessa forma e composizione. Come sarà di seguito argomentato, le predette censure non risultano peraltro fondate, dovendo pertanto trovare conferma la decisione negativa già adottata dal TAR nel giudizio di primo grado.

5.1 – Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta.

5.1.1 – La legge di gara avrebbe, infatti, previsto una soglia di sbarramento obiettivamente troppo elevata e quindi irragionevole (con un minimo di 42 punti sui 70 punti massimi attribuibili all’offerta tecnica). Oltretutto, il coefficiente più basso, pari a 0, illogicamente non sarebbe assegnato all’offerta che per il relativo item è stimata insufficiente, ma all’offerta “rispondente ai requisiti senza elementi migliorativi” ovvero all’offerta sufficiente. Si aggiungerebbe l’inafferrabilità dei criteri di valutazione delle offerte, che rimetterebbero alla Commissione giudicatrice un potere di scelta illimitata vietato dall’art. 95 d.lgs. n. 50/2016. Sarebbe quindi stato impossibile fare stime dei comportamenti dei competitors in una logica concorrenziale, e quindi compiere valutazioni appropriate di convenienza economica e tecnica. Non basterebbe in altri termini per chi partecipa vincere, ma vincere nel migliore dei modi.

5.1.2 – La doglianza non è però suffragata da specifiche e puntuali argomentazioni atte a dimostrare da un lato, la irragionevole genericità dei criteri di valutazione, che offrono invece al valutatore una ampia e puntuale scala di valori in relazione alle prestazioni di ogni offerta e, dall’altro, la irragionevolezza della prevista soglia di sbarramento, ovvero che una offerta con un punteggio tecnico inferiore al minimo prestabilito avrebbe comunque potuto assicurare lo svolgimento di un servizio di fornitura compatibile con l’interesse pubblico di tutela del diritto alla salute dei pazienti perseguito dall’Amministrazione. Tale ultima censura, inoltre, nei fatti è smentita dalla stessa circostanza che non solo l’appellante, bensì tutte le imprese concorrenti, hanno superato tale soglia. La sentenza appellata chiarisce altresì che il valore zero corrisponde alle specifiche minime di ogni profilo prestazionale e che, quindi, correttamente non vengono accettati giudizi inferiori a quello corrispondente allo zero perché sotto di esso l’offerta è carente dei requisiti minimi, e quindi da escludere tout court.

In realtà, come ampiamente chiarito dal giudice di prime cure, la disciplina di valutazione delle offerte tecniche non palesa il lamentato carattere arbitrario, in quanto la componente discrezionale del punteggio tecnico è disciplinata e limitata da una griglia di valutazione espressiva del puntuale giudizio tecnico su ogni singolo aspetto qualitativo dell’offerta. I coefficienti valutativi della griglia di valutazione sono a propria volta frutto di una preventiva individuazione dei criteri di valutazione affidata a parametri che definiscono gli aspetti prestazionali in modo specifico e chiaro.

E’ stato quindi consentito agli operatori economici concorrenti di fare le proprie scelte, esercitando la propria libertà e responsabilità d’impresa, ai fini della emersione della migliore offerta nell’ambito di un mercato regolato ma realmente concorrenziale.

5.2 – Con il secondo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n.50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo), 85 e 105 d.lgs. n. 219/2006; violazione del principio del clare loqui; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta per ulteriori profili rispetto a quelli di cui al primo motivo.

5.2.1 – Si deduce, in particolare, l’irragionevolezza e quindi la ingiustizia manifesta di alcuni criteri di valutazione, in violazione della disciplina di riferimento e, più in generale, delle garanzie costituzionali che presidiano al libero esercizio dell’attività d’impresa. Sono contestati, in particolare, i punteggi tabellari relativi alle soluzioni migliorative previsti in relazione ai tempi di consegna e di installazione domiciliare, (0 punti: 12 ore, 1 punto: da 9 ore a 11 ore, 2 punti: da 6 ore a 8 ore, 3 punti: da 3 ore a 5 ore, 5 punti: meno di 3 ore) e di manutenzione straordinaria (0 punti: entro 2 ore, 5 punti: entro 1 ora). Si obietta al riguardo l’impraticabilità di entrambi i punteggi per la diversa estensione del territorio, comunque troppo ampio rispetto ai tempi previsti, da servire e per l’obbligo da capitolato tecnico di verificare preventivamente la presenza dell’assistito presso il domicilio entro le dodici ore solari, con consegne da effettuarsi di mattina o di pomeriggio. Il punteggio quantitativo relativo al numero di automezzi dedicati al servizio, inoltre, sarebbe irragionevole in assenza dell’indicazione del punteggio minimo da assicurare.

5.2.2 – Neppure le censure in esame si rivelano però fondate, Infatti, così come rilevato dal giudice di prime cure, l’abbattimento dei tempi oltre il limite della consegna entro le dodici ore solari viene del tutto ragionevolmente considerato come un indice di maggiore efficienza del servizio e di maggiore prossimità all’utente anche quanto alla verifica delle sue esigenze relative ai tempi e modi di fornitura, che determina correttamente una più favorevole valutazione della relativa offerta. Per quanto concerne poi i tempi di manutenzione straordinaria, esattamente il giudice di prime cure obietta l’infondatezza delle censure sollevate, dipendendo la maggiore rapidità di intervento per ogni singolo lotto in competizione, e quindi per ogni contesto territoriale omogeneo di riferimento relativo ad una ASL, da una migliore organizzazione aziendale della società e, quindi, dalla quantità e disseminazione dei punti di assistenza e degli addetti sul territorio. In particolare, quanto alla valutazione del numero degli automezzi in assenza di alcuna indicazione circa il numero minimo, in mancanza di una diversa applicazione deve ragionevolmente presupporsi, ancora in applicazione di un principio di libertà e quindi di responsabilità d’impresa, che il numero minimo consista semplicemente in un automezzo, soccorrendo ad integrazione il descritto criterio temporale. Analoghe considerazioni valgono per il punteggio qualitativo afferente ai materiali di consumo, visto che il concorrente, in forza del capitolato, deve in ogni caso garantire un certo quantitativo medio annuo per paziente ed inoltre dotare il paziente “senza oneri aggiuntivi” degli ulteriori materiali che siano comunque richiesti dallo specialista pneumologo prescrittore, ma può inoltre lucrare un maggiore punteggio discrezionale (massimo pari a 4 punti), offrendo una migliore qualità, rispetto ai requisiti minimi, dei materiali che deve comunque mettere a disposizione. I criteri in esame, dunque, non sono in astratto irragionevoli, né l’appellante dimostra che ne sia stata fatta una irragionevole applicazione.

5.3 – Con il terzo motivo di ricorso vendono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo) e 85 d.lgs. n. 219/2006; violazione degli artt. 1, co. 796, lett. g), l. n. 206/2006 e 11, co. 6, d.l. n. 78/2010, nonché dell’art. 15 d.l. n. 95/2012.

5.3.1 – Si deduce che il criterio di valutazione dell’offerta tecnica costituito dalle modalità di registrazione della quantità di ossigeno presente nel contenitore al momento della consegna e del ritiro del recipiente sarebbe illogico e confliggerebbe con la normativa in materia, essendo l’ossigeno un farmaco che, in quanto tale, va necessariamente venduto a confezione, non rilevando i residui (non utilizzabili ma da smaltire) del contenitore.

Si contesta inoltre l’obbligo di indicare i prezzi a base d’asta distinti per le prestazioni di servizi e di fornitura (€ 1,30 prezzo/giornata per i servizi; € 1,50 –erroneamente- per mc ossigeno anziché per contenitore) per poi dover effettuare un unico ribasso, con uno sconto unico per prestazioni eterogenee e diversamente remunerate, suscettibile di indurre il concorrente ad effettuare inevitabili compensazioni tra due valori disomogenei tra loro, inficiando la trasparenza della contabilità d’impresa. Inoltre inserire nel prezzo ossigeno liquido anche il costo dei materiali di consumo comporterebbe rimborsi maggiori di quelli in realtà dovuti in base al regime di pay-back, con grave nocumento economico, con introduzione di scenari futuri non dominabili circa la misura della contribuzione dovuta al ripianamento del deficit sanitario.

5.3.2 – Neppure la censura in esame merita accoglimento, in quanto il giudice di prime cure in realtà ha ampiamente chiarito l’appropriatezza della misurazione della quantità di ossigeno fornita in metri cubi, che non incide affatto sulla modalità di fornitura del prodotto ossigeno in contenitori pressurizzati e sulla conseguente contabilizzazione economica, e che risponde invece alla ragionevole esigenza di monitorare i consumi ai fini della verifica della economicità ed efficienza del servizio, posto a carico delle risorse pubbliche, e della puntuale programmazione futura dei relativi fabbisogni, fermo restando il pagamento della fornitura in base ai contenitori consegnati indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati –ed anzi proprio in ragione, secondo il principio di imparzialità e buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione, della circostanza che il pagamento avviene in base alla fornitura dei contenitori indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati.

Per le medesime considerazioni, non irragionevoli risultano sia il contestato obbligo di indicare distintamente i prezzi a base d’asta relativi alle attività di fornitura presso le abitazioni e alle attività di servizio rese agli utenti (necessariamente contabilizzate secondo parametri diversi: prezzo per quantità di prodotto –comprensivo dell’ossigeno e dei connessi materiali di consumo- e prezzo per tempo di lavoro), sia l’ulteriore e contestato obbligo di offrire un unico sconto percentuale dei due prezzi così determinati, in quanto riferiti a prestazioni diverse ma evidentemente connesse, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e conseguente responsabilità d’impresa la formulazione della migliore offerta atta a garantire, con il minor dispendio di risorse pubbliche, il pieno raggiungimento delle finalità d’interesse pubblico generale perseguite dall’Amministrazione.

Conclusivamente, l’appellante non riesce a dimostrare la irragionevolezza dei citati criteri, e neppure riesce a dimostrare, così come acclarato dal giudice di primo grado, che dalla loro pretesa irragionevole applicazione siano derivati un nocumento economico per l’appellante ovvero una alterazione della par condicio in suo danno rispetto agli altri partecipanti, essendo rimessa alla autonomia imprenditoriale dei concorrenti la duplice scelta circa le compensazioni da effettuare e lo sconto unitario da offrire.ai fini della formulazione di un prezzo finale capace di compensare la fornitura, il servizio e gli oneri accessori alla migliori condizioni di un mercato regolato ma realmente concorrenziale, alla stregua dei principi di imparzialità, buon andamento e tutela della salute sanciti dalla Costituzione.

5.4 – Con il quarto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: mancata individuazione come per legge (art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016) a cura della Stazione appaltante dei costi della manodopera; errores in iudicando in punto di: violazione dell’art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016; violazione del principio del clare loqui; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c..; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa.

5.4.1 – Si contesta con tale motivo la lacunosità della lex specialis di gara, che, difformemente da quanto previsto dall’art. 23, co. 16, del codice dei contratti pubblici, non avrebbe individuato i costi della manodopera.

5.4.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la lex specialis deve essere integrata dalla previsione di cui all’art. 95, co. 10, d.lgs. n. 50/2016, sicché comunque compete a ciascun offerente indicare i costi della manodopera, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e responsabilità dell’impresa la valutazione dei costi mediante una analitica previsione e contabilizzazione delle diverse attività lavorative necessarie al fine di garantire la fornitura del servizio di ossigenoterapia in esame nel rispetto degli obblighi normativi di tutela dei lavoratori, dai quali l’impresa non potrà comunque esimersi in sede di esecuzione del contratto. Era quindi il concorrente che doveva stimare i costi delle prestazioni lavorative di vario tipo ritenute necessarie per l’esecuzione del contratto in esame, qualificato dalla stessa stazione appaltante in sede di chiarimenti quale contrato di fornitura con alcuni servizi accessori, prima di predisporre una propria offerta conforme alle previsioni di legge.

5.5 – Con il quinto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost. ; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa per altri profili.

5.5.1 – Le censure in esame fanno riferimento al software che, secondo le previsioni di gara, dovrà essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria ai fini della integrazione della contabilità del servizio di fornitura in esame con il nuovo sistema informativo amministrativo-contabile regionale (MOSS) unico e integrato per tutte le Aziende Sanitarie Locali, trattandosi di un obbligo incerto nei tempi e nella sua quantificazione economco-finanziaria in ragione della mancata conoscenza della futura piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e della correlata integrazione del software che occorrerà mettere a disposizione..

5.5.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la censura non appare né conferente né, in ogni caso, dirimente, in quanto l’adeguamento amministrativo della contabilità dell’offerente alla piattaforma applicativa amministrativo-contabile del committente attiene ai normali oneri di diligenza e buona fede connessi all’esecuzione del contratto. La questione, quindi, concerne gli oneri ragionevolmente prevedibili da ciascuna impresa, nell’ambito delle proprie spese generali e di ammodernamento, per la fase, successiva a quella di gara, di realizzazione delle prestazioni contrattuali per le quali concorre. Ogni impresa deve, quindi, procedere, come d’uso, alla loro stima e quantificazione in sede di offerta avvalendosi, ove disponibili, delle eventuali indicazioni della stazione appaltante che, in questo caso, ha debitamente messo per tempo a disposizione di tutti i concorrenti le relative informazioni, nell’ambito di una esigenza di coordinamento unitario amministrativo-contabile regionale la cui ragionevolezza non può essere revocata in dubbio.

5.6 – Con il sesto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: error in iudicando in punto di violazione e falsa applicazione degli artt. 45 e 48 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale.

5.6.1 – La doglianza in esame è riferita all’art. 2 del disciplinare di gara, il quale prevede che “l’operatore economico che intende partecipare a più lotti è tenuto a presentarsi sempre nella medesima forma (individuale o associata) ed in caso di R.T.I. o Consorzi, sempre con la medesima composizione, pena l’esclusione del soggetto stesso e del concorrente in forma associata cui il soggetto partecipa”, combinandosi con il limite di aggiudicazione a due lotti.

La predetta previsione applicherebbe, quindi, ad una gara per l’affidamento di un contratto plurimo articolato in più lotti da considerare, per costante giurisprudenza, contrattualmente separati, una limitazione prevista invece per garantire l’autonomia e l’indipendenza fra una pluralità di offerte attinenti alla medesima gara. Ciò comporterebbe una indebita e quindi illegittima violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale delle singole imprese, ed in particolare delle piccole imprese, in quanto tali principi postulano, invece, la possibilità per le imprese di partecipare liberamente alle diverse procedure negoziali singolarmente o in ATI con altri operatori, anche al fine di competere con i concorrenti di maggiori dimensioni.

5.6.2 – Neppure la censura in esame risulta fondata. Premette il Collegio che, così come riconosciuto dal giudice di prime cure, la limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima.

In tale quadro, l’ulteriore previsione che le offerte per più lotti messi a gara debbano essere presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione risponde alla ragionevole esigenza d’interesse pubblico generale di garantire, da un lato, la correttezza e genuinità, e quindi la piena concorrenzialità fra loro, delle offerte riferite ad un’unica gara e, dall’altro, la univocità e serietà dell’impegno contrattuale assunto dai partecipanti alla medesima gara in sede di esecuzione dei singoli adempimenti contrattuali riferiti ai diversi lotti, ovvero alle diverse ASL della Regione Puglia, senza poter in ipotesi “triangolare” le responsabilità fra compagini societarie ed associative diverse.

L’unitarietà della gara emerge, così come dedotto dal giudice di prime cure, dalla unicità della Commissione esaminatrice, dall’identità, per tutti i lotti, dei requisiti richiesti dal bando e degli elementi di valutazione dell’offerta tecnica di cui all’allegato 2 al disciplinare, dalla possibilità di produrre un’unica offerta telematica per più lotti, dall’identità, per tutte le Asl, delle modalità di prestazione del servizio e delle prestazioni richieste ed, inoltre, dall’integrazione telematica riferita alla esecuzione di tutti gli adempimenti negoziali conseguenti.

Vengono, a tale ultimo riguardo, in rilievo le stesse deduzioni svolte dall’appellante per il precedente motivo di censura con riferimento al software che deve essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria, quando convengono che la Regione Puglia ha avviato una gara telematica per l’acquisizione di un sistema informativo amministrativo-contabile, unico e integrato per le Aziende Sanitarie Locali, basato su una piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e che ad avvio del suddetto sistema informativo amministrativo- contabile (MOSS), dovrà essere prevista l’integrazione delle gestioni contabili di tutte le aggiudicatarie dei diversi lotti a garanzia di una gestione integrata ed unitaria del servizio di ossigenoterapia svolto in ambito regionale per ciascuna delle diverse ASL.

La limitazione in esame quindi non è illegittima e non pregiudica l’autonomia privata dei concorrenti, trattandosi non di una gara ad oggetto plurimo suddiviso in lotti di diverso contenuto caratterizzati da una propria autonomia – e quindi gestibili in modo diverso dalle imprese aggiudicatarie – bensì di una gara unitaria rivolta alla fornitura di un medesimo servizio in aree territoriali diverse, con conseguente articolazione in lotti – corrispondenti ai diversi soggetti preposti alla tutela della relativa prestazione nei confronti degli utenti finali – che prelude a un sistema di gestione unitario della commessa.

Alla stregua delle pregresse considerazioni risulta, dunque, legittima non solo la limitazione del numero massimo di lotti attribuibili allo stesso partecipante (prescrizione volta a favorire la concorrenza ex art. 51, commi 2 e 3, d.lgs. n. 50/2016), bensì anche il vincolo di partecipazione ai diversi lotti nella stessa forma e composizione, in quanto volto a garantire sia la corretta competizione fra le offerte riferite ai diversi lotti, sia la piena ed univoca responsabilità dei vincitori per l’adempimento delle specifiche obbligazioni nascenti dalla medesima gara in relazione ai diversi lotti.

Tali finalità trovano, pertanto, un ulteriore specifico fondamento, nella fattispecie in esame, nell’esigenza di tutela del diritto alla salute dei pazienti del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 32 Cost. oltrechè nei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività ammnistrativa di cui all’art. 97 Cost. Risultano, inoltre, coerenti con l’invocato principio di libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., che postula un mercato regolato a garanzia del pieno dispiegarsi del principio di libera concorrenza, principio che peraltro trova, in questo caso, specifica tutela proprio nelle regole di gara ora esaminate, e in particolare nel limite di aggiudicazione di due lotti rispetto ai sei messi in gara, trattandosi di regole volte a consentire alle imprese “new comers” di concorrere ad armi pari con gli operatori economici dominanti di uno specifico segmento di mercato, con potenziali evidenti ricadute positive sulla qualità del servizio e sul suo costo posto a carico della comunità.

6 – Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con pubblicazione anticipata del dispositivo come richiesto da Innovapuglia S.p.A., e, per l’effetto, deve trovare conferma l’appellata sentenza di reiezione del TAR. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo, nei rapporti fra l’impresa appellante soccombente , la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia S.p.A., mentre possono essere compensate quanto ai rapporti fra i medesimi soggetti e l’ASL BR, in considerazione del carattere formale delle difese di quest’ultima.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’impresa appellante a rifondere alla Regione Puglia e a Innovapuglia S.p.A. in parti uguali le spese del presente grado di giudizio, che vengono complessivamente liquidate in Euro 10.000,00 (diecimila) oltre IVA, CPA e accessori.

Compensa le spese nei confronti della Asl Br, vista la difesa meramente formale.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Stefania Santoleri, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Raffaello Sestini Franco Frattini

IL SEGRETARIO

permesso di soggiorno per motivi umanitari: l'inattendibilità del racconto del richiedente non giustifica il rigetto

21/04/2020 n. 8020 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Caltanissetta confermava l’ordinanza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da XXXX, nato a (Pakinstan), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e ss.; in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. La Corte territoriale riteneva inattendibile il racconto del richiedente – che aveva riferito di temere nel suo paese di essere perseguitato dai talebani, che avrebbero voluto addestrarlo alla guerra santa e a seguito del suo rifiuto ne avevano ucciso il padre rilevandone le contraddittorietà ed incongruenze. Negava quindi il riconoscimento dello status di rifugiato nonché la protezione sussidiaria; riferiva che nel rapporto EASO del 2016 la situazione del Pakistan con riferimento alla regione di provenienza del richiedente appariva critica, registrandosi operazioni a terra da parte delle forze militari pakistane contro gruppi militanti, che avevano continuato attacchi terroristici ed uccisioni mirate, ma che nel report aggiornato all’ottobre 2018 il livello di violenza indiscriminata appariva significativamente ridotto, tanto che il distretto di Nowshera non era preso in considerazione tra i più colpiti da fatti di violenza con esito mortale.

3. Aggiungeva che seppure si profilava un recente radicamento dell’appellante nel territorio nazionale, la complessiva inattendibilità del racconto non dava adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine tale da configurare una specifica condizione di vulnerabilità nel caso di rientro.

4. Per la cassazione della sentenza XXXX, ha proposto ricorso, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c.; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente deduce come primo motivo la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,7,14 e 17; D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 32, comma 3; D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5) comma 6, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello valutato compiutamente la situazione personale dell’odierno ricorrente e la documentazione prodotta in ordine alla situazione del Pakistan, per avere motivato in maniera generica ed insufficiente e, infine, per avere omesso l’esame della domanda di protezione umanitaria. Lamenta che la Corte territoriale, nel negare il riconoscimento della misura di protezione sussidiaria nonché per contraddire il racconto offerto dal richiedente, avrebbe omesso il doveroso vaglio circa la sua credibilità soggettiva e avrebbe omesso di attivare i poteri ufficiosi necessari ad una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale in Pakistan. Sostiene altresì che la Corte d’Appello avrebbe limitato la propria indagine a fonti informative parzialmente non attuali interpretando non correttamente quanto dichiarato alla Commissione territoriale e senza tenere conto di alcune circostanze decisive per la decisione, quale la denuncia sporta nel settembre del 2015 dal padre del ricorrente (che produce).

6. Come secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione è apparente ordine alla valutazione di non credibilità da parte della Corte d’Appello sulla vicenda personale da lui narrata. Sostiene che sarebbe illegittimo il rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria basato esclusivamente sulla non credibilità del racconto del richiedente. Sostiene che la reiezione di tale domanda non può essere frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due richieste principali, senza alcuna indagine sulle condizioni poste a base del peculiare soggiorno temporaneo, da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani, ancorché non sufficienti ad interare le condizioni per le altre forme di protezione.

7. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Questa Corte ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018).

8. Il richiedente è dunque tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositiva, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 15794 del 12/06/2019).

9. Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento di fatto così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12/11/2019, n. 29279).

10. Nel caso, la Corte d’Appello ha compiuto il dovuto esame delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni attendibili ed aggiornate relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicché la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure adeguatamente censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

11. A tale proposito, occorre ribadire, come precisato da Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 e 8054, che l’art. 360 c.p.c., n. 51, nella formulazione vigente, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

12. Nel caso, il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di un documento, ovvero della denuncia sporta dal padre del 2015, e non di un fatto storico. Peraltro, neppure riferisce in quale momento e sede processuale tale denuncia sia stata prodotta, sicché la produzione effettuata in questo giudizio di legittimità risulta inammissibile ex art. 374 c.p.c..

13. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. Questa Corte ha chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019), che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

14. La Corte d’Appello ha motivato il rigetto della domanda di protezione umanitaria sulla base della complessiva inattendibilità del racconto del richiedente, inidoneo a dare adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine, tale da profilare una specifica situazione di vulnerabilità in caso di rientro.

15. Tale soluzione si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo il quale il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti (Cass. n. 10922 del 18/04/2019, Cass. n. 21123 del 07/08/2019).

16. Il giudice di merito, a fronte della documentata integrazione in Italia risultante dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avrebbe dovuto quindi valutare comparativamente la situazione cui incorrerebbe il richiedente in caso di rientro nel Paese di origine, in relazione alla situazione ivi presente in tema di compromissione dei diritti umani fondamentali.

17. Segue l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, e la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione che dovrà procedere a nuovo esame in coerenza con i principi esposti e dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

18. Non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente vittorioso, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2020

disciplina italiana della revoca delle misure di accoglienza e contrasto con la normativa europea

16/04/2020 n. 437 - TOSCANA -sezione seconda

FATTO e DIRITTO
1. L’odierno ricorrente, cittadino pakistano e richiedente protezione internazionale, è stato ammesso alla fruizione delle misure di accoglienza ma con provvedimento della Prefettura di Firenze 3 giugno 2019, prot.
-OMISSIS-, il beneficio è stato revocato in quanto egli è risultato assunto presso un’impresa con contratto a tempo determinato fino al 30 giugno 2019 e busta paga (per il mese di aprile 2019) pari a € 574,00. La
circostanza non è stata comunicata al gestore del centro di accoglienza in cui egli era inserito.
Il provvedimento è stato impugnato con il presente ricorso lamentando la mancanza di disponibilità, nonostante il lavoro svolto, di risorse in misura pari o superiore a quelle previste normativamente e deducendo che la
mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento dell’impiego non potrebbe costituire violazione tale da determinare la revoca delle misure di accoglienza, anche in riferimento ai
principi di eccezionalità, gradualità e di proporzionalità fissato dall’art. 20 della Direttiva 2013/33/UE.
Con provvedimento della Commissione istituita presso questo Tribunale Amministrativo Regionale 10 luglio 2019, n. 50, è stata accolta l’istanza di ammissione del ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Si è costituita con memoria di stile l’Avvocatura dello Stato per il Ministero dell’Interno chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 26 luglio 2019, n. 465, è stata accolta la domanda cautelare.
La causa, fissata per l’udienza pubblica del 7 aprile 2020, è stata trattenuta in decisione su istanza congiunta delle parti costituite.
2. Il ricorso è fondato deve essere accolto.
Il provvedimento fonda la revoca dell’ammissione del ricorrente alle misure di accoglienza su una doppia motivazione: da un lato l’asserita disponibilità di reddito tale da consentirgli di provvedere autonomamente al proprio sostentamento in conseguenza dello svolgimento di attività lavorativa; dall’altro, la mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento di un impiego inserito in violazione dell’articolo
3 del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria.
Quanto al primo aspetto, l’estratto conto previdenziale del ricorrente evidenzia che egli nell’anno 2019 ha percepito un reddito pari ad € 3.666,00 oltre la busta paga relativa al mese di dicembre 2019 per € 358,00: la cifra è inferiore all’importo dell’assegno sociale annuo (€ 5.953,87) che costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l’adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento (T.A.R. Basilicata I, 4 giugno 2019 n. 481).
Sotto questo profilo il provvedimento impugnato è dunque illegittimo. Quanto alla violazione del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria, nel caso di specie è necessario fare applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C – 233/18.
La materia dell’accoglienza degli stranieri richiedenti protezione internazionale nel nostro ordinamento è disciplinata dal d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, il quale costituisce trasposizione delle direttive 2013/33/UE,recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.
L’articolo 23 del decreto disciplina la revoca delle misura di accoglienza prevedendo, tra l’altro, alla lettera e) quale causa di revoca la violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti. Il legislatore italiano assume quindi a presupposto della revoca delle misure di accoglienza la violazione delle regole che disciplinano la vita interna delle strutture in cui i richiedenti sono inseriti, a condizione che la stessa sia o grave o reiterata, nonché l’adozione da parte dell’ospite del centro di comportamenti gravemente violenti.
La norma costituisce attuazione di quanto disposto dall’articolo 20 della direttiva 2013/33/UE la quale prevede che gli Stati membri possono “ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni
materiali di accoglienza” in casi specificamente indicati, tra cui non rientrano le ipotesi indicate al paragrafo quattro ovvero “gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ..comportamenti gravemente
violenti” per le quali la norma comunitaria stabilisce che gli Stati membri possono prevedere sanzioni (non meglio specificate).
Il successivo paragrafo 5 della norma comunitaria recita che “le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo
individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del
principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.
È noto che nel rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie queste ultime assumono prevalenza, nel senso che costituiscono parametro di legittimità delle prime le quali, ove contrastanti, devono essere disapplicate sia dal
Giudice che dall’Amministrazione nel caso concreto (C.G.A. sez. giurisd. 16 maggio 2016, n. 139; T.A.R. Marche I, 1 agosto 2016 n. 468; T.A.R.Campania-Napoli III, 6 luglio 2016 n. 3394).

Le posizioni giuridiche create dall’Unione Europea devono infatti essere tutelate in modo uniforme ed
eguale all’interno di tutti gli Stati membri; organo competente ad assicurare la corretta interpretazione delle norme comunitarie è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nel seguito: “Corte”) le cui sentenze devono sempre trovare applicazione all’interno degli Stati membri. L’ordinamento interno si ritrae dalle materie che vengono disciplinate in sede comunitaria e le norme eurounitarie, una volta entrate in vigore, divengono le uniche competenti a regolarle secondo un criterio di competenza, con la conseguenza che le norme interne o sono conformi ad esse oppure, se
contrastanti, non possono trovare applicazione in alcun caso concreto.
Nella materia in trattazione è intervenuta la citata sentenza della Corte che, chiamata a giudicare circa la conformità del diritto belga a quello comunitario nella materia in esame, ha fornito l’interpretazione corretta delle disposizioni che qui vengono in rilievo. Nel caso di specie era accaduto che un cittadino afghano, arrivato in Belgio come minore non
accompagnato, aveva presentato domanda di protezione internazionale ed era stato accolto nei centri di accoglienza di Sugny e Broechem.

In quest’ultimo, il 18 aprile 2016 era stato coinvolto in una rissa tra residenti di varie origini etniche. La polizia era intervenuta per farla cessare e aveva arrestato detto cittadino afgano poiché sarebbe stato uno degli istigatori della colluttazione, rilasciandolo il giorno successivo. Per tali fatti era stato escluso per quindici giorni dalla fruizione dell’accoglienza e contro tale decisione aveva proposto ricorso giudiziario, nel corso del quale è stato effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte.
Questa, con la citata sentenza, ha statuito che l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretato nel senso che
uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad uno straniero richiedente protezione internazionale in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente
violenti, la revoca (anche solo temporanea) delle condizioni materiali di accoglienza, e tanto per diverse ragioni.
In primo luogo l’applicazione di una simile sanzione è ritenuta incompatibile con l’obbligo, derivante dall’articolo 20, paragrafo 5, terza frase, della direttiva 2013/33/UE, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso poiché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Sotto questo profilo difetterebbe anche la
proporzionalità di tale sanzione.
Secondo la Corte gli Stati membri dell’Unione Europea, se non possono adottare la revoca quale sanzione conseguente alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, tuttavia possono prevedere altre tipologie di sanzioni che producano effetti meno “radicali” nei confronti del richiedente protezione internazionale quali la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, eventualmente congiunta al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, oppure il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio. Inoltre l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE non osta ad una misura di trattenimento
del richiedente protezione internazionale ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva stessa, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 dalla medesima previste.
Alla luce di quanto statuito dalla Corte, segue che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lettera e) del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato.
Il Collegio è consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo poiché l’ordinamento italiano non prevede alcuna sanzione (ulteriore alla revoca dell’accoglienza) a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti. E’ tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla
Corte.
3. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato.
Le spese processuali vengono integralmente compensate tra le parti in ragione della novità della normativa applicata.
4. Il ricorrente è stato ammesso al beneficio del gratuito patrocinio e ilpatrocinatore avv. Daniela Consoli ha depositato domanda di liquidazione
per l’importo di € 4.990,00.
L’avv. Daniela Consoli risulta iscritta presso l’Ordine forense di Firenze nelle liste dei difensori che possono svolgere gratuito patrocinio nel processo amministrativo e, pertanto, può essere disposta la liquidazione del compenso per il suo onorario.
Visti gli artt. 82 e 130 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; vista la richiesta di liquidazione depositata dall’avv. Consoli e ritenuto di operare ex art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 una riduzione del 50% in ragione della
non particolare difficoltà della fattispecie, lo stesso viene quantificato nella misura di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Spese compensate.
Liquida a favore dell’avv. Daniela Consoli, a titolo di onorario per gratuito patrocinio, la somma di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in video conferenza secondo quanto disposto dall’articolo 84, comma 6 del d.l n. 18/2020, con
l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
Nicola Fenicia, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Alessandro Cacciari Rosaria Trizzino
IL SEGRETARIO

cancellare i dati aziendali da un computer aziendale, formattare hard disk e farne copia è appropriazione indebita

10/04/2020 n. 11959 - Cassazione penale sez. II -(ud. 07/11/2019, dep. 10/04/2020)

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Torino con sentenza in data 14 giugno 2018 ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino, in data 30 giugno 2017, nei confronti di C.A., assolvendo l’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p. e affermandone la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 646 c.p. (solo per una parte dei beni indicati nell’originaria imputazione), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, con revoca delle precedenti statuizioni civili che venivano sostituite con la condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede e con la concessione di una provvisionale, in riferimento alla riconosciuta responsabilità per il solo delitto di appropriazione indebita.

2. La vicenda oggetto del processo riguardava le condotte poste in essere dall’imputato, già dipendente della società Gabiano s.r.l.; dopo essersi dimesso da quella società veniva assunto da una nuova compagine societaria, di recente costituzione, operante nello stesso settore; prima di presentare le dimissioni l’imputato aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente presenti, così provocando il malfunzionamento del sistema informatico aziendale e impossessandosi dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell’imputato su computer da lui utilizzati.

3.1. Propone ricorso per cassazione la difesa dell’imputato deducendo, con il primo motivo di ricorso, violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver ritenuto in modo erroneo che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essi essere qualificati come cose mobili.

3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata, per mancanza e manifesta illogicità, quanto alla prova dell’esistenza dei dati informatici, oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato; la sentenza aveva fatto riferimento non a elementi di prova acquisiti al processo, ma a mere ipotesi e illazioni non supportate da alcun riferimento oggettivo.

4.1. Ha proposto ricorso la difesa della parte civile, deducendo con il primo motivo vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, in relazione alla pronuncia di assoluzione dell’imputato dal delitto di cui all’art. 635 quater c.p.; la sentenza non aveva tenuto conto del dato, risultante dall’istruttoria, riguardante la cancellazione di numerosi messaggi di posta elettronica aziendale, che avevano reso impossibile il loro recupero compromettendo il funzionamento del sistema, così come dell’interruzione della procedura di back up, conseguente alla cancellazione di quei dati; la sentenza non aveva osservato l’obbligo di motivazione rafforzata, necessario per il ribaltamento della sentenza di condanna pronunciata in primo grado.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione di legge, in riferimento all’art. 646 c.p., per aver escluso la sentenza la responsabilità dell’imputato, in relazione all’appropriazione indebita del data base esistente sul computer aziendale, affermando che non fosse stata raggiunta la prova della memorizzazione del data base sul computer aziendale e che non fosse stata richiesta formalmente la restituzione di quello specifico insieme di dati informatici.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato è infondato.

La questione che la Corte è chiamata ad affrontare concerne la possibilità di qualificare i dati informatici, in particolare singoli files, come cose mobili, ai sensi delle disposizioni della legge penale e, specificamente, in relazione alla possibilità di costituire oggetto di condotte di appropriazione indebita.

1.2.1. Su questo tema la giurisprudenza di legittimità ha già avuto occasione di pronunciarsi, pur se non con specifico riguardo all’ipotesi del delitto di appropriazione indebita di dati informatici.

1.2.2. Con alcune pronunce è stato escluso che i files possano formare oggetto del reato di cui all’art. 624 c.p., osservando che, rispetto alla condotta tipica della sottrazione, la particolare natura dei documenti informatici rappresenta un ostacolo logico alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice, ad esempio nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, poichè in tale ipotesi non si realizza la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore (Sez. 4, n. 44840 del 26/10/2010, Petrosino, Rv. 249067; Sez. 4, n. 3449 del 13/11/2003, dep. 2004, Grimoldi, Rv. 229785).

Analogamente, con riguardo al delitto di appropriazione indebita, si è più volte affermato che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale (Sez. 2, n. 33839 del 12/07/2011, Simone, Rv. 251179, relativa all’ipotesi dell’agente assicurativo che non versi alla società di assicurazioni, per conto della quale operi, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti ma a lui non versati, trattandosi di crediti di cui si abbia disponibilità per conto d’altri), salvo che la condotta abbia ad oggetto i documenti che rappresentino i beni immateriali (Sez. 5, n. 47105 del 30/09/2014, Capuzzimati, Rv. 261917, che ha ravvisato il delitto nella stampa dei dati bancari di una società – in sè bene immateriale – in quanto trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di home banking in documenti; Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani, Rv. 247270, relativa all’appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto, riprodotti su documenti di cui l’imputato si era indebitamente appropriato; identico principio è stato affermato in relazione al delitto di ricettazione di supporti contenenti dati informatici: Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, Tronchetti Provera, Rv. 267162),

1.2.3. Solo di recente è stata affermata la possibilità che oggetto della condotta di furto possono essere anche i files (Sez. 5, n. 32383 del 19/02/2015, Castagna, Rv. 264349, relativa ad una fattispecie concernente la condotta di un avvocato che, dopo aver comunicato la propria volontà di recedere da uno studio associato, si era impossessato di alcuni “files”, cancellandoli dal “server” dello studio, oltre che di alcuni fascicoli processuali in ordine ai quali aveva ricevuto in via esclusiva dai clienti il mandato difensivo, al fine di impedire agli altri colleghi dello studio un effettivo controllo sulle reciproche spettanze), senza peraltro alcuno specifico approfondimento della questione.

1.3. Gli argomenti che legano tra loro le prime pronunce ricordate, espressive di un orientamento sufficientemente uniforme, traggono spunto in primo luogo, quanto alla specificità del delitto di appropriazione indebita, dal tenore testuale della norma incriminatrice che individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; si richiamano alla nozione di “cosa mobile” nella materia penale, nozione caratterizzata dalla necessità che la cosa sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sè oppure perchè può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, Corniani, cit.); ne fanno conseguire l’esclusione delle entità immateriali – le opere dell’ingegno, le idee, le informazioni in senso lato – dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione, considerata anche l’unica espressa disposizione normativa che equipara alle cose mobili le energie (previsione contenuta nell’art. 624 c.p., comma 2).

1.4. La Corte non ignora l’esistenza di ragioni di ordine testuale, sistematico e di rispetto dei principi fondamentali di stretta legalità e tassatività delle norme incriminatrici, che potrebbero contrastare la possibilità di qualificare i files come beni suscettibili di rappresentare l’oggetto materiale dei reati contro il patrimonio.

Occorre, però, approfondire la valutazione considerando la struttura del file, inteso quale insieme di dati numerici tra loro collegati che non solo nella rappresentazione (grafica, visiva, sonora) assumono carattere, evidentemente, materiale; va, altresì, presa in esame la trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dalla rete Internet;

allo stesso tempo, occorre interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio.

1.5.1. Nel sistema del codice penale la nozione di cosa mobile non è positivamente definita dalla legge, se non dalla ricordata disposizione che equipara alla cosa mobile l’energia elettrica e ogni altra energia economicamente valutabile (“Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico”: art. 624 c.p.p., comma 2). Per altro, le più accreditate correnti dottrinali e lo stesso formante giurisprudenziale hanno delimitato la nozione penalistica di “cosa mobile” attraverso l’individuazione di alcuni caratteri minimi, rappresentati dalla materialità e fisicità dell’oggetto, che deve risultare definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro (così rendendo possibile una delle caratteristiche tipiche delle condotte di aggressione al patrimonio, che è costituita dalla sottrazione della cosa al controllo del proprietario o del soggetto titolare di diritti sulla cosa).

1.5.2. Secondo le nozioni informatiche comunemente accolte (per tutte, le specifiche ISO), il file è l’insieme di dati, archiviati o elaborati (ISO/IEC 23821:1993), cui sia stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi; si tratta della struttura principale con cui si archiviano i dati su un determinato supporto di memorizzazione digitale. Questa struttura possiede una dimensione fisica che è determinata dal numero delle componenti, necessarie per l’archiviazione e la lettura dei dati inseriti nel file. Le apparecchiature informatiche, infatti, elaborano i dati in essi inseriti mediante il sistema binario, classificando e attribuendo ai dati il corrispondente valore mediante l’utilizzo delle cifre binarie (0 oppure 1: v. ISO/IEC 2382:2015 – 2121573).

Le cifre binarie (bit, dall’acronimo inglese corrispondente all’espressione binary digit) rappresentano l’unità fondamentale di misura all’interno di un qualsiasi dispositivo in grado di elaborare o conservare dati informatici; lo spazio in cui vengono collocati i bit è costituito da celle ciascuna da 8 bit, denominata convenzionalmente byte (ISO/IEC 2382:2015 – 2121333). Com’è stato segnalato dalla dottrina più accorta che si è interessata di questa tematica, “tali elementi non sono entità astratte, ma entità dotate di una propria fisicità: essi occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l’eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo”.

1.5.3. Questi elementi descrittivi consentono di giungere ad una prima conclusione: il file, pur non potendo essere materialmente percepito dal punto di vista sensoriale, possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i files possono essere conservati e elaborati. L’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non è, dunque, condivisibile; al contrario, una più accorta analisi della nozione scientifica del dato informatico conduce a conclusioni del tutto diverse.

1.5.4. Resta, insuperabile, la caratteristica assente nel file, ossia la capacità di materiale apprensione del dato informatico e, quindi, del file; ma occorre riflettere sulla necessità del riscontro di un tale requisito – non desumibile dai testi di legge che regolano la materia – perchè l’oggetto considerato possa esser qualificato come “cosa mobile” suscettibile di divenire l’oggetto materiale delle condotte di reato e, in particolare, di quella di appropriazione.

1.6. Tra i presupposti che la tradizione giuridica riconosce come necessari per ravvisare le condotte di sottrazione e impossessamento (o appropriazione) di cose mobili, il criterio della necessaria detenzione fisica della cosa è quello che desta maggiori perplessità. Se la ratio, sottesa alla selezione delle classi di beni suscettibili di formare oggetto delle condotte di reato di aggressione all’altrui patrimonio, è agevolmente individuabile nella prospettiva della correlazione delle condotte penalmente rilevanti (essenzialmente, quelle che mirano alla sottrazione della disponibilità di beni ai soggetti che siano titolari dei diritti di proprietà o di possesso sulle cose considerate) all’attività diretta a spogliare il titolare del bene dalla possibilità di esercitare i diritti connessi all’utilizzazione del bene, è chiaro che la sottrazione (violenta o mediante attività fraudolente o, comunque, dirette ad abusare della cooperazione della vittima) debba presupporre in via logica la disponibilità, da parte dei soggetti titolari, dei beni su cui cade la condotta penalmente rilevante; ma anche in questo contesto deve prendersi atto che il mutato panorama delle attività che l’uomo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche determina la necessità di considerare in modo più appropriato i criteri classificatori utilizzati per la definizione di nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.

1.7. In questa prospettiva, dunque, si è giunti da parte delle più accorte opinioni dottrinali – in modo coerente con la struttura dei fatti tipici considerati dall’ordinamento (caratterizzati dall’elemento della sottrazione e dal successivo impossessamento) e dei beni giuridici che l’ordinamento intende tutelare sanzionando le condotte contemplate nel titolo XIII del codice penale – a rilevare che “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.

A questo riguardo va considerata la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete Internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, oppure per essere “custodito” in ambienti “virtuali” (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici); caratteristiche che confermano il presupposto logico della possibilità del dato informatico di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione.

In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in sè considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo.

1.8.1. Occorre, infine, verificare se l’interpretazione proposta nei termini su indicati si ponga in contrasto con i principi volti a garantire l’intervento della legge penale quale extrema ratio, subordinando l’applicazione della sanzione penale al principio di legalità, nel suo principale corollario del rispetto del principio di tassatività e determinatezza.

1.8.2. L’analisi delle questioni interpretative sinora condotta mette in luce che sia il profilo della precisione linguistica del contenuto della norma (con riferimento all’indicazione della nozione di “cosa mobile”), sia quello della sua determinatezza (intesa come necessità che “nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili”, non potendosi “concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili”: Corte Cost., n. 96 del 1981), non sono esposti a pericolo di compromissione. Ciò che va soppesato è il rispetto del principio di tassatività, che governa l’attività interpretativa giurisdizionale affinchè l’applicazione della fattispecie incriminatrice non avvenga al di fuori dei casi espressamente considerati.

In ordine al contenuto di tale principio, la Corte costituzionale ha ancora di recente ricordato che “l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (Corte Cost., n. 25 del 2019, riprendendo le enunciazioni delle precedenti decisioni n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004). Ciò che rileva, come insegna il Giudice delle leggi, è che “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.” (Corte Cost., n. 327 del 2008).

1.8.3. L’interpretazione della nozione di cosa mobile, agli effetti della legge penale, fondata sullo specifico carattere della cosa, che consente alla stessa di formare oggetto sia di condotte di sottrazione alla disponibilità del legittimo titolare, sia di impossessamento da parte del soggetto responsabile della condotta illecita, risulta in sintonia con l’unico dato testuale che la legge penale riproduce nella definizione della categoria dei beni suscettibili di costituire l’oggetto delle condotte tipiche dei delitti contro il patrimonio.

Indiscusso il valore patrimoniale che il dato informatico possiede, in ragione delle facoltà di utilizzazione e del contenuto specifico del singolo dato, la limitazione che deriverebbe dal difetto del requisito della “fisicità” della detenzione non costituisce elemento in grado di ostacolare la riconducibilità del dato informatico alla categoria della cosa mobile.

1.8.4. A questo riguardo, va considerato che anche rispetto al denaro, che la legge equipara alla cosa mobile in più disposizioni e, quel che rileva in questa sede, nella norma incriminatrice dell’art. 646 c.p., si pongono in astratto le medesime questioni sollevate in relazione ai dati informatici. Si intende far riferimento alla circostanza per cui anche il denaro (che pur è fisicamente suscettibile di diretta apprensione materiale), nella sua componente espressiva del valore di scambio tra beni, è suscettibile di operazioni contabili, così come di trasferimenti giuridicamente efficaci, anche in assenza di una materiale apprensione delle unità fisiche che rappresentano l’ammontare del denaro oggetto di quelle operazioni giuridiche. Le operazioni realizzate mediante i contratti bancari, attraverso le disposizioni impartite dalle parti del rapporto, un tempo esclusivamente scritte e riprodotte su documenti cartacei, ed attualmente eseguite attraverso disposizioni inviate in via telematica, oggi così come in passato consentono di trasferire, senza la sua materiale apprensione, il denaro che forma oggetto del singole disposizioni.

Allo stesso tempo, è pacifico che le condotte dirette alla sottrazione, ovvero all’impossessamento del denaro, possono esser realizzate anche senza alcun contatto fisico con il denaro, attraverso operazioni bancarie o disposizioni impartite, anche telematicamente; ciò che non impedisce certo di ravvisare in tali condotte le ipotesi di reato corrispondenti.

1.8.5. Infine, dal punto di vista dell’effettiva realizzazione, attraverso le condotte appropriative di dati informatici, dell’effetto di definitiva sottrazione del bene patrimoniale al titolare del diritto di godimento ed utilizzo del bene stesso, le ipotesi di appropriazione indebita possono differenziarsi dalla generalità delle ipotesi di “furto di informazioni”, in cui si è frequentemente rilevato che il pericolo della perdita definitiva da parte del titolare dei dati informatici è escluso in quanto attraverso la sottrazione l’agente si procura sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nel dato informatico, che resta comunque nella disponibilità materiale e giuridica del titolare (valutazione che aveva indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della L. 23 dicembre 1993, n. 547 – recante modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica -, ad escludere che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l’art. 624 c.p. ” pur nell’ampio concetto di “cosa mobile” da esso previsto”, in quanto “la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti”: così la relazione al relativo disegno di L. n. 2773). Infatti, ove l’appropriazione venga realizzata mediante condotte che mirano non solo all’interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtù di accordi negoziali e convenzioni che legittimano la disponibilità temporanea di quei dati, con obbligo della successiva restituzione, ma altresì a sottrarre definitivamente i dati informatici mediante la loro cancellazione, previamente duplicati e acquisiti autonomamente nella disponibilità del soggetto agente, si realizza il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a far parte in via esclusiva del patrimonio del responsabile della condotta illecita.

1.9. Ritiene, pertanto, la Corte che nell’interpretazione della nozione di cosa mobile, contenuta nell’art. 646 c.p., in relazione alle caratteristiche del dato informatico (file) come sopra individuate, ricorre quello che la Corte costituzionale ebbe a definire il “fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali”, situazione in cui ” il rinvio, anche implicito, ad altre fonti o ad esterni contrassegni naturalistici non viol(a) il principio di legalità della norma penale – ancorché si sia verificato mutamento di quelle fonti e di quei contrassegni rispetto al momento in cui la legge penale fu emanata – una volta che la reale situazione non si sia alterata sostanzialmente, essendo invece rimasto fermo lo stesso contenuto significativo dell’espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie ed il disvalore della figura criminosa. In tal caso l’evolversi delle fonti di rinvio viene utilizzato mediante interpretazione logico-sistematica, assiologica e per il principio dell’unità dell’ordinamento, non in via analogica” (Corte Cost. n. 414 del 1995).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, va quindi affermato il seguente principio di diritto: i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.

La sentenza impugnata, pur con diversa motivazione, ha applicato in modo corretto la disposizione che si assume violata, sicché il motivo risulta infondato.

1.10. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso infondato.

Il dato storico dell’appropriazione di files già esistenti sul personal computer aziendale in uso all’imputato è stato riconosciuto da entrambe le sentenze di merito (avendo il Tribunale poi escluso la responsabilità del ricorrente in ragione dell’impossibilità di ravvisare la qualifica di “cose mobili” quanto ai files oggetto della condotta).

La motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la prova dell’appropriazione limitatamente ad alcuni files (30.000) relativi ad attività aziendali e rinvenuti su un personal computer portatile in uso all’imputato, presso la nuova sede di lavoro, risulta adeguata e logicamente coerente sia in relazione al dato della riferibilità dei files all’attività aziendale, sia alla loro collocazione sul personal computer aziendale affidato all’imputato per lo svolgimento dell’attività di lavoro, sia infine quanto al profilo dell’intervenuta appropriazione dei dati. La decisione ha considerato, evidentemente nella prospettiva della valutazione logica degli elementi di prova raccolti ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 2, il rilevantissimo numero dei files rinvenuti, la loro riferibilità all’attività aziendale (desumibile dalla presenza della parola chiave che la p.g. aveva utilizzato per individuarli all’interno del pc portatile utilizzato dall’imputato, nell’ambito dell’attività di lavoro presso la nuova società ove era stato assunto), l’assenza di dati e informazioni che potessero ricondurre i files ad una diversa origine, l’utilizzo da parte dell’imputato del personal computer aziendale per svolgere l’attività di lavoro e, infine, la cancellazione dei dati preesistenti sul personal computer prima della sua restituzione all’azienda, all’atto delle dimissioni senza preavviso da parte del ricorrente. Infine, per quanto concerne il dato dell’ipotizzata assenza di una richiesta specifica di restituzione dei files, avendo la società Gabiano formulato unicamente la richiesta di restituzione della “copia dell’hard disk” eseguita dall’imputato, la sentenza – al pari di quella di primo grado – ha ravvisato il contenuto sostanziale di quella richiesta che, messa in relazione alla restituzione del personal computer privato di tutti i dati aziendali, non poteva assumere altro significato che quello della volontà di rientrare in possesso di tutti i dati attinenti all’attività aziendale, affidati all’imputato e che non erano stati restituiti una volta interrotto il rapporto di lavoro.

Nè è fondata la censura che denuncia la contraddittorietà della motivazione, per aver la Corte d’appello escluso, nella stessa decisione, l’esistenza della prova che altri dati informatici (e, in particolare, la copia integrale del data base della società Gabiano) fossero memorizzati sul personal computer in uso all’imputato; l’esclusione della prova, infatti, è stata desunta nella sentenza dall’esistenza di indici positivi che dimostravano come la copia del data base fosse stata eseguita sui sistemi aziendali, e non attraverso il personal computer (v. pag. 27).

2.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse della parte civile è fondato.

La riforma integrale della decisione di primo grado, che aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato per il contestato delitto di cui all’art. 635 quater c.p., imponeva ai giudici di appello di confrontarsi “con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l’integrale riforma” (Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327), procedendo così a “delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e (…) confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza” (Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638) secondo il modello di quella che è definita la struttura della motivazione rafforzata, con cui si dà conto delle puntuali ragioni a base delle difformi conclusioni assunte (Sez. 3, n. 29253 del 05/05/2017, C, Rv. 270149; Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M, Rv. 271110; Sez. 4, n. 4222 del 20/12/2016, dep. 2017, Mangano, Rv. 268948).

La sentenza del Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato sulla scorta delle valutazioni probatorie che conducevano a ritenere l’esistenza, nel personal computer aziendale (in uso al ricorrente e che costui restituì, all’atto delle dimissioni, formattato e senza più traccia dei dati in precedenza registrati) di informazioni, dati e programmi indispensabili per il funzionamento del sistema informatico della società Gabiano, considerando altresì che non erano più presenti i dati della posta aziendale utilizzata dal ricorrente per fornire “importanti indicazioni operative per la funzionalità del sistema” (pag. 20 della sentenza del Tribunale) e che, in coincidenza con le dimissioni del ricorrente, aveva cessato di funzionare il sistema di back up del data base, cagionando così il danneggiamento del sistema informatico.

La Corte d’appello, nel ribaltare il giudizio espresso dal Tribunale, ha fondato la propria motivazione sul profilo dell’assenza di prova dell’esatto contenuto dei dati, programmi e informazioni che erano originariamente collocati sul personal computer in uso al ricorrente, circostanza ritenuta dirimente perchè ostativa all’affermazione dell’idoneità della cancellazione di quei dati – non conosciuti quanto alle loro caratteristiche – al danneggiamento del sistema informatico; ma non ha considerato che quella valutazione non poteva essere estesa automaticamente ai dati della posta aziendale di cui ha trattato la sentenza di primo grado (e che, logicamente, dovevano essere presenti sul computer aziendale utilizzato dal ricorrente) e non ha svolto alcuna considerazione in ordine all’ulteriore profilo del mancato funzionamento della procedura di back up a far data dalle dimissioni del ricorrente.

2.2. Il secondo motivo del ricorso è generico e, comunque, manifestamente infondato.

Come indicato nell’esame del secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse dell’imputato (v. supra, p. 1.10.), la copia del data base che si assume oggetto della condotta appropriativa fu creata sui sistemi aziendali della società e non riproducendo dati già esistenti nel personal computer, sicchè correttamente la Corte d’appello ha escluso che quei dati potessero formare oggetto di appropriazione da parte dell’imputato difettando il necessario presupposto dell’affidamento della cosa a titolo di possesso da parte del proprietario del bene.

3. Al rigetto del ricorso dell’imputato consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; per ciò che riguarda l’annullamento della sentenza, in parziale accoglimento del ricorso della parte civile, va disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p. il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche in ordine alle liquidazione delle spese sostenute dalle parti nel grado di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso dell’imputato che condanna al pagamento delle spese processuali.

Con riferimento al ricorso della parte civile nella parte riguardante il reato di cui all’art. 635 quater c.p., annulla la sentenza impugnata rinviando al giudice civile competente per valore in grado di appello al quale demanda anche il regolamento tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso della parte civile.

Si dà atto che il presente provvedimento, redatto dal relatore cons. Dott. Di Paola, è sottoscritto dal solo Presidente del collegio per impedimento alla firma dell’estensore ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2020

protezione internazionale: se non c'è la videoregistrazione del colloquio il giudice è tenuto a fissare l'udienza di comparizione parti

06/04/2020 n. 7720 - Cassazione Civile -Sezione I

1. AAAA, cittadino (OMISSIS), ricorre avverso il decreto in data 4 maggio 2018 n. 1893/2018, con il quale il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale.

1.1. Con il primo motivo, in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1 e art. 21, comma 1, così come convertito dalla L. n. 46 del 2017, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e art. 77 Cost., comma 4, per mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza nell’emanazione dello stesso decreto legge, per quanto concerne il differimento dell’efficacia temporale, e, quindi, dell’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale.

1.2. Con il secondo motivo, sempre in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, vulnerando il rito camerale ex art. 737 c.p.c., così come disciplinato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, nuovo art. 35-bis, commi 9, 10 e 11 il principio del contraddittorio e quello della parità processuale delle parti.

1.3. Con il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 9, 10 e 11, come introdotti dalle disposizioni del D.L. n. 13 del 2017, art. 6, lett. g), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46 del 2007, avendo il Tribunale omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti obbligatoriamente prevista dalla legge, nonostante l’espressa, corrispondente istanza del ricorrente. In subordine, chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24, commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2, 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU.

1.4. Con il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), art. 14, lett. c) e art. 3 e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva reputato insussistenti i presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione sussidiaria.

1.5. Con il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e succ. mod., nonchè omesso esame di un fatto decisivo e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva giudicato insussistenti i seri motivi di carattere umanitario rilevanti per il rilascio, in suo favore, del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie: segnatamente essendovi stata omessa considerazione delle peripezie affrontate dal deducente nel viaggio migratorio attraverso la Libia.

2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il decreto impugnato deve essere annullato per le ragioni di seguito indicate.

1.Le questioni di legittimità costituzionale delle norme del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 sono già state esaminata da questa Corte e ritenute manifestamente infondate.

1.1. Quella che si chiede di sollevare in riferimento agli art. 3 e 77 Cost., è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù dell’osservazione secondo la quale la disposizione transitoria dettata dal D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, non si pone in contrasto con i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che presiedono all’emanazione dei decreti legge, essendo connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale volto a consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1- n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799 – 02; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

1.2. Quella che si chiede di sollevare in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù del rilievo che il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non venga fissata l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata soltanto alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in assenza della trattazione orale le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01). Inoltre, l’imposizione del rito camerale non contrasta con i principi costituzionali invocati neppure in relazione alla prevista non reclamabilità del decreto di primo grado, trovando la stessa ragionevole giustificazione nell’esigenza di accelerare la definizione dei giudizi in questione, aventi ad oggetto diritti fondamentali, ed essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di escludere l’appellabilità della decisione di primo grado, con riguardo ai giudizi che sollecitano una pronta soluzione, dal momento che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non trova copertura generalizzata a livello costituzionale (Corte Cost., sent. n. 199 del 2017 e 243 del 2014; ord. n. 42 del 2014).

2. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Torino, onde escludere la necessitata fissazione dell’udienza non basta che sia in atti il verbale di audizione dinanzi alla Commissione territoriale: difatti, nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione Territoriale innanzi all’autorità giudiziaria, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, per violazione del principio del contraddittorio.

Tale interpretazione è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 ed 11 che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale. Si tratta di orientamento condiviso da parte di questa Corte di legittimità (Sez. 6 – 1, n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445 01; Sez. 1 -, n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815 – 01; Sez. 6 1, n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463 – 01; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 05), cui il Collegio intende senz’altro dare continuità.

3. In accoglimento del terzo motivo, assorbiti i restanti, il decreto impugnato deve essere, quindi, cassato. Segue il rinvio al Tribunale di Torino, il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio esposto e rinnoverà l’esame dei profili di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo, assorbiti i restanti, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Torino.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

stop all'assegno di mantenimento se i figli hanno iniziato a lavorare

06/04/2020 n. 1910 - ROMA

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con la sentenza n. 308/19 pubblicata in data 1.3.2019, il Tribunale di Civitavecchia, decidendo sul ricorso depositato il 17.02.2014 da XXXX, ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio contratto tra le parti, disponendo la revoca dell’assegnazione della casa familiare alla ricorrente, la cessazione dell’obbligo del padre di corrispondere alla madre l’assegno di mantenimento in favore dei figli con decorrenza dal mese di febbraio 2019, con la condanna della ricorrente a rifondere a favore del resistente le spese di lite, atteso il rigetto delle sue istanze accessorie alla pronuncia di status.

Avverso tale decisione, con ricorso depositato in data 19.6.2019, ha proposto appello YYYY, chiedendo la parziale riforma della sentenza, limitatamente al capo 2) della decisione, con esclusivo riferimento alla decorrenza della dichiarata cessazione del suo obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento per i figli.

Egli lamenta, infatti, che la sentenza impugnata, pur avendo accertato che ambedue i figli avevano iniziato a lavorare sin dal 2017, abbia fissato la decorrenza della cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento per i figli, dalla pubblicazione della sentenza di divorzio nel febbraio 2019. Le censure dell’appellante si articolano su due motivi:

-Violazione e falsa applicazione dell’art. 337-ter c.c. e dell’art. 4, comma 13, l. n. 898 del 1970 , poiché la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che, nel caso di revisione delle condizioni del divorzio ai sensi dell’art. 9 l.n. 898/90, gli effetti della pronuncia decorrono dalla domanda di revisione, in virtù del principio secondo cui un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio;

-Violazione e falsa applicazione degli artt. 99,112 e 190 c.p.c., poiché la sentenza, pur dando atto che la ricorrente all’udienza di precisazione delle conclusioni aveva rinunciato alle domande di contenuto patrimoniale, avrebbe dato ingresso a circostanze dedotte dalla ricorrente nella sua comparsa conclusionale, con la quale la stessa aveva allegato la sopravventa condizione di disoccupazione dei figli.

Con l’istanza successivamente depositata in data 26.9.2019, l’appellante, così come preannunciato nelle conclusioni dell’atto di appello riportate in epigrafe , ha chiesto ai sensi dell’art. 351 c.p.c., la sospensione della sentenza impugnata , in relazione allo specifico motivo di appello e, a fondamento della sua istanza di inibitoria, oltre a riproporre gli argomenti esposti nell’atto di appello a fondamento della sua richiesta, ha dedotto, che in data 30.5.2019, XXXX gli avrebbe notificato un atto di precetto, intimandogli il pagamento di € 12.500,00, pari all’importo degli assegni di mantenimento non corrisposti dal luglio 2017 al febbraio 2019.

All’udienza del 28.11.2019, fissata per la trattazione dell’inibitoria, la sospensiva è stata rinviata al 12.3.2020, unitamente al merito, attesa l’omessa notifica del ricorso alla controparte.

Con successivo decreto del 10.3.2020, questa Corte, provvedendo ai sensi del D.L. n. 11/20, art. 2, comma 2 lett. h), ha disposto che l’udienza del 12.3.2020 fosse sostituita dallo scambio di memorie tra le parti, contenenti le rispettive conclusioni, sulle quali la causa sarebbe stata trattenuta in decisione.

L’appellante, che nei termini previamente concessi aveva depositato la prova della regolare notifica alla controparte tanto dell’atto di appello tanto dell’istanza di inibitoria, ha depositato l’ulteriore memoria, con la quale ha ribadito le proprie conclusioni, chiedendo che la Corte trattenesse la causa in decisione.

La parte appellata non si è costituita, sicché ne è stata dichiarata la contumacia all’udienza del 12.3.2020; quindi la Corte ha trattenuto la causa in decisione.

2. L’ appello deve essere accolto, essendo fondate le ragioni poste a fondamento dei motivi di impugnazione proposti.

Risulta dagli atti, che nel corso del giudizio di primo grado, con ricorso del 7.7.2017, YYYY.. ha chiesto la modifica delle condizioni stabilite con la separazione, con la cessazione del suo obbligo di corresponsione di un assegno di mantenimento per i due figli maggiorenni, deducendo che ambedue erano ormai economicamente indipendenti e che, inoltre, la figlia omissis  non convivesse più con la madre.

L’istruttoria svolta nel corso del sub-procedimento, instaurato in seguito a tale istanza, ha accertato, attraverso l’interrogatorio formale della ricorrente e l’audizione dei due figli maggiorenni, che la condizione economica dei figli era mutata e che come, come afferma la sentenza impugnata era  raggiunta la prova della indipendenza economica dei figli delle parti poiché gli stessi hanno confermato di svolgere lavori (JJJJ: “Attualmente lavoro presso una società di gaming che gestisce sale da gioco; sono in part time; ho lavorato presso il supermercato Ipermamily..da luglio 2017 fino a marzo 2018 ho lavorato in amministrazione.. ho iniziato a lavorare al Momoo Republic ma mi hanno licenziata..”; Omissis: “ho lavorato dal dicembre 2015 a luglio 2016 presso la Securitas Metronotte.. da luglio 2016 ho fatto piccoli lavoretti..due mesi ad un museo a Roma, a Natale 2017 ho lavorato in un negozio a Civitavecchia”- v. verbale udienza del 12.09.2018 del giudizio di primo grado) che, seppur saltuari e a tempo determinato, hanno consentito loro di percepire redditi variabili pari circa a € 800,00-/1000,00′.

Sulla base di tali accertamenti, il Tribunale ha dichiarato la cessazione dell’obbligo del padre di corrispondere alla madre un assegno di mantenimento per i figli, dalla data della pronuncia della sentenza di divorzio, benché le prove espletate avessero dimostrato che l’ingresso dei figli nel mondo del lavoro, seppure con lavori saltuari e a tempo determinato’ fosse avvenuto tempo prima.

Orbene, fermo restando che la retrodatazione della pronuncia di modifica della condizioni della separazione alla data della domanda, è oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice può’ esercitare, con il prudente apprezzamento delle circostanze accertate (precarietà del posto di lavoro, entità del reddito, ecc.), nel caso in esame, non è determinante la valutazione della risultanze istruttorie in relazione alla decisione adottata, quanto piuttosto la circostanza allegata dall’appellante con il secondo motivo di impugnazione.

Ed invero, dal verbale del 31.10.2018, nell’udienza di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado, la parte XXXX ha rinunciato alle richieste patrimoniali, opponendosi soltanto alla domanda di ripetizione della controparte, in quanto domanda nuova.

Tale circostanza è determinante per l’accoglimento dell’appello, poiché, la domanda proposta in corso di causa per la modifica delle condizioni della separazione in relazione all’obbligo del padre di contribuire al mantenimento dei figli, a fronte di una rinuncia della madre avente diritto a pretendere detto pagamento, segna il discrimine temporale della cessazione dell’obbligo stesso.

Né le circostanze dedotte nella comparsa conclusionale (sopravvenuto stato di disoccupazione di ambedue i figli) possono formare oggetto di valutazione, posto che nella comparsa conclusionale non possono essere dedotti nuovi fatti idonei a modificare le domande precisate nell’udienza di precisazione delle conclusioni (tra le tante, Cass.,2.5.2019 n. 11547).

Pertanto, l’appello deve essere accolto, assorbita l’istanza di sospensiva proposta ai sensi dell’art. 351 c.p.c. e, per l’effetto, la sentenza impugnata deve essere riformata, limitatamente alla decorrenza della cessazione dell’obbligo del padre di corrispondere un assegno di mantenimento per i figli, che deve essere retrodatata alla proposizione della domanda di modifica da parte di YYYY, ossia luglio 2017, anziché febbraio 2019.

3. La soccombenza comporta la condanna della parte convenuta al pagamento delle spese processuali del secondo grado di giudizio, liquidato, come nel dispositivo, in relazione al valore della causa determinato ai sensi dell’art. 13 c.p.c., applicati valori inferiori a quelli medi di cui al D.M. n. 55/2014, come integrato dal D.M. n. 37/2018, in ragione della semplicità delle difese, che non hanno richiesto una specifica attività istruttoria, in conseguenza della mancata costituzione della convenuta.

P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da R.G. nei la sentenza del Tribunale di Civitavecchia n. 308/2019 del 21.2/1.3.2019, assorbita l’istanza di inibitoria proposta dall’appellante, in accoglimento dell’appello, così dispone :

– Riforma la sentenza appellata limitatamente al capo 2), dichiarando cessato l’obbligo di YYYY di corrispondere l’assegno di mantenimento in favore dei figli con decorrenza dal mese di luglio 2017;.

-Condanna XXXX a pagare in favore dell’appellante, a titolo di rimborso delle spese processuali del presente giudizio di appello, l’importo di € 2.100,00, oltre IVA e Cpa , con

Manda alla cancelleria per la comunicazione della sentenza e per gli adempimenti connessi.

Così deciso in Roma,

Franca Mangano

nigeria: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è subordinato alla presenza di un'effettiva situazione di vulnerabilità

06/04/2020 n. 7733 - Sezione I

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

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