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aumento dell'assegno divorzile solo dopo una valutazione comparativa dei redditi

06/03/2020 n. 6470 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. XXXX ricorre in cassazione con tre motivi avverso il decreto in epigrafe indicato con cui la Corte di appello di Palermo, rigettando il reclamo dalla prima proposto ed in conferma del decreto del locale Tribunale, disponeva a carico dell’ex coniuge, YYYY, l’aumento del contributo per il mantenimento della figlia (già fissato in Euro 850,00 mensili comprensive delle spese di natura straordinarie) sino all’importo di Euro 1.200,00 mensili per il periodo dal (OMISSIS) e quindi dalla data di deposito del ricorso di modifica fino a quella di inizio del rapporto lavorativo della figlia, KKKK, laureata in ingegneria, con una società multinazionale, nell’acquisita autonomia economica della stessa.

La Corte, nel confermare il primo decreto, revocava altresì il contributo del padre a decorrere dall’ottobre 2014 e l’assegnazione della casa coniugale alla ricorrente e, ancora, in parziale accoglimento della riconvenzionale con cui la signora XXXX aveva richiesto l’aumento fino ad Euro 1.950,00, incrementava l’assegno divorzile da 460 Euro a 500 Euro.

Resiste con controricorso YYYY.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e l’omessa comparazione dei redditi delle parti ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile.

La Corte di appello di Palermo avrebbe pretermesso una valutazione comparativa dei redditi delle parti, limitandosi ad affermare che l’aumento dell’assegno divorzile avrebbe trovato giustificazione nella revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale senza apprezzare l’esiguità dell’incremento, pari a soli 40 Euro, rispetto all'”enorme sproporzione dei redditi delle parti”, come invece richiesto in reclamo.

Il YYYY era imprenditore commerciale di successo con tenore di vita più che agiato e risorse illimitate ed accresciute rispetto all’epoca del divorzio e la ricorrente un avvocato dalle ben più ridotte disponibilità.

Titolare di sette immobili di pregio, l’ex coniuge dopo il divorzio aveva acquisito la disponibilità di un ulteriore appartamento intestato alla seconda moglie ed il possesso e la disponibilità di una prestigiosa villa in (OMISSIS), utilizzata nella stagione estiva, anch’essa intestata all’attuale seconda moglie.

Si sarebbero incrementate anche le quote di partecipazione del primo alla Sodano s.n.c. e sarebbero intervenute le opere di ristrutturazione di due dei tre punti vendita di calzature ed abbigliamento di proprietà.

2. Con il secondo motivo la ricorrente fa valere la violazione dell’art. 337-sexies c.c., in tema di quantificazione dell’assegno divorzile in seguito alla revoca dell’assegnazione dell’ex casa coniugale.

La figlia KKKK si era trasferita da (OMISSIS) a (OMISSIS) per iniziare un rapporto di collaborazione con la KPMG con un contratto di 24 mesi di apprendistato, e, sostenendo ancora gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione, continuava a recarsi mensilmente presso l’abitazione familiare a (OMISSIS) con costi a carico della madre.

La ricorrente sarebbe stata privata di un incremento dell’assegno proporzionato all’onere di reperire una nuova abitazione.

Dalla vendita o dalla locazione della ex casa coniugale nella cui disponibilità era rientrato, il signor YYYY avrebbe tratto un consistente beneficio economico là dove la signora XXXX avrebbe dovuto reperire una diversa soluzione abitativa con conseguente esborso.

3. Con il terzo motivo la ricorrente fa valere la violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9 e art. 337-sexies c.c. e l’assenza di motivazione sul punto.

I giudici di merito avevano ritenuto che la circostanza che i genitori, e quindi anche la ricorrente, non dovessero più mantenere la figlia avrebbe reso congruo l’assegno divorzile senza poi interrogarsi sull’ammontare della quota dei redditi della ricorrente riservata al mantenimento della figlia.

4. I motivi si prestano tutti, ad una valutazione che è in parte di inammissibilità per le ragioni di seguito indicate.

4.1. La ricorrente non deduce quale fosse la quota di reddito riservata al contributo al mantenimento della figlia e tanto nel rapporto di proporzionalità con il padre.

Più puntualmente, la richiedente non allega, nel rispetto del principio di autosufficienza al quale il ricorso per cassazione deve rispondere ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, quale somma sia tornata nella sua libera disponibilità all’esito della revoca del contributo per la figlia, ormai autosufficiente, e tanto per consentire a questa Corte di legittimità di apprezzare, nella ridotta consistenza del contributo al mantenimento della figlia revocato, l’incapacità dello stesso, implementato, in modifica, di soli 40 Euro, di consentire quantomeno alla ricorrente di prendere in locazione un bene presso cui risiedere e tanto nella intervenuta, all’esito dell’apprezzata, dai giudici di merito, autosufficienza della figlia maggiorenne, revoca dell’assegnazione della ex casa coniugale.

4.2. Per i mancati passaggi, non viene indicato il parametro su cui commisurare l’incremento dell’assegno divorzile nella denunciata insufficienza dell’aumento dispostone e per siffatta carenza i motivi proposti, che tutti muovono dalla segnalata inadeguatezza dell’implemento dell’assegno divorzile, soffrendo dell’indicata comune mancanza di autosufficienza, in via diretta o derivata, vanno dichiarati inammissibili.

4.3. La ricorrente va quindi condannata a rifondere al resistente le spese di lite che qui si liquidano, secondo soccombenza, in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere al resistente le spese di lite che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 29 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2020

tirocinio infermieristico e richiesta di risarcimento del danno per valutazione negativa del tirocinio

03/03/2020 n. 1549 - Consiglio di Stato - sezione IV

Dalla riscontrata illegittimità dell’atto è, in aderenza alla concezione normativa oramai più ampiamente condivisa, un indice di colpa dell’amministrazione, indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l’illegittimità in cui l’apparato amministrativo sia incorso. In tale eventualità spetta all’amministrazione fornire elementi istruttori o anche meramente assertori volti a dimostrare l’assenza di colpa. Si afferma cioè che la riscontrata illegittimità dell’atto rappresenta, nella normalità dei casi, un elemento idoneo a presumere la colpa della P.A, spettando poi a quest’ultima l’onere di provare il contrario (ex multis, Cons. Stato, III, 22 ottobre 2019, n. 7192; id., V, 30 giugno 2009, n. 4237; id., IV, 6 aprile 2016, n. 1356).

La colpa della pubblica amministrazione va quindi individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili (da ultimo, Cons. Stato, III, 15 maggio 2018, n. 2882; id, III, 30 luglio 2013, n. 4020). Pertanto, la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (ex multis, Cons. Stato, IV, 7 gennaio 2013, n. 23; id., V, 31 luglio 2012, n. 4337).

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minore non accompagnato e accertamento anagrafico

03/03/2020 n. 5936 - SEZIONE I

La L. n. 47 del 2017, recante “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”, introdotta con il principale obiettivo di rafforzare gli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento in favore dei minori stranieri, a completamento del quadro normativo vigente, all’art. 5 ha previsto, per quanto rileva, una procedura unica di identificazione del minore, che costituisce il passaggio fondamentale per l’accertamento della minore età ed a cui consegue la possibilità di applicare le misure di protezione in favore dei minori non accompagnati.

Solo ove sussistano fondati dubbi sull’età e questa non sia accertabile attraverso documenti identificativi (passaporto o altro documento di riconoscimento munito di fotografia), le Forze di Polizia possono richiedere al giudice competente per la tutela, ovverosia il Tribunale per i minorenni, l’autorizzazione all’avvio della procedura multidisciplinare per l’accertamento dell’età.

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il dentista e' responsabile quando sottopone il paziente a cure inutili che ne comportano l'aggravamento delle condizioni di salute

26/02/2020 n. 5128 - SEZIONE III

L’inadempimento rilevante, nell’ambito dell’azione di responsabilità medica, per il risarcimento del danno nelle obbligazioni, così dette, di comportamento non è, dunque, qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del paziente – creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, o comunque genericamente dedotto, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè “astrattamente efficiente alla produzione del danno” (così chiosa Cass. SU 577/2008). Conseguentemente, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 27606 del 29/10/2019; Cass.Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018).

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richiesta di protezione internazionale: il giudizio sulla credibilità del racconto non può fondarsi su considerazioni generali o astratte

20/02/2020 n. 4357 - Sezione I

Il Tribunale di Venezia ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dal cittadino pakistano Omissis.

A sostegno della decisione ha ritenuto non verosimile il racconto narrato. Il ricorrente aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio paese per il timore di essere ucciso da un gruppo terroristico sunnita che, in un assalto presso la sua abitazione durante una cerimonia religiosa, aveva ucciso molti partecipanti alla stessa. Secondo il Tribunale, il racconto è generico perchè “elenca più che descrivere i gravi fatti posti a sostegno del suo espatrio”. Nessuno degli eventi è stata narrato in modo circostanziato. La documentazione prodotta non è di provenienza certa. E’ inverosimile, infine, che il richiedente chè abbia lasciato in patria la moglie ed I figli minori.

Tale valutazione negativa ha portato ad escludere la sussistenza dei requisiti per il rifugio politico e la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

Quanto alla lettera c), dalle fonti consultate, è emersa una situazione critica in Punjab sia in relazione ai conflitti etnici e politici che, in particolare, a quelli religiosi anche in relazione agli attacchi terroristici. Tuttavia questi ultimi sono in calo anche se perdura una situazione d’instabilità creata dalla presenza sul territorio di gruppi affiliati all’IS e dalla presenza di gruppi radicali. Complessivamente però, si può escludere che la regione stia vivendo una situazione di violenza indiscriminata.

In relazione alla protezione umanitaria incide sulla valutazione d’infondatezza il difetto di credibilità e la persistente condizione di clandestinità del richiedente.

Viene proposto ricorso per cassazione dal cittadino straniero. Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Sono, preliminarmente, sollevate eccezioni d’incostituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis così come modificato dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, lett. g) in relazione all’introduzione del rito camerale; della previsione di un termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato e della prescrizione secondo la quale la procura speciale per proporre ricorso per cassazione deve essere conferita successivamente alla comunicazione del decreto impugnato.

Le eccezioni sono manifestamente infondate secondo il costante orientamento di questa Corte così massimato:

in relazione al rito camerale:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte.(Cass. 17717 del 2018).

In relazione al termine perentorio di 30 giorni.

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, relativa all’eccessiva limitatezza del termine di trenta giorni prescritto per proporre ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale, poichè la previsione di tale termine è espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento. (Cass. 17717 del 2018; 28119 del 2018).

In relazione alla peculiarità del regime della procura speciale nel giudizio di legittimità:

E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, nella parte in cui stabilisce che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione debba essere conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto da parte della cancelleria, poichè tale previsione non determina una disparità di trattamento tra la parte privata ed il Ministero dell’interno, che non deve rilasciare procura, armonizzandosi con il disposto dell’art. 83 c.p.c., quanto alla specialità della procura, senza escludere l’applicabilità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 (Cass. 17717 del 2018).

Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere il Tribunale escluso l’esame dei riscontri documentali offerti dalla parte perchè non di provenienza certa così da ritenere che i fatti narrati non fossero circostanziati.

Nel secondo motivo il vizio di violazione di legge è rappresentato in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 25 e dell’art. 25 della Convenzione di Ginevra del 1951 dai quali si trae il principio della non compulsabilità delle autorità straniere a fini probatori quando si ritenga che tale attività possa danneggiare il richiedente perchè direttamente od indirettamente responsabili dei fatti narrati.

Nel terzo motivo si censura la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 perchè il Tribunale nell’affermare la non veridicità dei fatti narrati non ha applicato i criteri di credibilità indicati dalla norma, in particolare in relazione al giudizio di non valutabilità delle prove offerte.

Nel quarto motivo viene dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione al mancato riconoscimento dello status di rifugiato non essendo stata esaminata dal Tribunale la condizione di perseguitato per motivi religiosi rappresentata dal richiedente.

I primi quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente ed accolti per quanto di ragione.

Il tribunale ha ritenuto che i fatti narrati dal ricorrente ancorchè “estremamente gravi” non sono stati riferiti in modo circostanziato. I documenti prodotti non costituiscono un supporto a tale deficit perchè non di provenienza certa e le dichiarazioni rese in udienza sono state confermative delle dichiarazioni rese.

La credibilità delle dichiarazioni del richiedente protezione internazionale deve essere valutata alla luce del paradigma stabilito nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e con una giustificazione argomentativa fondata sull’esame concreto delle dichiarazioni rese e non invece su valutazioni astratte. Il giudizio si deve fondare, perchè così richiesto dalla norma, sull’esame effettivo dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni anche in relazione agli sforzi allegativi e probatori del richiedente. E’ da escludere il rilievo ai fini della credibilità intrinseca della conformità delle produzioni documentali ai criteri processuali interni di ammissibilità. La documentazione deve essere “pertinente” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b) ma non corredata da particolari attestazioni di conformità all’originale, salva l’evidente e motivata falsità riscontrata o la mancanza dei requisiti minimi perchè quanto prodotto possa essere valutato come documento. Non può pertanto escludersi la ricorrenza del requisito stabilito nel comma 5, lettera a), dell’art. 3 sopracitato ovvero lo sforzo di circostanziare i fatti quando sia stato fornito un supporto documentale preciso (cfr. elenco documenti indicati in ricorso, riprodotti ritualmente) e pertinente omettendo di verificarne la rilevanza sulla base di una valutazione del tutto generica di non utilizzabilità.

Si deve aggiungere che la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 si riscontra anche in relazione agli indici di cui alle lettere b) e c). Non è stato valutato se il richiedente abbia fornito tutti gli elementi pertinenti in suo possesso prima di formulare, nonostante i documenti prodotti, una valutazione d’insufficiente specificazione dei fatti e non è stata neanche adombrata l’incoerenza e la contraddittorietà delle dichiarazioni rese (lettera c), salvo il richiamo all’aver lasciato la moglie ed i figli minori in Pakistan. Tale indicazione nella tessitura argomentativa della pronuncia impugnata non ha autonomo rilievo ed è stata valutata unitamente al profilo di rilevanza, ritenuta nettamente prevalente, costituito dalla mancanza di riscontri probatori così da escludere che i fatti esposti potessero essere circostanziati.

Sull’obbligo giuridico, scaturente dall’art. 3, di valutare le produzioni documentali, secondo un criterio di pertinenza e non con criteri formalisticamente ispirati ai principi interni in tema di tipicità della prova ed ammissibilità delle produzioni documentali si richiama Cass. 255534 del 2016, così massimata:

“In tema di riconoscimento dello “status” di rifugiato politico o della protezione internazionale, in presenza di eccezioni di contestazione della conformità dei documenti prodotti dal richiedente agli originali e di sostanziale credibilità delle sue dichiarazioni, non opera il tradizionale principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, ma il giudice – prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali – ha il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, se del caso utilizzando canali diplomatici, rogatoriali ed amministrativi, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato la protezione sussidiaria ad un cittadino nigeriano limitandosi ad evidenziare l’inverosimiglianza delle allegazioni, la mancanza di riscontri probatori ed il difetto di autenticità dei documenti prodotti, nonchè abbandonandosi a facili espressioni dubitative in relazione ai fatti narrati, senza assumere alcuna posizione di esame attivo).

Sul rispetto della procedimentalizzazione della credibilità si richiama Cass.26921 del 2017, così massimata:

“In tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’ autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale.

Sull’illegittimità di una valutazione di credibilità che si fondi sulla mancanza di riscontri probatori si richiama Cass. 19716 del 2018, così massimata:

“In tema di protezione sussidiaria, la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, incombendo al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto. (Nella specie, la S.C., ha cassato la sentenza con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il diniego del riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo il tribunale ritenuto, senza alcun approfondimento istruttorio, che il timore di danno grave dedotto dal richiedente fosse esclusivamente soggettivo in quanto privo di riscontri obiettivi, e il pericolo non fosse più attuale.)

Il tribunale di Venezia non ha fatto buon governo dei principi interpretativi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, sopra richiamati, incentrando il giudizio di non credibilità” su valutazioni astratte e generali, non rivolte al contenuto delle dichiarazioni rese ed alla qualità intrinseca delle stesse rispetto alla situazione oggettiva narrata, non valorizzando lo sforzo di allegazione e prova profuso dal richiedente in ossequio alla prescrizione contenuta nella norma, così da svalorizzare la produzione documentale sulla base di una valutazione negativa fondata sulla mera mancanza di requisiti formali sulla pertinenza della stessa.

All’accoglimento dei primi quattro motivi consegue assorbimento dei rimanenti. Il provvedimento deve essere, in conclusione, cassato con rinvio al giudice del merito in diversa composizione perchè provveda anche sulle spese del presente procedimento.

PQM

Accoglie i primi quattro motivi, assorbiti gli altri, cassa il provvedimento impugnato e rinvia, anche per le spese processuali del presente procedimento, al Tribunale di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

sul rilascio della carta di soggiorno ad extracomunitario convivente con cittadina dell'unione europea

17/02/2020 n. 3876 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 121/2018, depositata in data 24/01/2018, ha riformato la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso di XXXX, cittadino dell'(OMISSIS), avverso il provvedimento del 15/4/2013 del Questore di Genova, di rigetto della richiesta, presentata nel (OMISSIS), dello straniero di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE”, essendo nato, a (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), nel (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena. Il Questore aveva respinto l’istanza, per difetto dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, non trattandosi, quanto al richiedente, familiare straniero di cittadino italiano o dell’Unione Europea, di ascendente “a carico” o “assistito personalmente per gravi motivi di salute”, situazioni tutte “non riferibili ad un minorenne”.

In particolare, i giudici d’appello, accogliendo il gravame proposto dal Ministero dell’Interno, hanno sostenuto che il Tribunale aveva ritenuto, implicitamente, insussistenti i presupposti per il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti cittadini UE, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 1 e 2, in difetto di rapporto di coniugio tra il richiedente e la madre del minore ovvero di un rapporto di stabile convivenza tra gli stessi, debitamente attestato, ovvero della qualità, in capo all’istante, di “ascendente a carico” del figlio minore, mentre aveva ritenuto sussistenti i presupposti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, contemplante un permesso di durata limitata e collegato a particolari esigenze del minore, presupposti neppure allegati dal richiedente, che aveva invocato soltanto la relazione parentale genitore/figlio, in assenza di “gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore”; inoltre, ad avviso della Corte di merito, essendo la competenza sui provvedimenti ex art. 31 citato riservata al Tribunale per i minorenni, non poteva operare il meccanismo della transiatio iudicii, in quanto si trattava di procedimento del tutto diverso, per causa petendi e petitum.

Avverso la suddetta pronuncia, XXXX propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, sia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 28 e 30 T.U.I. sia l’omessa motivazione e l’omesso esame di fatto decisivo, rappresentato dalla convivenza more uxorio, dalla presenza di un minore e di un genitore cittadino comunitario, dovendo ritenersi che, difformemente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il giudice di primo grado aveva, per mero errore materiale, fatto richiamo all’art. 31 T.U.I., in luogo dell’art. 30 del T.U.I., comma 1, lett. d), relativa alla posizione del genitore extracomunitario di figlio minore, nato in Italia ed avente cittadinanza italiana, avendo il Tribunale fatto espresso riferimento alla regolare presenza di un minore comunitario residente in Italia ed alla convivenza effettiva tra il richiedente e la madre, pure comunitaria, del minore, ed ad una “situazione comunque tutelata”; con il secondo motivo, si lamenta poi sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2, 3,7 e 14, art. 5, comma 5, artt. 28,30 T.U.I., anche in relazione all’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi, rappresentati dal dritto di soggiorno illimitato della madre e del figlio minore, dovendo ritenersi illogico non assicurare al padre extracomunitario il diritto di continuare a risiedere nel territorio nazionale, insieme al figlio.

2. La seconda censura è fondata, con assorbimento della prima.

Il ricorrente, mentre non muove censure alla statuizione, pure presente nella sentenza impugnata, relativa all’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 31 T.U.I., invoca, da un lato, l’erroneità dell’interpretazione che è stata data dalla Corte d’appello del D.Lgs. n. 30 del 2007, per essere stato escluso “il padre convivente di un minore dal novero dei familiari”, pur “convivendo con lo stesso dalla nascita” e, dall’altro lato, l’applicabilità dell’art. 30, comma 1, lett. d) T.U.I., (“Permesso di soggiorno per motivi famigliari”), sostenendo sia che il Tribunale già ne avrebbe fatto corretta applicazione, al di là dell’erroneo richiamo ad altra disposizione normativa (l’art. 31 T.U.I.), sia che comunque la propria richiesta – di rilascio di una carta di soggiorno “per congiunti della UE” -, respinta dal Questore di Genova, con provvedimento in questo giudizio impugnato, era da accogliere alla luce di tale norma.

Con riguardo al primo profilo, il ricorrente deduce che l’istanza di rilascio della carta di soggiorno è stata fatta quando il minore, nato e vissuto sempre in Italia, aveva un anno di vita e che la convivenza con il minore del padre dalla nascita è “pacifica ed accertata”, mentre quella tra i genitori, il cittadino extracomunitario richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena, non poteva essere dimostrata con documentazione ufficiale proveniente dalla Romania, in quanto la relazione tra i due era nata e si era sviluppata in Italia ed era stata accertata correttamente dal giudice di primo grado.

L’art. 30, comma 1, lett. d), contempla il rilascio di un permesso di soggiorno ” al genitore straniero, anche naturale, di minore italiano residente in Italia. In tal caso il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato anche a prescindere dal possesso di un valido titolo di soggiorno, a condizione che il genitore richiedente non sia stato privato della potestà genitoriale secondo la legge italiana”.

Il ricorrente aveva chiesto il rilascio di una carta di soggiorno per congiunti UE, in quanto assumeva, documentando, di essere genitore di un bambino nato, nel (OMISSIS), da una relazione more uxorio tra il richiedente ed una cittadina rumena, residente a (OMISSIS), un figlio, di nazionalità rumena.

Ora, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28 (“Diritto all’unità familiare”) stabilisce al comma 2 che “ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea” continuano ad applicarsi le disposizioni del D.P.R. n. 1656 del 1965, oggi sostituito dal D.Lgs. n. 30 del 2007.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 10 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) così recita: “Carta di soggiorno per i familiari del cittadino comunitario non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione Europea 1. I familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all’art. 2, trascorsi tre mesi dall’ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la “Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, redatta su modello conforme a quello stabilito con decreto del Ministro dell’interno da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente D.Lgs….. 3. Per il rilascio della Carta di soggiorno, è richiesta la presentazione: a) del passaporto o documento equivalente, in corso di validità; b) di un documento rilasciato dall’autorità competente del Paese di origine o provenienza che attesti la qualità di familiare e, qualora richiesto, di familiare a carico ovvero di membro del nucleo familiare ovvero del familiare affetto da gravi problemi di salute, che richiedono l’assistenza personale del cittadino dell’Unione, titolare di un autonomo diritto di soggiorno; c) dell’attestato della richiesta d’iscrizione anagrafica del familiare cittadino dell’Unione; d) della fotografia dell’interessato, in formato tessera, in quattro esemplari; d-bis) nei casi di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), di documentazione ufficiale attestante l’esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell’Unione)). 4. La carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione ha una validità di cinque anni dalla data del rilascio….”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 2, stabilisce che, ai fini del D.Lgs., si intende, per “cittadino dell’Unione”, qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro, e per “familiare”, il coniuge ovvero “il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante” ovvero “i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)” e “gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o partner di cui alla lett. b)”.

Lo stesso D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, prevede poi che il D.Lgs., si applica “a qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonchè ai suoi familiari ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo” e che lo Stato membro ospitante, senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell’interessato, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno di “ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all’art. 2, comma 1, lett. b), se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’Unione lo assista personalmente” ovvero del “partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)”.

Tale ultimo inciso è stato introdotto per effetto della L. Europea 6 agosto 2013, n. 97, art. 1 (Disposizioni volte a porre rimedio al non corretto recepimento della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari. Procedura di infrazione 2011/2053), con sostituzione delle parole: “dallo Stato del cittadino dell’Unione”, presenti nel precedente testo normativo, con quelle “con documentazione ufficiale”.

Il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), prima della Novella del 2013, in attuazione dell’art. 3, par. 2, lett. b) della Direttiva 2004/38/CE, – il quale stabilisce che il diritto di ingresso e di soggiorno, in uno Stato membro UE ospitante un cittadino di altro Stato membro, viene riconosciuto anche al partner di quest’ultimo, a condizione che fra i due soggetti sussista una relazione stabile “debitamente attestata” (essendo qualificato familiare “il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata”), – aveva introdotto una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare detta “stabile relazione”: infatti, si disponeva che tale rapporto – fra il cittadino dell’altro Stato membro e il suo partner – dovesse essere attestato dallo Stato al quale appartiene il primo, con esclusione, pertanto, non soltanto del documenti ufficiali dello Stato di provenienza del partner (se diverso dall’altro), ma anche dei mezzi di prova non costituiti da documenti.

Ora, la situazione del diritto alla coesione familiare del genitore di minore cittadino dell’U.E. e convivente di cittadina rumena, dell’U.E. quindi, è dunque contemplata espressamente da tali disposizioni, ma, come rilevato nella sentenza impugnata, la richiesta del B. veniva respinta dalla Questura (e, come osservato dalla Corte d’appello, la motivazione di rigetto, sotto tale profilo, era implicitamente recepita dal Tribunale, essendo il provvedimento di accoglimento motivato con richiamo ad altra norma, l’art. 31 T.U.I.), nell’aprile 2013, per insussistenza dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, nel testo vigente ratione temporis, atteso che l’istante non era coniugato con la cittadina rumena madre del minore nè era partner della stessa in forza di unione registrata in uno Stato membro o di attestazione ufficiale, dello Stato del cittadino dell’Unione (essendo intervenuta, solo nell’agosto del 2013, la L. Europea n. 97 del 2013, di correzione dell’inciso contenuto al D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, lett. b)), della stabile relazione nè poteva considerarsi ascendente a carico del figlio minore.

Tale statuizione viene espressamente impugnata dal ricorrente, nella prima parte del secondo motivo; il ricorrente invoca poi anche l’estensione, a suo favore, della portata applicativa dell’art. 30 T.U.I., disposizione questa dettata per la diversa ipotesi di genitore straniero di minore italiano, residente in Italia.

La prima parte della doglianza è fondata, in quanto il presupposto della stabile convivenza doveva essere dimostrato, con documentazione sì dotata di ufficialità, ma non anche necessariamente proveniente dallo Stato membro del partner cittadino comunitario (nella specie, la Romania), stante la modifica introdotta appunto dalla legge Europea n. 97/2013, nata da una procedura di infrazione elevata contro l’Italia per non corretto recepimento della Direttiva 2004/38/CE.

Nè necessariamente la documentazione ufficiale richiesta dal D.Lgs. n. 30 del 2007, si poteva rinvenire esclusivamente, come ritenuto dalla Corte d’appello, a pag. 3 della motivazione, attraverso gli strumenti previsto dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili. Anche perchè la coppia di fatto non poteva neanche ottenere una modalità di riconoscimento giuridico diversa dal matrimonio, dato che al momento di presentazione dell’istanza, nel 2011, il sistema giuridico italiano non prevedeva, per le coppie omosessuali o eterosessuali impegnate in una relazione stabile, la possibilità di avere accesso ad una unione civile o ad una unione registrata che attestasse la loro condizione e garantisse loro alcuni diritti essenziali.

L’art. 3, paragrafo 2, comma 1, lett. b), della direttiva 2004/38/CE riguarda specificamente il partner con il quale il cittadino dell’Unione ha una relazione stabile “debitamente attestata” e la disposizione prevede che lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevoli l’ingresso e il soggiorno di tale partner.

L’espressione “documentazione ufficiale” utilizzata dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla legge Europea n. 97/2013, non contiene alcuna definizione di “ufficialità”.

Queste peraltro sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE (di cui il D.Lgs. n. 30 del 2007, è atto di recepimento in Italia), al punto 2.2.1: “il partner con cui un cittadino dell’Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell’art. 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo”.

Al riguardo, occorre anche sottolineare che, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C-27 del 25 luglio 2008 (caso Metock), negli orientamenti successivi, questa Corte, aderendo ai principi indicati dalla Corte di Giustizia, ha ritenuto che “al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell’Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell’interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d’ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall’aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell’arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell’Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” (principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, Cass. n. 13112 del 2011; 3210 del 2011; Cass. 12745/2013).

Dovrebbe, in conclusione, definitivamente escludersi il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2 e 3, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare (Cass. 12745/2013 cit.).

Il diritto di soggiorno del familiare del cittadino italiano è regolato dunque dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 7, comma 1, lett. d) e art. 10. Le due disposizioni normative riguardano specificamente il cittadino dell’Unione e i suoi familiari e sono inserite in un contesto legislativo che mira a garantire la circolazione in ambito UE.

Il provvedimento del Questore di diniego della carta di soggiorno era esclusivamente motivato in relazione alla qualità del richiedente di familiare del minore, cittadino comunitario (rumeno) nato in Italia, ritenuta insussistente, non anche in relazione alla qualità del medesimo di partner convivente della madre del minore, cittadina rumena, residente in Italia.

Il requisito della convivenza tra il familiare extracomunitario e la cittadina comunitaria, residente in Italia, costituiva un presupposto del rilascio della carta, non trattandosi di coniugi (invece, come da tempo chiarito da questa Corte, il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni familiari in favore di un cittadino extraEuropeo, coniuge di un cittadino italiano o dell’UE, disciplinato dal D.Lgs. n. 30 del 2007, non richiede il requisito della convivenza tra i coniugi, salve le conseguenze dell’accertamento di un matrimonio fittizio o di convenienza, ai sensi dell’art. 35 della direttiva 2004/38/CE e, dunque, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1 bis, essendo tale presupposto del tutto estraneo al disposto dell’art. 7, comma 1, lett. d) e artt. 12 e 13 del D.Lgs. citato, Cass. 10925/2019; Cass. 5303/2014).

Nella specie, la relazione more uxorio tra il richiedente la carta di soggiorno e la cittadina rumena non poteva essere esaminata separatamente dall’atto di nascita del minore, non contestato dal Ministero, per quanto emerge dagli atti, nonchè da altri documenti attestanti la convivenza tra i genitori del bambino, al fine di poter ritenere assolto l’onere probatorio imposto dalla legge.

Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “in materia di riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, artt. 2,3 e 10, ai fini del rilascio della carta di soggiorno ad un genitore, non appartenente all’Unione Europea, di minore, cittadino dell’Unione, e convivente con cittadina dell’Unione, pur costituendo un presupposto la convivenza tra il familiare non appartenente all’U.E. e la cittadina dell’Unione, residente in Italia, non trattandosi di coniugi, la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta ed il cittadino dell’Unione, “debitamente attestata” con “documentazione ufficiale”, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla L. Europea n. 97 del 2013, può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l’epoca di presentazione dell’istanza, e quindi vagliando anche l’atto di nascita del minore o altra documentazione idonea”.

3.Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del ricorso (secondo motivo, assorbito il primo), va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, per nuovo esame.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, assorbito il primo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

distrofia di genere e cambio anagrafico - il tribunale di milano descrive il percorso

17/02/2020 n. 1479 - Tribunale Milano sez. I

Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica. La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente -, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico

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scelta del nuovo nome e modifica dello stato civile anche se il cambio di sesso non è stato ancora completato

17/02/2020 n. 3877 - Sezione I

La Corte d’appello, riformando la decisione di primo grado, richiamate le pronunce della Consulta (sentenze nn. 221/2015 e 180/2017) e di questa Corte (Cass. 15138/2017), ha ritenuto sussistenti i presupposti per dar luogo alla rettificazione prevista dalla L. n. 164 del 1982, art. 1 non rappresentando presupposto imprescindibile il trattamento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali anatomici primari ed avendo accertato che non corrispondono più al sesso attribuito nell’atto di nascita i caratteri sessuali ed identitari attuali del ricorrente, così disponendo la rettificazione di attribuzione di sesso da maschile a femminile, con conseguente ordine all’Ufficiale di Stato Civile di provvedere alle necessarie rettifiche sul relativo registro.

All’attribuzione all’attore del sesso femminile deve necessariamente conseguire anche l’attribuzione di un nuovo nome, corrispondente al sesso.

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disfunzioni siss imputabili a lombardia informatica. le disfunzioni c'erano ma nessun risarcimento per il medico di famiglia

17/02/2020 n. 3902 - Cassazione Civile - sezione lavoro

Con sentenza in data 24 ottobre- 13 dicembre 2016 numero 1404 la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che, per quanto ancora in discussione, aveva respinto la domanda proposta da F.M.A.E. – medico di medicina generale in regime di convenzione con L’ASL di Milano – nei confronti dell’ASL, della REGIONE LOMBARDIA e di LOMBARDIA INFORMATICA spa per il risarcimento del danno subito a causa delle disfunzioni del sistema informatico del servizio sanitario regionale (“SISS”) nonchè per il rimborso dei costi di adeguamento del proprio sistema informatico.

La Corte territoriale condivideva le valutazioni del Tribunale in ordine alla effettiva esistenza delle lamentate disfunzioni della piattaforma informatica; riteneva, tuttavia, infondata ogni pretesa economica.

Il rapporto di convenzione prevedeva che i compensi dei medici convenzionati fossero parametrati al numero di pazienti e non al tempo di lavoro; pertanto non era dovuto un maggiore compenso per il tempo che la parte assumeva avere dedicato alla risoluzione dei problemi informatici. Ne derivava la assenza di qualsiasi ipotetico danno da lucro cessante.

Neppure poteva essere riconosciuto il rimborso delle spese sostenute per l’adeguamento dell’Hardware e del software; comprese fra i costi a carico del medico; mancava la prova della loro riconducibilità alle disfunzioni del SISS.

Le spese del grado andavano compensate nei rapporti fra la F. e LOMBARDIA INFORMATICA S.p.A., appellante incidentale, per il rigetto di entrambe le impugnazioni; la F. doveva essere condannata alla rifusione delle spese nei confronti dell’appellata ASL.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso LOMBARDIA INFORMATICA S.p.A., articolato in tre motivi, cui ha opposto difese F.M.A.E. con controricorso, contenente, altresì, ricorso incidentale articolato in tre motivi, cui hanno resistito con controricorso LOMBARDIA INFORMATICA S.p.A. e AGENZIA TUTELA DELLA SALUTE-ATS della città metropolitana di Milano (già ASL di MILANO).

CONSIDERATO
che:

Con il primo motivo LOMBARDIA INFORMATICA spa, parte ricorrente in via principale, ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c..

Ha impugnato la sentenza per avere ritenuto dimostrate le disfunzioni del software SISS sulla base delle allegazioni del ricorso introduttivo e della deposizione del teste D., in violazione delle norme in tema di onere della prova e di presunzioni.

Le contestazioni provenienti dalla stessa parte interessata non potevano costituire fonte di prova e, peraltro, esse rappresentavano problemi del sistema informatico e non anche la possibile causa. Era anzi emerso che i problemi esposti erano imputabili a difetti dei sistemi operativi installati sul “pc” personale del medico ovvero ad errori di digitazione.

Neppure costituiva fonte di prova la denuncia delle problematiche tecniche da parte del sindacato dei medici, essendo piuttosto necessaria la prova di fatti specifici.

La ricorrente principale ha esposto che le deposizioni dei testi erano contrastanti e che il teste D. aveva affermato che le denunce del sindacato dipendevano da una conoscenza inadeguata del programma da parte degli utenti, riconoscendo un’unica e marginale disfunzione del software.

Con il secondo motivo LOMBARDIA INFORMATICA spa ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – violazione dell’art. 116 c.p.c., per omesso esame di un fatto storico decisivo oggetto di discussione tra le parti.

La ricorrente società ha lamentato il mancato esame delle deposizioni dei testi B., FI., D., di rilievo decisivo a smentire le denunce della parte attrice.

Con il terzo motivo LOMBARDIA INFORMATICA spa ha censurato la sentenza impugnata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4. Si deduce la grave illogicità della motivazione, per avere attribuito valenza di prova alle allegazioni di controparte – sebbene contestate – ed a denunce del sindacato, in assenza di riscontri istruttori.

Si assume altresì la illogicità dell’affermazione secondo cui gli accessi del personale di LOMBARDIA INFORMATICA presso lo studio del medico costituivano prova del problema tecnico perchè, al limite, essi dimostravano che la società aveva prestato il servizio di assistenza richiesto.

La ricorrente incidentale F.M.A.E. ha dedotto con il primo motivo di ricorso incidentale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione, errata ed omessa applicazione degli artt. 1218,1223,1228,2087,2697 c.c., impugnando il rigetto della domanda risarcitoria nonostante l’accertato inadempimento delle parti convenute.

Ha assunto che la condotta delle controparti, che non avevano adottato le necessarie e opportune soluzioni per assicurare la funzionalità adeguata del sistema informatico, aveva determinato una lesione della sua personalità morale.

La Corte territoriale aveva errato nel ritenere che l’indicazione di un parametro di risarcimento commisurato al tempo dedicato a risolvere i problemi informatici costituisse una voce di danno rappresentata dal lucro cessante o dalla rivendicazione di ore di lavoro straordinario.

Inoltre ella aveva incontrato problemi maggiori rispetto agli altri medici perchè (come affermato dal teste di LOMBARDIA INFORMATICA signor B.) era stata utilizzata a sua insaputa come tester, venendole assegnata una versione di prova del software.

Con il secondo motivo la ricorrente incidentale ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione, errata ed omessa applicazione degli artt. 1223 e 1226 c.c., nonchè dell’art. 432 c.p.c., in ordine alla liquidazione del danno.

Ha esposto di avere indicato una possibilità di calcolo dei danni esclusivamente per facilitarne una liquidazione equitativa e non a titolo di lucro cessante. In ogni caso occorreva evidenziare la differenza tra il prolungamento dell’attività lavorativa e la attività, estranea alla professionalità medica, diretta a supplire all’inadempimento del datore di lavoro, che sottraeva tempi significativi ad altre possibili occupazioni. Si era in presenza di un pregiudizio che colpiva direttamente la persona del lavoratore ed i suoi diritti fondamentali, da quantificare in via equitativa anche ai sensi dell’art. 432 c.p.c..

Si censura inoltre la sentenza per non aver riconosciuto il danno emergente relativo ai costi sostenuti per le disfunzioni del sistema.

Con il terzo motivo del ricorso incidentale si lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c.. n. 3 – violazione, errata ed omessa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

Il motivo investe la condanna della F. alla refusione delle spese giudiziali in favore di ATS; si assume sussistere una ipotesi di soccombenza reciproca, essendo stato riconosciuto l’inadempimento dell’ASL agli obblighi nascenti dalla convenzione.

Viene, altresì, censurata la condanna al raddoppio del contributo unificato, quale effetto dell’accoglimento del ricorso incidentale.

In via preliminare deve essere superata la eccezione di inammissibilità del ricorso principale opposta dalla ricorrente incidentale sotto il profilo del difetto dell’interesse di LOMBARDIA INFORMATICA spa alla impugnazione, in ragione del rigetto della domanda originaria.

Sul punto il collegio rileva che l’interesse di LOMBARDIA INFORMATICA spa al ricorso deriva dal rigetto dell’appello incidentale proposto dalla società avverso l’accertamento, compiuto dal Tribunale, del proprio inadempimento agli obblighi nascenti dalla fornitura del sistema informatico.

La qualità di parte soccombente nel giudizio d’appello determina l’interesse e la legittimazione della società a proporre la odierna impugnazione.

Le ragioni di censura svolte con il ricorso principale sono inammissibili.

I tre motivi, che possono essere congiuntamente trattati, contestano l’accertamento di fatto, compiuto conformemente nei due gradi di merito, del cattivo funzionamento del sistema informatico del servizio sanitario regionale. Trattasi della ricostruzione di un fatto storico, contestabile in questa sede di legittimità non già con la deduzione della violazione di regole di diritto (primo motivo) o di norme del processo (secondo e terzo motivo) ma unicamente nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione e dunque con la allegazione specifica di un fatto storico, risultante dagli atti, oggetto di discussione tra le parti e di rilievo potenzialmente decisivo, non esaminato nella sentenza impugnata.

Nella fattispecie di causa, tuttavia, il giudizio conforme sulla suddetta questione di fatto reso nei due gradi di merito preclude in limine la deducibilità in questa sede del vizio di motivazione; peraltro il ricorso principale non supererebbe comunque il preliminare vaglio di ammissibilità per difetto di specificità delle censure, che appaiono dirette – piuttosto che ad individuare un fatto specifico non esaminato – a devolvere a questa Corte un non -consentito riesame del merito.

Dalla inammissibilità del ricorso principale deriva la inefficacia del ricorso incidentale tardivo, in applicazione dell’art. 334 c.p.c., comma 2.

LOMBARDIA INFORMATICA spa è tenuta alla refusione delle spese nei confronti della ricorrente incidentale.

Questa Corte ha già chiarito che in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale – con conseguente inefficacia del ricorso incidentale tardivo ai sensi dell’art. 334 c.p.c., comma 2 – la soccombenza va riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e, dunque, l’applicazione del principio di causalità con riferimento al decisum evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale (Cass. 20/02/2014, n. 4074; conf. Cass. 04/11/2014, n. 23469; Cass. 12/06/2018, n. 15220; Cass. 26/09/2018, n. 22799; Cass. 28/09/2018, n. 23443; Cass. 05/03/2019 n. 6332).

Non vi è luogo a refusione delle spese nei confronti della ASL, che ha assunto una posizione adesiva alle difese della società LOMBARDIA INFORMATICA, ricorrente principale.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1 quater) – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte della ricorrente in via principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale; dichiara inefficace il ricorso incidentale. Condanna LOMBARDIA INFORMATICA spa al pagamento delle spese in favore della F., che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 3.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente in via principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

corso di formazione

22/06/2018 n. 384 - II sezione

SENTENZA

nel giudizio di appello iscritto al n. 49709 del registro di segreteria, proposto dal Procuratore Regionale della Corte dei conti presso la Sezione Giurisdizionale per la Lombardia, contro VM , rappresentato e difeso dall’avv. Paola Maddalena Ferrari presso il cui studio è elettivamente domiciliato

avverso

la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia n. 237/2014 del 31.12.2014.

Visti gli atti del giudizio.

Uditi all’udienza del 16 gennaio 2018 il relatore, consigliere LP, il PM nella persona del V.P.G. F L e l’avv. Paola Maddalena Ferrari per l’appellata.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 237/2014 del 31.12.2014, la Sezione giurisdizionale Regionale per la Lombardia ha assolto VM, convenuto in giudizio in qualità di medico ammesso al corso di formazione specifica in medicina generale di cui al DM 11.9.2003, non ritenendo provato il contestato danno erariale derivante dalla percezione di una borsa di studio triennale asseritamente non spettante per il contemporaneo svolgimento di attività incompatibili nel periodo considerato (febbraio 2004-gennaio 2007).

Secondo la prospettazione attorea, l’ammissione al suddetto corso e la fruizione della correlativa borsa di studio traevano con sé un contestuale divieto di esercitare la libera professione, così come di avere qualsiasi rapporto convenzionale o precario con il S.S.N., ovvero con enti od istituzioni pubbliche o private. Siffatto divieto scaturiva dal regolamento disciplinante il corso stesso (DM 11.9.2003), nonché dal comma 3 dell’art. 24 D.Lgs. n 368/1999; e, in generale, costituiva espressione del principio di incompatibilità sancito da una pluralità di disposizioni normative sia nazionali che comunitarie, analiticamente richiamate nell’atto di citazione stesso (ivi comprese due circolari emesse dal Ministero della Salute tra il 2003 e il 2004).

Il Collegio di prime cure ha ritenuto insussistente il contestato danno erariale ed assorbita l’eccezione di prescrizione, assolvendo il convenuto previa liquidazione in suo favore delle spese di difesa.

Avverso la sentenza (non notificata), ha interposto appello (notificato il 3.7.2015 e depositato il 24.7.15) il PR deducendo plurime violazioni di legge, erronea e falsa applicazione della normativa di settore, erronea e insufficiente motivazione nonché travisamento della domanda. Ed invero, la fattispecie di responsabilità era stata azionata applicando i noti principi in tema di “danno da sviamento delle finalità pubbliche”, come ribadito nella memoria conclusiva dell’udienza del 5.11.2014 ove era stato precisato che non si intendeva far valere alcuna fattispecie di responsabilità sanzionatoria per la quale, peraltro, sarebbe stata necessaria una specifica norma in tal senso. Da qui il travisamento dei fatti e della causa petendi da parte del primo giudice che non avrebbe colto a pieno la funzione pubblicistica del corso di formazione, invece ribadita dalla 1^ Sezione d’Appello di questa Corte (con sent. n. 99/15). Aggiunge l’appellante che il modus argomentandi del primo giudice si traduce di fatto “in una sostanziale abrogazione del divieto di svolgere attività professionale incompatibile e nell’ammissibilità di erogare incentivi pubblici sine causa”. Le allegate circolari ministeriali avrebbero, inoltre, un chiaro valore interpretativo sicchè erroneamente sono state ritenute inapplicabili.

Ha concluso per l’accoglimento dell’appello con condanna del sanitario al risarcimento del danno quantificato in citazione.

Con memoria depositata il 21.12.2017, si è costituito l’appellato chiedendo il rigetto del gravame e, in subordine, ha riproposto l’eccezione di prescrizione del danno già opposta in primo grado contestando altresì la configurabilità di un occultamento doloso avendo egli sempre regolarmente dichiarato al fisco i proventi percepiti. Nel merito, ha eccepito l’avvenuta confusione da parte del Requirente tra i corsi di specializzazione a livello nazionale (presso scuole specialistiche universitarie) e il corso per accedere alla graduatoria di medico di famiglia a livello regionale; l’errata individuazione della normativa applicabile ai fatti di causa, atteso che l’art. 13 del bando (su GU 74/2003) non contemplava alcuna incompatibilità e l’art. 24 del d.lgs. 368/99 vigente ratione temporis era stato modificato dall’art. 9 del d.lgs. 277/2003 che abrogò la frase citata dalla procura a sostegno della domanda (“per tutta la durata della formazione a tempo pieno è inibita …”). Solo il DM 2006 ha previsto espressamente l’incompatibilità, ma solo per “la normale settimana lavorativa”, quindi temporalmente limitata; l’art. 40 del D.Lgs. 368/99 riguarda il corso di specializzazione e non quello per cui è causa. Ha eccepito l’inesistenza del danno erariale avendo egli superato il corso con profitto sicchè la borsa è stata percepita a buon diritto e senza alcuno sviamento. Ha ribadito l’assenza di dolo e colpa grave atteso che il modulo prestampato di domanda di partecipazione al corso non conteneva alcun riferimento a cause di incompatibilità. Conclusivamente, ritenuta l’impugnata sentenza immune da censure e da confermare interamente, ha chiesto il rigetto dell’appello riproponendo, in subordine, tutte le eccezioni già opposte in prime cure.

All’udienza odierna il PM ha insistito per l’accoglimento dell’appello richiamando precedenti giurisprudenziali in tal senso. La difesa dell’appellato si è riportata agli atti concludendo come da verbale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico articolato motivo d’appello il Procuratore Regionale lamenta sostanzialmente un “palese travisamento” della domanda attrice conseguente ad un’errata interpretazione da parte del primo giudice “della disciplina normativa dei corsi di formazione in medicina generale”.

1. Ritiene il Collegio, viceversa, che l’interpretazione della domanda giudiziale quale elaborata dalla Sezione territoriale, sia condivisibile e conforme al quadro normativo e fattuale di riferimento. È da quest’ultimo che occorre partire, atteso che la vicenda di causa, avuto riguardo alle modalità fattuali e temporali di riferimento quali emergenti dagli atti, non può non vincolare il giudicante nell’individuazione della normativa applicabile ratione temporis e, conseguentemente, nell’accertamento della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa.

1.1 Il quadro fattuale.

Risulta dagli atti che il medico in questione ha partecipato al “concorso pubblico, per esami, per l’ammissione al corso di formazione specifica in medicina generale” bandito con D.M. Salute 11.9.2003(pubblicato in G.U., 4a Serie Speciale, n. 74 del 23 settembre 2003) e che, essendo risultato vincitore, è stato ammesso al corso di formazione organizzato dalla Regione Lombardia. Quanto alle concrete modalità di svolgimento del corso da parte dell’interessato, nulla ha contestato il Requirente. In particolare, non sono stati formulati addebiti in punto di mancata effettuazione della formazione, ingiustificate assenze, interruzione e/o sospensione della frequenza, nonché di espulsione dal corso. Non è stato contestato l’omesso raggiungimento degli obiettivi formativi, anzi è documentalmente provato il buon esito della formazione avendo il sanitario conseguito, al termine del corso, il diploma finale di “formazione specifica in medicina generale” senza che l’Amministrazione sanitaria abbia mai rilevato alcuna irregolarità o formulato censure a carico del medico. È altresì pacifico che lo stesso abbia percepito la borsa di studio prevista dall’art. 13 del bando di concorso, per tutta la durata del corso, senza aver ricevuto contestazioni o richieste di restituzione in via amministrativa.

1.2 Il quadro normativo.

La disciplina normativa applicabile alla fattispecie concreta quale innanzi delineata, è in primis, il D.M. Salute 11.9.2003, vale a dire il bando di concorso cui l’interessato ebbe a partecipare, costituente lex specialis, unitamente alla normativa dallo stesso espressamente richiamata.

Ebbene, l’art. 13 (“Borse di studio”) del predetto DM 11.9.2003 prevedeva testualmente:

“1. Al medico durante tutto il periodo di formazione specifica in medicina generale è corrisposta, in ratei mensili, da corrispondere almeno ogni due mesi, una borsa di studio dell’importo annuo complessivo di euro 11.603,50 (undicimilaseicentotre/50).

2. Corresponsione della borsa è strettamente correlata all’effettivo svolgimento del periodo di formazione”.

L’art. 11, comma 2, del citato DM stabiliva che “Per tutto quanto non previsto nel presente decreto, si fa rinvio alla disciplina contenuta nel decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, e successive modificazioni”.

Nel preambolo del provvedimento, si dava atto che era “… in corso di pubblicazione il decreto legislativo con cui viene recepita ed attuata la direttiva comunitaria 2001/19/CE, di modifica del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli”.

Il decreto legislativo all’epoca “in corso di pubblicazione”, era il D.Lgs. n. 277/2003 dell’8 luglio 2003 (recante “Attuazione della direttiva 2001/19/CE che modifica le direttive del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali e le direttive del Consiglio concernenti le professioni di infermiere professionale, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico”), pubblicato sulla GU del 14.10.2003 ed entrato in vigore il 29.10.2003.

Il bando di concorso, inoltre, conteneva in “Allegato A”, il modulo predisposto della domanda di partecipazione con cui il candidato chiedeva, appunto, di essere ammesso a partecipare “al concorso pubblico, per esami, per l’ammissione al corso di formazione specifica in medicina generale in attuazione dell’art. 24, comma 2-ter del decreto legislativo n. 368 del 17 agosto 1999, organizzato da codesta regione/provincia autonoma”. Non era prevista, né richiesta, alcuna autodichiarazione del candidato sulla insussistenza di eventuali cause di incompatibilità.

Ciò stante, è agevole constatare che alcuna disposizione del bando di concorso prevedesse “l’esclusività della borsa di studio” quale unico compenso consentito al corsista, né la sua incumulabilità con altri eventuali redditi aliunde percepiti, né, tantomeno, la perdita dell’assegno in caso di svolgimento di altra attività lavorativa. Al contrario, il richiamato art. 13 attesta, inequivocabilmente, il nesso sinallagmatico tra borsa di studio ed “effettivo svolgimento del periodo di formazione” individuando il titolo giuridico dell’erogazione, esclusivamente, nell’effettiva formazione.

Ne consegue, stando alle disposizioni del suddetto DM 11.9.2003, che la borsa di studio debba ritenersi erogata sine titulo nel caso in cui non vi sia stato da parte del percettore un effettivo svolgimento del periodo di formazione. Il bando di concorso, quindi, ex se considerato, non supporta affatto l’assunto accusatorio laddove quest’ultimo pretende di ancorarvi l’asserita finalità retributiva esclusiva della borsa di studio.

A conseguenze non diverse si perviene sulla base del D.Lgs. 368/1999, espressamente richiamato dal citato DM 11.9.2003 (art.11) a regolare la fattispecie di causa “per tutto quanto non previsto nel presente decreto”.

Il titolo IV (artt. 21-32) del D.Lgs. 368/1999 disciplina la “Formazione specifica in medicina generale”, laddove il titolo VI (artt. 34-45) si occupa dei medici specializzandi.

Orbene, l’art. 24, richiamato dalla Procura a sostegno dei propri assunti, prevedeva (nella formulazione ancora vigente alla data del DM 11.9.2003, prima cioè delle modifiche apportate dall’art. 9 del D.lgs 277/2003) al comma 2: “Il corso, comporta un impegno a tempo pieno dei partecipanti con obbligo della frequenza alle attività didattiche pratiche e teoriche. Il corso si conclude con il rilascio di un diploma di formazione in medicina generale da parte degli assessorati regionali alla sanità, conforme al modello predisposto con decreto del Ministro della sanità”. Il comma 3 stabiliva: “Per la durata della formazione a tempo pieno al medico è inibito l’esercizio di attività libero-professionale ed ogni rapporto convenzionale o precario con il servizio sanitario nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private. La frequenza del corso non comporta l’instaurazione di un rapporto di dipendenza o lavoro convenzionale né con il Servizio sanitario nazionale, né con i medici tutori”.

Il testo originario dell’articolo 24, comma 3, quindi, poneva in risalto i “divieti” (privi di sanzione, atteso che la “decadenza” dal corso di formazione originariamente prevista dall’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 256/1991, risultava già abrogata all’epoca dei fatti in contestazione dall’art 46, comma 3, del d.lgs. n. 368/1999) connessi alla formazione.

La nuova formulazione del comma 3 (in vigore dal 29 ottobre 2003) ha, invece, individuato in positivo gli “obblighi” incombenti sul medico in formazione (“La formazione a tempo pieno implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che il medico in formazione dedichi a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno”) contestualmente eliminando ogni riferimento espresso ai “divieti” (“è inibito”).

Osserva il Collegio che una compiuta regolamentazione delle conseguenze scaturenti dalla violazione degli obblighi connessi alla formazione a tempo pieno, è stata disciplinata solo con il DM 7 marzo 2006 (“Principi fondamentali per la disciplina unitaria in materia di formazione specifica in medicina generale”). Infatti, solo con l’articolo 11 del suddetto D.M., sono state dettagliatamente e rigorosamente normate le cause di incompatibilità la cui inosservanza dà luogo alla “sanzione” dell’espulsione dal corso (“in presenza di accertata incompatibilità”), precedentemente non prevista.

La fattispecie in esame, però, rimane soggetta ratione temporis alla disciplina normativa previgente il predetto regolamento ministeriale del 2006 che, pertanto, non può trovare applicazione nell’odierna vicenda.

Ebbene, atteso che -come innanzi visto- dal DM 11.9.2003 non emerge alcun divieto esplicito allo svolgimento di altre attività, asseritamente incompatibili, rimane da valutare quanto previsto dall’art. 24 del Dlgs n. 368/1999 siccome integrato e/o modificato dal decreto legislativo n. 277/2003 ancorché entrato in vigore solo successivamente (il 29.10.2003) al bando di concorso che regola la fattispecie di causa.

Ebbene, come già rilevato, l’incompatibilità originariamente prevista dal comma 3 dell’art. 24, sotto forma di “divieto” di svolgimento di altre attività (“è inibito”), non è stata evidentemente riprodotta nella nuova formulazione della norma (quale innanzi riportata) che, invece, ha individuato il contenuto degli “obblighi” incombenti sui medici in formazione.

Ritiene il Collegio che quand’anche si possa interpretare il nuovo testo del comma 3, dell’art. 24, nel senso che il divieto (ora divenuto implicito) di svolgimento di altre attività remunerate durante il corso di formazione, non sia nella sostanza venuto meno, non è revocabile in dubbio -quanto alla responsabilità amministrativa dell’agente- che la violazione del precetto normativo si arresti sul piano della condotta imputabile, colorandola di obiettiva antigiuridicità.

La ratio del divieto implicito che si ricava dalla nuova formulazione della norma (privo, peraltro, di espressa sanzione per l’inosservanza ex art. 46, comma 3, del d.lgs. n. 368/1999), è evidentemente quella di prevenire ogni possibile distrazione di energie del medico corsista onde garantirne, a monte, un’effettiva e proficua formazione.

Se la contestata violazione vale, quindi, ad integrare una condotta contra ius, è però insufficiente a radicare una responsabilità amministrativa in mancanza di prova di un effettivo e concreto danno erariale da indebita percezione della borsa di studio.

Premesso che dalla violazione del divieto di svolgere prestazioni professionali incompatibili (eccetto quelle consentite ex articolo 19, comma 11, della legge n. 448 del 2001) non consegue -in via amministrativa- la perdita del diritto alla borsa di studio perché tanto non è stato previsto né dal D.Lgs. n. 368/1999 e successive modificazioni (D.Lgs 277/2003), nè dal bando di concorso (DM 11 settembre 2003), è invece evidente che le suddette disposizioni correlano il diritto alla borsa di studio, esclusivamente, “all’effettivo svolgimento del periodo di formazione” in funzione sinallagmatica tra prestazioni. La compiuta realizzazione della “causa” formativa rende, quindi, dovuta l’erogazione della borsa di studio la cui percezione può, pertanto, divenire indebita e foriera di danno erariale solo in caso di comprovato mancato svolgimento del corso e/o omesso conseguimento del diploma finale. In tal senso, un concreto pregiudizio per l’Erario potrà realizzarsi allorquando il contestuale svolgimento di attività vietate perché incompatibili, abbia causalmente impedito la proficua partecipazione al corso di formazione, come ad esempio nel caso in cui il medico sia stato espulso dal corso per aver superato il numero di assenze consentite (è il caso -diverso da quello odierno- oggetto della sent. della 1^ Sez. App. 99/2015, richiamata dall’appellante) o ne abbia comunque ingiustificatamente interrotto la frequenza o non abbia conseguito il giudizio positivo dei tutori e, nonostante ciò, abbia percepito la borsa di studio.

Ma allorquando, come nella specie, sia incontestato il regolare ed effettivo svolgimento del corso e l’esito proficuo dello stesso con conseguimento del diploma finale, non si vede in che modo la percezione della borsa di studio possa ritenersi indebita e integrare un danno erariale.

Nel caso in esame, infatti, è mancata del tutto la prova di un concreto ed effettivo sviamento delle energie professionali dall’attività formativa, non avendo l’Attore pubblico fornito alcun elemento, anche solo indiziario, in tal senso. In particolare, non è emerso quali siano state le modalità concrete di svolgimento delle attività extra-borsa, vale a dire se le stesse siano state prestate a detrimento del corso di formazione o, piuttosto, come sostenuto dall’appellato, al di fuori dei giorni e degli orari dedicati alla formazione e senza alcuna compromissione della frequenza del corso. Risulta viceversa, documentalmente provato il regolare adempimento dell’obbligo formativo e il proficuo conseguimento degli obiettivi finali del corso.

1.3 Il danno erariale

Alla luce delle suddette argomentazioni, non appare condivisibile l’assunto accusatorio secondo cui il danno erariale consisterebbe nello sviamento dalla finalità retributiva esclusiva della borsa di studio a causa della percezione di altri redditi.

Come condivisibilmente affermato in sentenza, l’assunto accusatorio per cui la borsa di studio dovesse costituire “l’unica fonte di reddito del corsista” è privo di copertura normativa. Né nel bando di concorso (DM 11.9.2003), né nel d.lgs. 368/1999 dal primo richiamato (v. art. 11 del DM 11.9.2003), vi è un esplicito riferimento alla natura retributiva “esclusiva” dell’assegno.Rimane, peraltro, evidente che si tratterebbe, comunque, di un’esclusività “relativa” e non assoluta, attesa la prevista cumulabilità della borsa di studio con i redditi provenienti dallo svolgimento delle “attività extra” consentite dall’art. 19, comma 11, della legge 448/2001.

In effetti, la pretesa finalità retributiva esclusiva viene desunta da quanto all’uopo previsto dalla fonte comunitaria (direttiva CEE 93/16 art. 1) in termini di “un’adeguata remunerazione” dell’attività di formazione.

Sennonché, l’art. 46 del d.lgs. 368/1999 di recepimento della citata direttiva comunitaria, subordinava l’importo della borsa di studio alle risorse disponibili nel Fondo sanitario nazionale “destinate al finanziamento della formazione dei medici specialisti”, con la conseguenza che, all’epoca dei fatti di causa, l’importo dell’assegno in questione era, obiettivamente, ben lontano dal potersi ritenere “adeguato” così come la direttiva comunitaria prescriveva.

Ed infatti, l’art. 13, comma 1 del DM 11.9.2003 prevedeva “una borsa di studio dell’importo annuo complessivo di euro 11.603,50 (undicimilaseicentotre/50)”, pari quindi, a poco più di 900 euro lordi mensili, importo questo che, in disparte la natura giuridica del rapporto intercorrente tra il medico in formazione e l’amministrazione sanitaria (v. comma 3, ultima parte, dell’art. 24 del d.lgs. 368/1999), appare oggettivamente inidoneo in relazione al periodo cui si riferiscono i fatti di causa, a garantire al “lavoratore” e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” ex art. 36 Cost..

Osserva il Collegio, infatti, che l’aumento dell’importo della borsa di studio è avvenuto solo con i d.p.c.m. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007, allorquando lo Stato italiano ha finalmente provveduto ad attribuire ai medici in formazione ed agli specializzandi il compenso previsto dal d.lgs. 368/1999. Tale questione, in verità, è ancora oggi, oggetto di contenzioso per ciò che riguarda il diritto ad ottenere l’indennizzo per il mancato rispetto da parte dello Stato, dell’obbligo di erogare un “adeguato” compenso per la formazione dei medici specializzandi nel periodo antecedente l’anno accademico 2006-2007 e, precisamente, dall’anno 1991 (vedasi sul punto, Cass. n. 9147/2009, n. 23358/2011, Sez. Lav. n.12624/2015 e SS.UU. ord. n. 23582/2016 di rimessione al vaglio della Corte di Giustizia Europea della questione dell’ambito applicativo della Direttiva 82/76/CEE).

La pretesa “finalità retributiva esclusiva” della borsa è, quindi, contraddetta dall’accertato, in concreto, mancato adeguamento remunerativo della stessa nel periodo di causa.

L’assunto attoreo appare avvinto da un inammissibile automatismo laddove pretende di ravvisare il dedotto “sviamento” del contributo pubblico dal venir meno del “carattere esclusivo dell’attività formativa” che farebbe cessare “la presunzione di legittima destinazione ed utilizzazione” della borsa di studio (pag. 12 app.).

Tale interpretazione appare confliggente con il dato normativo (innanzi richiamato) e confliggente con la sua stessa ratio legis.

L’interesse pubblico sotteso all’erogazione della borsa di studio è da individuarsi, come detto, nell’effettivo conseguimento dei programmati obiettivi formativi. La borsa di studio va a remunerare, infatti, l’effettivo e proficuo svolgimento del corso di formazione da parte del medico, integrando il nesso sinallagmatico di un rapporto a prestazioni corrispettive.

L’assunto accusatorio, invece, finisce col relegare in secondo piano le finalità di formazione del corso e la natura di remunerazione corrispettiva della borsa di studio, laddove arriva ad affermare che il regime di incompatibilità sarebbe stato predisposto dal legislatore a garanzia “dell’esclusività ed unicità della finalità retributiva della borsa di studio”. Così opinando, si finisce per individuare la ratio legis nel regime retributivo del medico-corsista invece che in quella, chiaramente indicata, di garantirne la piena ed effettiva partecipazione alle attività formative.

Ritiene il Collegio, quindi, che l’esegesi elaborata al riguardo dal primo giudice sia condivisibile ed immune dalle censure sollevate dall’appellante.

2. La Procura appellante lamenta altresì l’asserita qualificazione da parte del primo giudice della fattispecie come sanzionatoria. In realtà, l’impugnata sentenza non contiene alcuna affermazione in tal senso. Osserva il Collegio che proprio perché la disciplina normativa della materia -quale innanzi delineata- non contempla alcuna responsabilità di tipo sanzionatorio, deve a fortiori ritenersi privo di pregio l’assunto accusatorio basato sull’automatismo logico-giuridico per cui alla violazione della normativa sulla incompatibilità consegue tout court il danno erariale pari all’importo della borsa di studio.

3. Da ultimo, il Procuratore appellante censura la mancata applicazione da parte del primo giudice delle circolari ministeriali (di cui ai DD.MM. del 16.12.2003 e del 31.5.2004) successive al bando di concorso, asserendo viceversa che le stesse “rilevano ai fini della determinazione dell’elemento soggettivo della responsabilità”. Rileva il Collegio che l’accertata assenza in fattispecie di un danno erariale concreto ed attuale è assorbente della valutazione dell’elemento soggettivo della responsabilità e delle eventuali circostanze a tal fine rilevanti sicché la disamina dell’anzidetta circostanza si rivelerebbe comunque inutiliter data.

4. Conclusivamente, l’acclarata assenza della prova del danno è assorbente di ogni altro motivo di gravame nonché delle altre eccezioni sollevate in via subordinata dall’appellato.

A tale convincimento il Collegio perviene rivisitando il proprio precedente orientamento (di cui alle sentenze nn. 1005, 1095, 1099, 1119 e 1120/2017 emesse da questa Sezione in diversa composizione) ed in piena consapevolezza dell’esistenza in materia di orientamenti diversi delle altre Sezioni d’appello di questa Corte dalle quali si dissente.

In particolare, non pare condivisibile la sentenza n. 68/2017 della 3^ Sezione centrale (emanata in fattispecie dal quadro fattuale sovrapponibile all’odierna) che pur sposando la tesi accusatoria dell’esclusività retributiva della borsa di studio, considera la questione della sua “adeguatezza” così “definita (a monte) giusta e congrua” dal legislatore, “estranea all’odierno decidere poiché questione rimessa ad altri ambiti”. Ritiene questo Collegio, al contrario, che nel momento in cui si assume che la borsa di studio debba essere l’unica forma di sostentamento del medico in formazione sul presupposto che la fonte comunitaria abbia previsto per l’attività di formazione una remunerazione “adeguata”, non possa coerentemente obliterarsi che il legislatore nazionale non abbia in concreto mai provveduto a dare attuazione al precetto comunitario, se non a distanza di anni. Del resto, la stessa Sezione è stata costretta ad ammettere che “la ratio della predetta disciplina è quella di far concentrare il medico in formazione soltanto sul corso, al fine di meglio poter perseguire la finalità pubblicistica, di rango comunitario, di una migliore formazione” così finendo per smentire l’assunto di partenza incentrato sulla finalità retributiva esclusiva quale ratio dell’erogazione, ed ammettendo (sia pure involontariamente) che la stessa è in funzione esclusiva della formazione.

Con riguardo poi, alla vicenda (anch’essa sovrapponibile, in fatto, all’odierna) oggetto della sentenza sempre della 3^ Sezione n.104/2017, ritiene questo Collegio che il rilievo secondo cui “il tempo sottratto alla formazione (che non è solo frequenza in aula ma studio e applicazione)” possa essersi “concretizzato in una minore preparazione, quand’anche la stessa abbia raggiunti livelli di sufficienza” ivi posto a base della statuizione di accoglimento dell’appello di parte pubblica, se astrattamente condivisibile, necessiti però di concreta prova che, nel caso odierno, è certamente mancata alla luce di quanto detto sub 1.2.

Inconferente al caso in esame è, invece, la sentenza n. 99/15 della 1^ Sezione centrale perché inerente una vicenda dal diverso quadro fattuale (v. sub 1.2).

Conclusivamente, l’appello deve essere respinto con conseguente conferma dell’impugnata sentenza.

Al definitivo proscioglimento nel merito consegue ex art. 31 CGC la liquidazione delle spese di lite in favore dell’appellato nella misura di cui in dispositivo.

P. Q. M.

la Corte dei conti, Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, definitivamente pronunciando così provvede:

-rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;

-liquida le spese legali in favore della difesa dell’appellato in euro 1.500,00 (millecinquecento/00)

Così deciso, in Roma, nelle camere di consiglio del 16 gennaio 2018 e del 30 gennaio 2018.

L’Estensore Il Presidente