FATTO e DIRITTO
1. L’odierno ricorrente, cittadino pakistano e richiedente protezione internazionale, è stato ammesso alla fruizione delle misure di accoglienza ma con provvedimento della Prefettura di Firenze 3 giugno 2019, prot.
-OMISSIS-, il beneficio è stato revocato in quanto egli è risultato assunto presso un’impresa con contratto a tempo determinato fino al 30 giugno 2019 e busta paga (per il mese di aprile 2019) pari a € 574,00. La
circostanza non è stata comunicata al gestore del centro di accoglienza in cui egli era inserito.
Il provvedimento è stato impugnato con il presente ricorso lamentando la mancanza di disponibilità, nonostante il lavoro svolto, di risorse in misura pari o superiore a quelle previste normativamente e deducendo che la
mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento dell’impiego non potrebbe costituire violazione tale da determinare la revoca delle misure di accoglienza, anche in riferimento ai
principi di eccezionalità, gradualità e di proporzionalità fissato dall’art. 20 della Direttiva 2013/33/UE.
Con provvedimento della Commissione istituita presso questo Tribunale Amministrativo Regionale 10 luglio 2019, n. 50, è stata accolta l’istanza di ammissione del ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Si è costituita con memoria di stile l’Avvocatura dello Stato per il Ministero dell’Interno chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 26 luglio 2019, n. 465, è stata accolta la domanda cautelare.
La causa, fissata per l’udienza pubblica del 7 aprile 2020, è stata trattenuta in decisione su istanza congiunta delle parti costituite.
2. Il ricorso è fondato deve essere accolto.
Il provvedimento fonda la revoca dell’ammissione del ricorrente alle misure di accoglienza su una doppia motivazione: da un lato l’asserita disponibilità di reddito tale da consentirgli di provvedere autonomamente al proprio sostentamento in conseguenza dello svolgimento di attività lavorativa; dall’altro, la mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento di un impiego inserito in violazione dell’articolo
3 del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria.
Quanto al primo aspetto, l’estratto conto previdenziale del ricorrente evidenzia che egli nell’anno 2019 ha percepito un reddito pari ad € 3.666,00 oltre la busta paga relativa al mese di dicembre 2019 per € 358,00: la cifra è inferiore all’importo dell’assegno sociale annuo (€ 5.953,87) che costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l’adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento (T.A.R. Basilicata I, 4 giugno 2019 n. 481).
Sotto questo profilo il provvedimento impugnato è dunque illegittimo. Quanto alla violazione del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria, nel caso di specie è necessario fare applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C – 233/18.
La materia dell’accoglienza degli stranieri richiedenti protezione internazionale nel nostro ordinamento è disciplinata dal d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, il quale costituisce trasposizione delle direttive 2013/33/UE,recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.
L’articolo 23 del decreto disciplina la revoca delle misura di accoglienza prevedendo, tra l’altro, alla lettera e) quale causa di revoca la violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti. Il legislatore italiano assume quindi a presupposto della revoca delle misure di accoglienza la violazione delle regole che disciplinano la vita interna delle strutture in cui i richiedenti sono inseriti, a condizione che la stessa sia o grave o reiterata, nonché l’adozione da parte dell’ospite del centro di comportamenti gravemente violenti.
La norma costituisce attuazione di quanto disposto dall’articolo 20 della direttiva 2013/33/UE la quale prevede che gli Stati membri possono “ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni
materiali di accoglienza” in casi specificamente indicati, tra cui non rientrano le ipotesi indicate al paragrafo quattro ovvero “gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ..comportamenti gravemente
violenti” per le quali la norma comunitaria stabilisce che gli Stati membri possono prevedere sanzioni (non meglio specificate).
Il successivo paragrafo 5 della norma comunitaria recita che “le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo
individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del
principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.
È noto che nel rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie queste ultime assumono prevalenza, nel senso che costituiscono parametro di legittimità delle prime le quali, ove contrastanti, devono essere disapplicate sia dal
Giudice che dall’Amministrazione nel caso concreto (C.G.A. sez. giurisd. 16 maggio 2016, n. 139; T.A.R. Marche I, 1 agosto 2016 n. 468; T.A.R.Campania-Napoli III, 6 luglio 2016 n. 3394).
Le posizioni giuridiche create dall’Unione Europea devono infatti essere tutelate in modo uniforme ed
eguale all’interno di tutti gli Stati membri; organo competente ad assicurare la corretta interpretazione delle norme comunitarie è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nel seguito: “Corte”) le cui sentenze devono sempre trovare applicazione all’interno degli Stati membri. L’ordinamento interno si ritrae dalle materie che vengono disciplinate in sede comunitaria e le norme eurounitarie, una volta entrate in vigore, divengono le uniche competenti a regolarle secondo un criterio di competenza, con la conseguenza che le norme interne o sono conformi ad esse oppure, se
contrastanti, non possono trovare applicazione in alcun caso concreto.
Nella materia in trattazione è intervenuta la citata sentenza della Corte che, chiamata a giudicare circa la conformità del diritto belga a quello comunitario nella materia in esame, ha fornito l’interpretazione corretta delle disposizioni che qui vengono in rilievo. Nel caso di specie era accaduto che un cittadino afghano, arrivato in Belgio come minore non
accompagnato, aveva presentato domanda di protezione internazionale ed era stato accolto nei centri di accoglienza di Sugny e Broechem.
In quest’ultimo, il 18 aprile 2016 era stato coinvolto in una rissa tra residenti di varie origini etniche. La polizia era intervenuta per farla cessare e aveva arrestato detto cittadino afgano poiché sarebbe stato uno degli istigatori della colluttazione, rilasciandolo il giorno successivo. Per tali fatti era stato escluso per quindici giorni dalla fruizione dell’accoglienza e contro tale decisione aveva proposto ricorso giudiziario, nel corso del quale è stato effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte.
Questa, con la citata sentenza, ha statuito che l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretato nel senso che
uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad uno straniero richiedente protezione internazionale in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente
violenti, la revoca (anche solo temporanea) delle condizioni materiali di accoglienza, e tanto per diverse ragioni.
In primo luogo l’applicazione di una simile sanzione è ritenuta incompatibile con l’obbligo, derivante dall’articolo 20, paragrafo 5, terza frase, della direttiva 2013/33/UE, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso poiché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Sotto questo profilo difetterebbe anche la
proporzionalità di tale sanzione.
Secondo la Corte gli Stati membri dell’Unione Europea, se non possono adottare la revoca quale sanzione conseguente alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, tuttavia possono prevedere altre tipologie di sanzioni che producano effetti meno “radicali” nei confronti del richiedente protezione internazionale quali la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, eventualmente congiunta al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, oppure il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio. Inoltre l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE non osta ad una misura di trattenimento
del richiedente protezione internazionale ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva stessa, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 dalla medesima previste.
Alla luce di quanto statuito dalla Corte, segue che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lettera e) del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato.
Il Collegio è consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo poiché l’ordinamento italiano non prevede alcuna sanzione (ulteriore alla revoca dell’accoglienza) a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti. E’ tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla
Corte.
3. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato.
Le spese processuali vengono integralmente compensate tra le parti in ragione della novità della normativa applicata.
4. Il ricorrente è stato ammesso al beneficio del gratuito patrocinio e ilpatrocinatore avv. Daniela Consoli ha depositato domanda di liquidazione
per l’importo di € 4.990,00.
L’avv. Daniela Consoli risulta iscritta presso l’Ordine forense di Firenze nelle liste dei difensori che possono svolgere gratuito patrocinio nel processo amministrativo e, pertanto, può essere disposta la liquidazione del compenso per il suo onorario.
Visti gli artt. 82 e 130 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; vista la richiesta di liquidazione depositata dall’avv. Consoli e ritenuto di operare ex art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 una riduzione del 50% in ragione della
non particolare difficoltà della fattispecie, lo stesso viene quantificato nella misura di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Spese compensate.
Liquida a favore dell’avv. Daniela Consoli, a titolo di onorario per gratuito patrocinio, la somma di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in video conferenza secondo quanto disposto dall’articolo 84, comma 6 del d.l n. 18/2020, con
l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
Nicola Fenicia, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Alessandro Cacciari Rosaria Trizzino
IL SEGRETARIO