medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

03/01/2022 n. 1 - Cassazione Penale -Sez. terza

Un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva ”” l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

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responsabilità ex art. 2051 codice civile: spetta all'ente provare che il danno era evitabile

27/03/2020 n. 7578 - Cassazione Civile - Sezione III

MASSIMA 

La responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

FATTI DI CAUSA
Omissis, all’epoca dei fatti un bambino di nove anni, è caduto da uno scivolo del parco giochi del Comune di OMISSIS.

I suoi genitori hanno agito nei confronti dell’ente territoriale sia in proprio che quali rappresentanti del figlio per il risarcimento dei danni, in particolare quelli alla persona, dovuti ad una frattura dell’omero, che il ragazzo ha riportato proprio a seguito di quella caduta.

Secondo gli attori, il danno si sarebbe verificato a causa di un difetto della pedana dello scivolo, e dunque sarebbe danno da ricondurre alla responsabilità da custodia del Comune.

Il Tribunale ha rigettato la domanda ritenendo non chiara la dinamica dei fatti già dalla lettura stessa dell’atto di citazione e dal suo confronto con la narrazione fatta nella querela presentata dai genitori subito dopo il fatto; non ha dunque ammesso le prove ritenendole superflue.

La corte di appello ha valutato come inammissibile il gravame, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., ossia stimando che non avesse alcuna possibilità di venire accolto, e di conseguenza lo ha rigettato in limine.

I genitori di Omissis ricorrono per Cassazione con tre motivi, tutti rivolti verso la sentenza di primo grado.

V’è costituzione del Comune, che oltre a chiedere il rigetto nel merito, eccepisce l’inammissibilità del ricorso e deposita memorie.

DIRITTO 
1. I ricorrenti impugnano la decisione di primo grado, in quanto la sentenza di appello ha solamente ritenuto inammissibile in limine l’impugnazione, e non ha dunque pronunciato nel merito.

La decisione di primo grado ritiene infondata la pretesa di risarcimento assumendo come poco chiare le modalità del fatto, ed anzi del tutto contraddittorie, se si confrontano con quelle esposte nella querela.

In particolare, mentre nella citazione si sostiene che il bambino è caduto perchè la pedana non ha retto, nella querela sarebbe caduto inciampando.

Ciò induce il giudice di merito a ritenere superflue le prove richieste, che nulla apporterebbero a chiarimento della vicenda.

2.- I ricorrenti propongono tre motivi, con i quali lamentano l’uso delle presunzioni e la contraddittorietà della motivazione.

2.1- Con il primo motivo lamentano violazione dell’art. 132 c.p.c. e artt. 2729 e 2697 c.c..

Secondo i ricorrenti, il giudice di merito ha errato nel trarre la sua conclusione esclusivamente dalla esposizione dei fatti resa in citazione, che tra l’altro non era affatto lacunosa nè in contraddizione con altre diverse narrazioni.

Piuttosto avrebbe dovuto coerentemente ammettere le prove per consentire la dimostrazione di quei fatti che, dall’esame del solo atto introduttivo, non potevano ovviamente ritenersi come provati, o viceversa come inverosimili.

2.1.- Con il secondo motivo si lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione a quanto detto con il primo, ossia per via della illogicità e erroneità della mancata ammissione della prova, che ha portato a decidere in assenza di qualsiasi risultanza istruttoria.

2.2. Con il terzo motivo si lamenta in particolare violazione dell’art. 2051 c.c.. Il giudice di merito aveva ritenuto, in subordine, che comunque non era provato che il difetto della pedana fosse una insidia non visibile.

Secondo i ricorrenti il concetto di insidia è stato erroneamente ricondotto dal giudice alla responsabilità per custodia, che invece non lo contempla e non lo richiede come necessario.

3.- Va però preliminarmente considerato che il Comune di OMISSIS eccepisce l’inesistenza della notifica del ricorso per Cassazione.

Secondo il controricorrente, l’atto è stato notificato al difensore costituito nel primo grado di giudizio, e non a quello intervenuto in appello.

Il difensore domiciliatario del primo grado, infatti, è stato revocato e sostituito in secondo grado da altro difensore, ed era a quest’ultimo che andava notificato il ricorso, non già a quello ormai revocato e non più domiciliatario.

L’eccezione è infondata.

Ritiene il Collegio di dover dare seguito alla decisione delle Sezioni unite, n. 14916/2016, secondo cui ” L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603 01); “Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicchè i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.” (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640604 – 01).

La notifica de qua deve pertanto ritenersi non “inesistente”, in quanto compiuta comunque in un luogo che presenta un collegamento con il destinatario, consistente nel domicilio del precedente difensore (da ultimo in tal senso Cass. 1798/ 2018), ma semmai nulla, con conseguente però sanatoria dovuta alla costituzione del destinatario.

4.- Nel merito il ricorso è fondato.

Lo sono tutti e tre i motivi.

I primi due attengono alla decisione del giudice di merito di non ammettere le prove e di ritenere infondata la domanda, semplicemente sulla base della contraddizione tra quanto esposto in citazione e quanto riferito nella querela.

Secondo i ricorrenti la tesi del giudice di merito sarebbe viziata da violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè da contraddittorietà manifesta della motivazione e da violazione delle norme sull’onere della prova (art. 2697 c.c.). La fondatezza die motivi deriva da quanto segue.

Va ricordato innanzitutto che una motivazione è sufficiente quando è tale da giustificare la ratio.

Nel caso presente, il giudice di merito ha ritenuto contraddittoria le versione dei fatti narrata nell’atto di citazione, dove si legge che la “caduta a terra sarebbe dovuta ad una sorta di cedimento strutturale di una o più delle assi in legno del ponte dello scivolo”, mentre nella denuncia-querela il fatto sarebbe stato descritto in modo diverso e contraddittorio rispetto a quello di cui alla citazione, ossia nel senso di “una caduta dovuta ad un inciampo in una delle assi di legno non fissate perfettamente alla struttura del gioco” (p. 7 della sentenza).

E’ di tutta evidenza che non v’è alcuna radicale contraddittorietà tra la descrizione dell’incidente fatta in citazione e quella fatta nell’atto di querela, posto che il fatto, pur se in modo diverso, in entrambi gli atti è unico, e consiste nel “dinamismo” che i ricorrenti attribuiscono allo scivolo quale causa dell’incidente.

Il giudice di merito, ben può non ammettere le prove richieste dalla parte, ma del rifiuto dell’istruttoria deve dare adeguata motivazione, in difetto della quale la sua decisione è ricorribile in Cassazione (Cass. 16214/2019).

La motivazione resa dal giudice, ossia che vi fosse una contraddizione nella narrazione del fatto in due atti diversi, tanto da renderla inverosimile, non solo di per sè non giustifica la ratio della decisione, ma neanche è idonea a farlo in base al suo contenuto, che, come si è visto suppone una contraddizione inesistente.

Inoltre, ed è ciò che è denunciato più precisamente con il secondo motivo, il giudice di primo grado ha ritenuto non provato il fatto sulla base di una contraddizione tra la narrazione contenuta nelle sommarie informazioni e la narrazione contenuta nella citazione, ma, per come risulta dal testo della prima delle due, riportato a pagina 18 del ricorso, anche nelle sommarie informazioni si fa riferimento al fatto che le assi di legno della pedana non erano ben fissate.

Così che la tesi che le due narrazioni si contraddicano l’un l’altra, oltre a non costituire motivazione sufficiente a sorreggere una decisione di rigetto delle prove e della domanda, è frutto di un errore percettivo sul contenuto di una prova, che può essere fatto valere in sede di legittimità (“In materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte” (Cass. 27033/2018; Cass. 9356/2017).

4.1.- Fondato è altresì il terzo motivo.

Con esso i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 2051 c.c., censurando come errata la tesi del giudice di merito secondo cui la responsabilità per cose in custodia sussiste quando quest’ultima, per le sue caratteristiche intrinseche, determina la configurazione nel caso concreto di un’insidia (p. 7 della sentenza), e che la prova che l’insidia non fosse visibile o che fosse evitabile spettava al danneggiato.

I ricorrenti contestano che la norma preveda la necessità di tale requisito.

Il motivo è fondato in quanto la responsabilità da cose in custodia non richiede che quest’ultima costituisca un’insidia, ossia un pericolo non visibile e prevedibile, attenendo semmai questo aspetto alla evitabilità del danno da parte del danneggiato.

La responsabilità da cose in custodia presuppone soltanto che il danno sia avvenuto per il “dinamismo” di una cosa che era soggetta al controllo del convenuto, spettando a quest’ultimo la prova che il danno era evitabile dal danneggiato usando l’ordinaria diligenza, ossia la prova che la cosa presentasse una insidia visibile ed evitabile dal danneggiato (Cass. 11802/2016; Cass. 12027/2017).

Il ricorso va dunque accolto, e la decisione cassata con rinvio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

presunzione pari responsabilità dei conducenti in caso di incertezza della dinamica del sinistro

20/03/2020 n. 7479 - Cassazione Civile -Sezione III

FATTO

A, danneggiato in un incidente stradale avvenuto in data (OMISSIS) sulla strada provinciale (OMISSIS) tra la moto da lui guidata ed un presunto (perché rimasto sconosciuto) veicolo bianco che invadendo la corsia di marcia del P. ne aveva determinato la perdita di controllo del mezzo e l’impatto con un guardrail, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 939 del 2017 che, confermando la pronuncia di prime cure, ha applicato la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro, di cui all’art. 2054 c.p.c., comma 2. L’applicazione della presunzione di pari responsabilità è stata disposta dalla Corte territoriale, all’esito di ben due perizie cinematiche, nell’impossibilità di addivenire ad una ricostruzione certa dei fatti di causa. Il Giudice d’Appello, per quel che ancora rileva in questa sede, dato atto che, sulla scorta delle prove testimoniali acquisite, il veicolo antagonista aveva invaso la corsia di marcia del P. provocandone lo sbandamento e l’impatto con un garderail, in assenza di elementi certi ed inconfutabili sulla dinamica del sinistro, ha ritenuto di applicare l’art. 2054 c.c., comma 2, in ottemperanza alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l’accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti, nel caso di scontro tra veicoli, non esonera l’altro dall’onere di provare di essersi conformato alle norme sulla circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza. Avverso la sentenza, che ha altresì accolto un motivo di ricorso incidentale disponendo la restituzione di una parte della somma liquidata dalla compagnia in esecuzione della sentenza di primo grado, il P. propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da memoria. Resiste la Unipolsai con controricorso, illustrato da memoria. La causa, già assegnata alla Adunanza Camerale della Terza Sezione Civile del 7/3/2018, è stata, con ordinanza interlocutoria, rimessa alla pubblica udienza per la natura nomofilattica delle questioni in essa trattate.

IN DIRITTO 
Occorre preliminarmente replicare all’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata da parte resistente per il mancato deposito della copia autentica della sentenza impugnata in una al deposito del ricorso. L’eccezione è infondata in quanto detta copia autentica risulta depositata da parte resistente, sì da soddisfare quanto statuito da questa Corte con la pronuncia n. 10648 del 2017 secondo la quale in tutti i casi in cui la sentenza impugnata è presente nel fascicolo del giudizio a quo perché, ad esempio, prodotta da parte resistente, la condizione di procedibilità può dirsi rispettata, poiché il giudicante è posto in condizioni di esaminare il documento e di verificare il rispetto del termine per l’impugnazione.

1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente solleva violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e pone una questione di diritto: se l’art. 2054 c.c., comma 2, sia applicabile anche nel caso in cui vi sia stato, da parte dell’organo giudicante, un accertamento positivo sulla responsabilità di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro e non vi sia alcuna certezza circa l’eventuale corresponsabilità del danneggiato. Secondo il ricorrente infatti la presunzione di pari responsabilità non potrebbe applicarsi in casi siffatti.

1.1 Il motivo non è fondato in ragione della giurisprudenza di questa Corte che fa del criterio di imputazione presuntiva della pari responsabilità di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, un criterio residuale che si applica in tutti i casi in cui non è possibile stabilire l’esatta misura delle diverse responsabilità nella produzione del sinistro. La ratio dell’art. 2054 c.c., comma 2, è proprio quella di offrire un criterio fittizio di imputazione della responsabilità laddove non sia possibile pervenire ad una esatta ricostruzione dei fatti di causa. Ciò che emerge con chiarezza nel caso in esame è proprio l’impossibilità di ricostruire con esattezza cosa sia effettivamente avvenuto, tanto che ben due CTU cinematiche non hanno consentito di sciogliere i dubbi. In questa situazione di assoluta incertezza, il Giudice di merito ha correttamente applicato l’art. 2054 c.c., comma 2, non potendo avere rilevanza, perché afferente al mero campo delle ipotesi, privo di fattuale riscontro, che nell’eziologia dell’incidente sia certamente ravvisabile la responsabilità del conducente di uno dei veicoli coinvolti nel sinistro. In ogni caso, anche laddove la responsabilità prevalente o esclusiva di uno dei due veicoli coinvolti fosse stata acclarata senza alcun ragionevole dubbio il che si ripete non è dato affermare nel caso in esame – anche in tal caso il giudice non sarebbe esonerato dall’onere di accertare che il veicolo danneggiato si fosse attenuto al rispetto delle norme del C.d.S. ed a quelle di comune prudenza.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere non superata la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro nel caso in cui sia accertata la colpa di uno dei conducenti (Cass., 3, n. 1244 del 16/5/2008; Cass., 3, n. 23431 del 4/11/2014). In ogni caso la ratio dell’art. 2054 c.c., comma 2, è proprio quella di fornire un criterio sussidiario in tutti i casi in cui l’accertamento delle condotte non consenta di giungere a conclusioni certe circa l’imputazione della responsabilità del sinistro. Si veda sul punto, ex multiis, Cass., 3 n. 9353 del 4/4/2019 secondo la quale “In tema di scontro tra veicoli, la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall’art. 2054 c.c., comma 2, ha funzione sussidiaria, operando soltanto nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l’evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro”.

2. Conclusivamente il ricorso va rigettato. In ragione della peculiarità della fattispecie si ritiene di compensare le spese del giudizio di cassazione.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del cd. “raddoppio “del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, a seguito di trattazione in pubblica udienza, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2020

responsabilità infermiere struttura privata per manomissione cartella infermieristica

10/03/2020 n. 9393 - Cassazione penale - sez. V (ud. 16/12/2019, dep. 10/03/2020)

L’infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Due in infermieri hanno falsificato la scheda infermieristica indicando di avere effettuato il controllo dei valori della diuresi e delle verifiche posturali.

Il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

L ‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Questo anche se operano in struttura privata – Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato .Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL , ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del Pubblico Ufficiale.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p.

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responsabilita' della struttura sanitaria per l'inadempimento di prestazioni medico libero professionale

09/03/2020 n. 4939 - Tribunale Roma

La struttura sanitaria risponde dell’operato del medico anche laddove quest’ultimo non sia qualificabile quale lavoratore subordinato, purché ci sia un collegamento tra la prestazione effettuata dal sanitario e l’organizzazione della struttura medesima, non assumendo alcuna rilevanza la circostanza che il medico sia “di fiducia” del paziente ovvero che sia stato scelto dallo stesso (ex multis, Cass., Sez. III, n. 13953/2007: “Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal S.s.n. o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto”).

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il dentista e' responsabile quando sottopone il paziente a cure inutili che ne comportano l'aggravamento delle condizioni di salute

26/02/2020 n. 5128 - SEZIONE III

L’inadempimento rilevante, nell’ambito dell’azione di responsabilità medica, per il risarcimento del danno nelle obbligazioni, così dette, di comportamento non è, dunque, qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del paziente – creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, o comunque genericamente dedotto, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè “astrattamente efficiente alla produzione del danno” (così chiosa Cass. SU 577/2008). Conseguentemente, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 27606 del 29/10/2019; Cass.Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018).

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