accertamento età anagrafica e valore in processi diversi - risolve conflitto

10/11/2021 n. 4332 ud. 10/11/2021 – deposito del 24/11/2021 - cassazione penale - sezione prima

Come è stato affermato da Sez. I Civ. n. 6520 del 2020, in sede di analisi del tessuto normativa e della particolare previsione di legge che impone la «sospensione di ogni procedimento amministrativo e penale» in pendenza della procedura de qua, : [ .. ] in tal modo si è inteso rendere esplicito il proponimento che il provvedimento di attribuzione dell’età, a cui il decidente perviene all’esito del procedimento multidisciplinare .. , non è funzionale solo all’attivazione delle misure di protezione previste dal d.lgs. 142 del10/11/2021 n. 4332 ud. 10/11/2021 – deposito del 24/11/2021 2015, ma è destinato a riverberare i suoi effetti anche in altri rami dell’ordinamento giuridico che fanno dell’età il presupposto discriminatorio per l’applicazione di un trattamento differenziato rispetto a quello normalmente praticato [ .. ].

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negato rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato in presenza di una condanna in materia di stupefacenti

28/07/2020 n. 4797 - Sezione III

Le condanne in materia di stupefacenti sono automaticamente ostative, anche una sola condanna, qualunque sia la pena detentiva riportata dal condannato, non rilevando la concessione di attenuanti o della sospensione condizionale della pena, né la modalità di esecuzione della stessa, e che l’appellante è stato condannato dal Tribunale di Brescia, con sentenza del 26.10.2011, divenuta irrevocabile il 21.11.2011, per il reato continuato di detenzione e vendita illecita di sostanze stupefacenti ad anni uno e mesi sei di reclusione e alla multa di euro 6000.

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permesso di soggiorno per motivi umanitari: l'inattendibilità del racconto del richiedente non giustifica il rigetto

21/04/2020 n. 8020 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Caltanissetta confermava l’ordinanza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da XXXX, nato a (Pakinstan), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e ss.; in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. La Corte territoriale riteneva inattendibile il racconto del richiedente – che aveva riferito di temere nel suo paese di essere perseguitato dai talebani, che avrebbero voluto addestrarlo alla guerra santa e a seguito del suo rifiuto ne avevano ucciso il padre rilevandone le contraddittorietà ed incongruenze. Negava quindi il riconoscimento dello status di rifugiato nonché la protezione sussidiaria; riferiva che nel rapporto EASO del 2016 la situazione del Pakistan con riferimento alla regione di provenienza del richiedente appariva critica, registrandosi operazioni a terra da parte delle forze militari pakistane contro gruppi militanti, che avevano continuato attacchi terroristici ed uccisioni mirate, ma che nel report aggiornato all’ottobre 2018 il livello di violenza indiscriminata appariva significativamente ridotto, tanto che il distretto di Nowshera non era preso in considerazione tra i più colpiti da fatti di violenza con esito mortale.

3. Aggiungeva che seppure si profilava un recente radicamento dell’appellante nel territorio nazionale, la complessiva inattendibilità del racconto non dava adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine tale da configurare una specifica condizione di vulnerabilità nel caso di rientro.

4. Per la cassazione della sentenza XXXX, ha proposto ricorso, affidato a due motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c.; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente deduce come primo motivo la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, dell’art. 10 Cost., D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2,3,7,14 e 17; D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 32, comma 3; D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5) comma 6, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere la Corte d’Appello valutato compiutamente la situazione personale dell’odierno ricorrente e la documentazione prodotta in ordine alla situazione del Pakistan, per avere motivato in maniera generica ed insufficiente e, infine, per avere omesso l’esame della domanda di protezione umanitaria. Lamenta che la Corte territoriale, nel negare il riconoscimento della misura di protezione sussidiaria nonché per contraddire il racconto offerto dal richiedente, avrebbe omesso il doveroso vaglio circa la sua credibilità soggettiva e avrebbe omesso di attivare i poteri ufficiosi necessari ad una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale in Pakistan. Sostiene altresì che la Corte d’Appello avrebbe limitato la propria indagine a fonti informative parzialmente non attuali interpretando non correttamente quanto dichiarato alla Commissione territoriale e senza tenere conto di alcune circostanze decisive per la decisione, quale la denuncia sporta nel settembre del 2015 dal padre del ricorrente (che produce).

6. Come secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione è apparente ordine alla valutazione di non credibilità da parte della Corte d’Appello sulla vicenda personale da lui narrata. Sostiene che sarebbe illegittimo il rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria basato esclusivamente sulla non credibilità del racconto del richiedente. Sostiene che la reiezione di tale domanda non può essere frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due richieste principali, senza alcuna indagine sulle condizioni poste a base del peculiare soggiorno temporaneo, da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani, ancorché non sufficienti ad interare le condizioni per le altre forme di protezione.

7. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Questa Corte ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018).

8. Il richiedente è dunque tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositiva, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 15794 del 12/06/2019).

9. Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento di fatto così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12/11/2019, n. 29279).

10. Nel caso, la Corte d’Appello ha compiuto il dovuto esame delle dichiarazioni del richiedente, vagliandole alla luce delle informazioni attendibili ed aggiornate relative al paese di provenienza, ritenendole non credibili e comunque inidonee ad integrare i presupposti per la protezione richiesta, sicché la doglianza relativa alla necessità di procedere ad ulteriore cooperazione istruttoria officiosa costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure adeguatamente censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

11. A tale proposito, occorre ribadire, come precisato da Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 e 8054, che l’art. 360 c.p.c., n. 51, nella formulazione vigente, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

12. Nel caso, il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di un documento, ovvero della denuncia sporta dal padre del 2015, e non di un fatto storico. Peraltro, neppure riferisce in quale momento e sede processuale tale denuncia sia stata prodotta, sicché la produzione effettuata in questo giudizio di legittimità risulta inammissibile ex art. 374 c.p.c..

13. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato. Questa Corte ha chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019), che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

14. La Corte d’Appello ha motivato il rigetto della domanda di protezione umanitaria sulla base della complessiva inattendibilità del racconto del richiedente, inidoneo a dare adeguata contezza di uno sradicamento qualificato nel territorio di origine, tale da profilare una specifica situazione di vulnerabilità in caso di rientro.

15. Tale soluzione si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo il quale il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, in relazione alla specifica situazione dedotta a sostegno della domanda di protezione internazionale, non può precludere la valutazione, da parte del giudice, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, delle diverse circostanze che concretizzino una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva e, se necessario, previa integrazione anche officiosa delle allegazioni del ricorrente, in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, in quanto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente al rigetto delle altre domande di protezione internazionale, attesa la strutturale diversità dei relativi presupposti (Cass. n. 10922 del 18/04/2019, Cass. n. 21123 del 07/08/2019).

16. Il giudice di merito, a fronte della documentata integrazione in Italia risultante dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avrebbe dovuto quindi valutare comparativamente la situazione cui incorrerebbe il richiedente in caso di rientro nel Paese di origine, in relazione alla situazione ivi presente in tema di compromissione dei diritti umani fondamentali.

17. Segue l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, e la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione che dovrà procedere a nuovo esame in coerenza con i principi esposti e dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

18. Non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente vittorioso, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2020

disciplina italiana della revoca delle misure di accoglienza e contrasto con la normativa europea

16/04/2020 n. 437 - TOSCANA -sezione seconda

FATTO e DIRITTO
1. L’odierno ricorrente, cittadino pakistano e richiedente protezione internazionale, è stato ammesso alla fruizione delle misure di accoglienza ma con provvedimento della Prefettura di Firenze 3 giugno 2019, prot.
-OMISSIS-, il beneficio è stato revocato in quanto egli è risultato assunto presso un’impresa con contratto a tempo determinato fino al 30 giugno 2019 e busta paga (per il mese di aprile 2019) pari a € 574,00. La
circostanza non è stata comunicata al gestore del centro di accoglienza in cui egli era inserito.
Il provvedimento è stato impugnato con il presente ricorso lamentando la mancanza di disponibilità, nonostante il lavoro svolto, di risorse in misura pari o superiore a quelle previste normativamente e deducendo che la
mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento dell’impiego non potrebbe costituire violazione tale da determinare la revoca delle misure di accoglienza, anche in riferimento ai
principi di eccezionalità, gradualità e di proporzionalità fissato dall’art. 20 della Direttiva 2013/33/UE.
Con provvedimento della Commissione istituita presso questo Tribunale Amministrativo Regionale 10 luglio 2019, n. 50, è stata accolta l’istanza di ammissione del ricorrente al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Si è costituita con memoria di stile l’Avvocatura dello Stato per il Ministero dell’Interno chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 26 luglio 2019, n. 465, è stata accolta la domanda cautelare.
La causa, fissata per l’udienza pubblica del 7 aprile 2020, è stata trattenuta in decisione su istanza congiunta delle parti costituite.
2. Il ricorso è fondato deve essere accolto.
Il provvedimento fonda la revoca dell’ammissione del ricorrente alle misure di accoglienza su una doppia motivazione: da un lato l’asserita disponibilità di reddito tale da consentirgli di provvedere autonomamente al proprio sostentamento in conseguenza dello svolgimento di attività lavorativa; dall’altro, la mancata comunicazione al gestore del centro di accoglienza dell’avvenuto reperimento di un impiego inserito in violazione dell’articolo
3 del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria.
Quanto al primo aspetto, l’estratto conto previdenziale del ricorrente evidenzia che egli nell’anno 2019 ha percepito un reddito pari ad € 3.666,00 oltre la busta paga relativa al mese di dicembre 2019 per € 358,00: la cifra è inferiore all’importo dell’assegno sociale annuo (€ 5.953,87) che costituisce il parametro legislativamente stabilito per valutare l’adeguatezza delle risorse al proprio sostentamento (T.A.R. Basilicata I, 4 giugno 2019 n. 481).
Sotto questo profilo il provvedimento impugnato è dunque illegittimo. Quanto alla violazione del regolamento dei centri di accoglienza straordinaria, nel caso di specie è necessario fare applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C – 233/18.
La materia dell’accoglienza degli stranieri richiedenti protezione internazionale nel nostro ordinamento è disciplinata dal d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142, il quale costituisce trasposizione delle direttive 2013/33/UE,recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.
L’articolo 23 del decreto disciplina la revoca delle misura di accoglienza prevedendo, tra l’altro, alla lettera e) quale causa di revoca la violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti. Il legislatore italiano assume quindi a presupposto della revoca delle misure di accoglienza la violazione delle regole che disciplinano la vita interna delle strutture in cui i richiedenti sono inseriti, a condizione che la stessa sia o grave o reiterata, nonché l’adozione da parte dell’ospite del centro di comportamenti gravemente violenti.
La norma costituisce attuazione di quanto disposto dall’articolo 20 della direttiva 2013/33/UE la quale prevede che gli Stati membri possono “ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni
materiali di accoglienza” in casi specificamente indicati, tra cui non rientrano le ipotesi indicate al paragrafo quattro ovvero “gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ..comportamenti gravemente
violenti” per le quali la norma comunitaria stabilisce che gli Stati membri possono prevedere sanzioni (non meglio specificate).
Il successivo paragrafo 5 della norma comunitaria recita che “le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo
individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del
principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti”.
È noto che nel rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie queste ultime assumono prevalenza, nel senso che costituiscono parametro di legittimità delle prime le quali, ove contrastanti, devono essere disapplicate sia dal
Giudice che dall’Amministrazione nel caso concreto (C.G.A. sez. giurisd. 16 maggio 2016, n. 139; T.A.R. Marche I, 1 agosto 2016 n. 468; T.A.R.Campania-Napoli III, 6 luglio 2016 n. 3394).

Le posizioni giuridiche create dall’Unione Europea devono infatti essere tutelate in modo uniforme ed
eguale all’interno di tutti gli Stati membri; organo competente ad assicurare la corretta interpretazione delle norme comunitarie è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (nel seguito: “Corte”) le cui sentenze devono sempre trovare applicazione all’interno degli Stati membri. L’ordinamento interno si ritrae dalle materie che vengono disciplinate in sede comunitaria e le norme eurounitarie, una volta entrate in vigore, divengono le uniche competenti a regolarle secondo un criterio di competenza, con la conseguenza che le norme interne o sono conformi ad esse oppure, se
contrastanti, non possono trovare applicazione in alcun caso concreto.
Nella materia in trattazione è intervenuta la citata sentenza della Corte che, chiamata a giudicare circa la conformità del diritto belga a quello comunitario nella materia in esame, ha fornito l’interpretazione corretta delle disposizioni che qui vengono in rilievo. Nel caso di specie era accaduto che un cittadino afghano, arrivato in Belgio come minore non
accompagnato, aveva presentato domanda di protezione internazionale ed era stato accolto nei centri di accoglienza di Sugny e Broechem.

In quest’ultimo, il 18 aprile 2016 era stato coinvolto in una rissa tra residenti di varie origini etniche. La polizia era intervenuta per farla cessare e aveva arrestato detto cittadino afgano poiché sarebbe stato uno degli istigatori della colluttazione, rilasciandolo il giorno successivo. Per tali fatti era stato escluso per quindici giorni dalla fruizione dell’accoglienza e contro tale decisione aveva proposto ricorso giudiziario, nel corso del quale è stato effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte.
Questa, con la citata sentenza, ha statuito che l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, deve essere interpretato nel senso che
uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad uno straniero richiedente protezione internazionale in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente
violenti, la revoca (anche solo temporanea) delle condizioni materiali di accoglienza, e tanto per diverse ragioni.
In primo luogo l’applicazione di una simile sanzione è ritenuta incompatibile con l’obbligo, derivante dall’articolo 20, paragrafo 5, terza frase, della direttiva 2013/33/UE, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso poiché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Sotto questo profilo difetterebbe anche la
proporzionalità di tale sanzione.
Secondo la Corte gli Stati membri dell’Unione Europea, se non possono adottare la revoca quale sanzione conseguente alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, tuttavia possono prevedere altre tipologie di sanzioni che producano effetti meno “radicali” nei confronti del richiedente protezione internazionale quali la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, eventualmente congiunta al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, oppure il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio. Inoltre l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE non osta ad una misura di trattenimento
del richiedente protezione internazionale ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva stessa, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 dalla medesima previste.
Alla luce di quanto statuito dalla Corte, segue che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lettera e) del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato.
Il Collegio è consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo poiché l’ordinamento italiano non prevede alcuna sanzione (ulteriore alla revoca dell’accoglienza) a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti. E’ tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla
Corte.
3. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato.
Le spese processuali vengono integralmente compensate tra le parti in ragione della novità della normativa applicata.
4. Il ricorrente è stato ammesso al beneficio del gratuito patrocinio e ilpatrocinatore avv. Daniela Consoli ha depositato domanda di liquidazione
per l’importo di € 4.990,00.
L’avv. Daniela Consoli risulta iscritta presso l’Ordine forense di Firenze nelle liste dei difensori che possono svolgere gratuito patrocinio nel processo amministrativo e, pertanto, può essere disposta la liquidazione del compenso per il suo onorario.
Visti gli artt. 82 e 130 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; vista la richiesta di liquidazione depositata dall’avv. Consoli e ritenuto di operare ex art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 una riduzione del 50% in ragione della
non particolare difficoltà della fattispecie, lo stesso viene quantificato nella misura di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Spese compensate.
Liquida a favore dell’avv. Daniela Consoli, a titolo di onorario per gratuito patrocinio, la somma di € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) cui devono essere aggiunti gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in video conferenza secondo quanto disposto dall’articolo 84, comma 6 del d.l n. 18/2020, con
l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
Nicola Fenicia, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Alessandro Cacciari Rosaria Trizzino
IL SEGRETARIO

nigeria: il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è subordinato alla presenza di un'effettiva situazione di vulnerabilità

06/04/2020 n. 7733 - Sezione I

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

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protezione internazionale: se non c'è la videoregistrazione del colloquio il giudice è tenuto a fissare l'udienza di comparizione parti

06/04/2020 n. 7720 - Cassazione Civile -Sezione I

1. AAAA, cittadino (OMISSIS), ricorre avverso il decreto in data 4 maggio 2018 n. 1893/2018, con il quale il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale emesso dalla locale Commissione territoriale.

1.1. Con il primo motivo, in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1 e art. 21, comma 1, così come convertito dalla L. n. 46 del 2017, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e art. 77 Cost., comma 4, per mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza nell’emanazione dello stesso decreto legge, per quanto concerne il differimento dell’efficacia temporale, e, quindi, dell’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale.

1.2. Con il secondo motivo, sempre in via preliminare, chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, vulnerando il rito camerale ex art. 737 c.p.c., così come disciplinato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, nuovo art. 35-bis, commi 9, 10 e 11 il principio del contraddittorio e quello della parità processuale delle parti.

1.3. Con il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 9, 10 e 11, come introdotti dalle disposizioni del D.L. n. 13 del 2017, art. 6, lett. g), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46 del 2007, avendo il Tribunale omesso di fissare l’udienza di comparizione delle parti obbligatoriamente prevista dalla legge, nonostante l’espressa, corrispondente istanza del ricorrente. In subordine, chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, art. 24, commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2, 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU.

1.4. Con il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), art. 14, lett. c) e art. 3 e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva reputato insussistenti i presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione sussidiaria.

1.5. Con il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e succ. mod., nonchè omesso esame di un fatto decisivo e difetto di motivazione”, censurando il decreto impugnato nella parte in cui aveva giudicato insussistenti i seri motivi di carattere umanitario rilevanti per il rilascio, in suo favore, del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie: segnatamente essendovi stata omessa considerazione delle peripezie affrontate dal deducente nel viaggio migratorio attraverso la Libia.

2. L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE
Il decreto impugnato deve essere annullato per le ragioni di seguito indicate.

1.Le questioni di legittimità costituzionale delle norme del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 sono già state esaminata da questa Corte e ritenute manifestamente infondate.

1.1. Quella che si chiede di sollevare in riferimento agli art. 3 e 77 Cost., è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù dell’osservazione secondo la quale la disposizione transitoria dettata dal D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, non si pone in contrasto con i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che presiedono all’emanazione dei decreti legge, essendo connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale volto a consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1- n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799 – 02; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

1.2. Quella che si chiede di sollevare in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., commi 1 e 2, art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, art. 117 Cost., comma 1, come integrato dalla Direttiva n. 32/2013 e dagli artt. 6 e 13CEDU, è stata ritenuta manifestamente infondata in virtù del rilievo che il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non venga fissata l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata soltanto alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in assenza della trattazione orale le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01). Inoltre, l’imposizione del rito camerale non contrasta con i principi costituzionali invocati neppure in relazione alla prevista non reclamabilità del decreto di primo grado, trovando la stessa ragionevole giustificazione nell’esigenza di accelerare la definizione dei giudizi in questione, aventi ad oggetto diritti fondamentali, ed essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di escludere l’appellabilità della decisione di primo grado, con riguardo ai giudizi che sollecitano una pronta soluzione, dal momento che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non trova copertura generalizzata a livello costituzionale (Corte Cost., sent. n. 199 del 2017 e 243 del 2014; ord. n. 42 del 2014).

2. Il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Torino, onde escludere la necessitata fissazione dell’udienza non basta che sia in atti il verbale di audizione dinanzi alla Commissione territoriale: difatti, nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione Territoriale innanzi all’autorità giudiziaria, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, per violazione del principio del contraddittorio.

Tale interpretazione è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 ed 11 che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale. Si tratta di orientamento condiviso da parte di questa Corte di legittimità (Sez. 6 – 1, n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445 01; Sez. 1 -, n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815 – 01; Sez. 6 1, n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463 – 01; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 05), cui il Collegio intende senz’altro dare continuità.

3. In accoglimento del terzo motivo, assorbiti i restanti, il decreto impugnato deve essere, quindi, cassato. Segue il rinvio al Tribunale di Torino, il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio esposto e rinnoverà l’esame dei profili di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo, assorbiti i restanti, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Torino.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

protezione internazionale: l'omosessualità del richiedente deve essere provata

31/03/2020 n. 7623 - Sezione I

FATTI DI CAUSA
1. – OMISSIS ricorre per un unico articolato motivo, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 28 maggio 2018 con cui la Corte d’appello di Ancona, pronunciando su appello dell’amministrazione ed in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la sua domanda di protezione internazionale o umanitaria, in conformità con quanto aveva inizialmente fatto la competente Commissione territoriale.

2. – Non spiega difese l’amministrazione intimata.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7, 8, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 9, comma 2, art. 13, comma 1 bis, e art. 27, comma 1, violazione e falsa applicazione dei suddetti articoli di legge anche quale conseguenza della violazione dell’art. 116 c.p.c., violazione dell’obbligo di congruità dell’esame e di cooperazione istruttoria.

Secondo il ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che dalla sua stessa narrazione non potesse desumersi la condizione di omosessualità posta a fondamento della domanda di protezione, risultando che egli avesse intrattenuto soltanto due relazioni omosessuali, una in età adolescenziale, l’altra mercenaria. Il giudice di merito, inoltre, nel valutare come incongruente, generico e non credibile il racconto del richiedente, non aveva indicato le ragioni su cui aveva basato il proprio convincimento, nè aveva doverosamente proceduto a richiedere al medesimo gli eventuali chiarimenti ritenuti necessari. Parimenti, la Corte territoriale non avrebbe potuto porre in dubbio l’orientamento sessuale del richiedente per il fatto che, una volta stabilitosi in Italia, egli non risultava aver frequentato ambienti gay. Erronea, ancora, era l’affermazione contenuta in sentenza in ordine all’assenza di una prova documentale della condizione di omosessualità, con l’aggiunta, addirittura, che la narrazione svolta fosse priva di riscontro per la mancanza di prove “dell’esistenza di un eventuale procedimento penale nei suoi confronti, nè di attività di ricerca da parte della polizia del Gambia, nè di atti persecutori nei suoi confronti”. Infine la Corte d’appello avrebbe mancato di approfondire la situazione del Paese di origine.

2. – Il ricorso è inammissibile.

2.1. – L’inammissibilità discende anzitutto dalla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dal momento che il ricorrente ha posto a sostegno del ricorso le dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, il provvedimento di quest’organo nonché le argomentazioni difensive rappresentate nell’atto introduttivo del giudizio di fronte al Tribunale: ebbene, nessuno di tali atti è “localizzato” (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475), ed anzi non risulta dal ricorso neppure che siano stati prodotti i fascicoli di parte delle fasi di merito.

L’assenza di tale documentazione, d’altronde, non rileva soltanto sul piano, peraltro insuperabile, dell’inosservanza dell’adempimento formale prescritto dalla norma, ma ridonda su quello contenutistico, giacchè la Corte di cassazione non è neppure posta in condizioni di scrutinare la doglianza del ricorrente, nel suo nucleo essenziale, laddove egli afferma che il giudice d’appello si sarebbe limitato a richiamare “quanto già dedotto dalla Commissione territoriale” ed avrebbe “completamente omesso di valutare le ragioni introduttive del giudizio e accolte dal Giudice di primo grado”.

2.2. – Il ricorso è inoltre inammissibile per violazione del numero 3 dello stesso art. 366 c.p.c., il quale richiede che il ricorso contenga a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa.

Si è accennato che, nel caso in esame, il Tribunale aveva accolto la domanda del richiedente, accordandogli “lo status di rifugiato” (tanto riferisce il ricorrente a pagina 5 del ricorso). Orbene, nulla è detto in ricorso nè della domanda rivolta al Tribunale, nè del contenuto della decisione di quest’ultimo, nè del contenuto dell’atto d’appello dell’amministrazione, nè delle difese svolte dal OMISSIS, nè dell’eventuale riproposizione, da parte sua, di domande ed eccezioni non accolte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.: sicchè questa Corte non è in grado di verificare se le questioni sollevate siano tuttora “vive”, ovvero – e questa è la essenziale ragione della previsione normativa – se si tratti di questioni coperte da giudicato o comunque abbandonate.

2.3. – In ogni caso il ricorso è inammissibile perché totalmente versato in fatto.

Nel motivo, difatti, non si discorre affatto del significato e della portata applicativa delle norme richiamate in rubrica, ma solo della concreta applicazione che il giudice di merito ne ha fatto, ritenendo che la narrazione posta dal richiedente a fondamento della domanda fosse generica, scarsamente credibile e stereotipata.

Come è noto, infatti, dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va difatti tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Ciò detto, vale osservare che la Corte territoriale, nel ritenere sostanzialmente implausibile la narrazione del richiedente, ha, contrariamente a quanto da questi sostenuto in ricorso, esplicitato le ragioni del proprio opinamento in modo sintetico, ma ben comprensibile. OMISSIS, difatti, aveva sostenuto di essersi sforzato di mantenere segreta la sua relazione omosessuale con un cittadino canadese, e, tuttavia, non si sa come, un mattino si erano presentati presso la sua abitazione uomini delle forze dell’ordine che avevano sparato a sua sorella ed arrestato la madre ed il cittadino canadese, mentre lui era immediatamente scappato: al che la Corte territoriale ha obiettato che siffatti eventi presupponevano la pendenza di un procedimento penale contro di lui, del quale non vi era invece alcuna traccia non solo documentale ma neppure narrativa. Quanto alla situazione del Gambia, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza del giuramento del nuovo presidente del Paese, in data 18 febbraio 2017, e la sua promessa di democrazia, libertà, progresso e benessere, a chiusura della precedente dittatura. E proprio tale complessiva valutazione di merito il ricorrente ha inammissibilmente attaccato, con lo scopo di ribaltarla.

3. – Nulla per le spese. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

espulsione nel caso in cui il permesso di soggiorno non venga rinnovato tempestivamente

31/03/2020 n. 7619 - SEZIONE I

Fatto

Con ordinanza del 25.9.18, il giudice di pace di Torino rigettò l’opposizione proposta da AAAA avverso il decreto d’espulsione emesso dal Prefetto di Torino il 27.6.18, osservando che: la ricorrente era titolare del permesso di soggiorno, emesso dal Questore di Asti il 23.2.16; lo stesso Questore rigettò l’istanza di rinnovo del permesso, con provvedimento emesso il 13.9.18, in quanto la ricorrente aveva tardivamente inviato la documentazione finalizzata al rinnovo del permesso, oltre un anno dalla relativa scadenza, non ottemperando altresì all’invito a presentarsi per i rilievi fotodattiloscopici, prescritti dall’art. 5, comma 2bis TUI; il Prefetto aveva escluso i motivi umanitari o altri gravi motivi di carattere personale, D.P.R. n. 394 del 1999, ex art. 11, comma 1, lett. c) ter, – ovvero di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 -; dall’intervista effettuata ed allegata in atti della Pubblica Amministrazione risultava che la ricorrente non aveva chiesto il termine per la partenza volontaria; era stato congruamente motivato il rischio di fuga della ricorrente.

La AAAA ricorre in cassazione con due motivi.

Non si è costituita l’intimata Prefettura cui il ricorso è stato notificato presso l’Avvocatura dello Stato.

RITENUTO

Con il primo motivo si denunzia l’omessa valutazione delle condizioni che escludono l’espulsione automatica dello straniero, atteso che, pur in caso di ritardo nel rinnovo del permesso di soggiorno, l’espulsione non sarebbe legittima nel caso in cui l’interessato possa dimostrare la persistenza dei requisiti legittimanti il rinnovo stesso.

Con il secondo motivo si deduce l’omessa valutazione della mancanza originaria o sopravvenuta dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno, non sussistendo i presupposti normativi dell’espulsione dello straniero non appartenente all’area UE, in quanto: non era stata accertata la pericolosità della ricorrente, nè sussistevano le fattispecie dell’ingresso illegale e del soggiorno irregolare; l’ordinanza impugnata era stata emessa nella pendenza dei termini per proporre ricorso avverso il diniego di rinnovo, presentato dalla ricorrente il 12.10.18.

I due motivi, in quanto tra loro connessi, sono esaminabili congiuntamente e sono infondati alla luce dell’orientamento di questa Corte – cui il collegio intende dare continuità – secondo cui in tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero è obbligatorio a carattere vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare, al momento dell’espulsione, l’assenza del permesso di soggiorno perché non richiesto (in assenza di cause di giustificazione), revocato, annullato ovvero negato per mancata tempestiva richiesta di rinnovo, mentre è preclusa ogni valutazione, anche ai fini dell’eventuale disapplicazione, sulla legittimità del relativo provvedimento del Questore trattandosi di sindacato che spetta unicamente al giudice amministrativo, il giudizio innanzi al quale non giustifica la sospensione di quello innanzi al giudice ordinario attesa la carenza, tra i due, di un nesso di pregiudizialità giuridica necessaria, nè la relativa decisione costituisce in alcun modo un antecedente logico rispetto a quella sul decreto di espulsione” (Cass., SU, n. 22217/06; n. 12976/16; n. 15676/18).

Ne consegue che, nel caso concreto, ciò che rileva è l’accertamento, al momento dell’espulsione, della mancanza del permesso di soggiorno perché scaduto e non rinnovato, essendo irrilevante la circostanza della pendenza dei termini per impugnare il diniego di rinnovo.

Inoltre, va rilevato che la ricorrente non ha dedotto di aver presentato una domanda di rinnovo, seppure tardiva.

Nulla per le spese, attesa la mancata costituzione della parte intimata; inoltre, dato l’oggetto del giudizio, non s’applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

bangladesh: la scarsa tutela del diritto alla salute nel paese di origine non giustifica il riconoscimento della protezione internazionale

18/03/2020 n. 7424 - Cassazione Civile - Sezione I

FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata in data 22.05.2018, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Ancona ha rigettato la domanda di XXXX, cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella umanitaria.

Il giudice di merito ha ritenuto insussistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria in relazione alla natura palesemente economica e privata della sua vicenda di emigrazione ed alla mancanza di credibilità del suo racconto con riferimento al dedotto timore per la sua incolumità personale in caso di rientro in patria (il richiedente aveva riferito di essere fuggito dal Bangladesh a seguito di dissidi con un vicino sul diritto di proprietà di un terreno, sfociati in episodi di violenza privata di cui era stato vittima e in minacce di morte da parte dello stesso vicino).

Ha proposto ricorso per cassazione XXXX affidandolo a due motivi.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta il ricorrente che al medesimo non è stato chiesto dai giudici di merito alcun chiarimento, non sono state approfondite le dichiarazioni dallo stesso rese davanti alla Commissione territoriale, lo stesso non è stato posto, attraverso il suo ascolto, in condizioni di fornire in maniera chiara ed esaustiva le proprie argomentazioni, deduzioni e mezzi istruttori.

2. Il motivo è infondato.

Va osservato che questa Corte ha già statuito che nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, anche ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (Cass. n. 5973/2019).

Dunque, anche nell’ipotesi in cui manchi la videoregistrazione del colloquio (situazione neppure dedotta dal ricorrente), non sussiste l’obbligo del giudice di rinnovare l’audizione del richiedente, il quale, peraltro, nel caso di specie, neppure risulta aver chiesto di essere nuovamente ascoltato dai giudici di merito.

Infine, il ricorrente neppure ha indicato gli elementi fattuali sui quali avrebbe eventualmente dovuto vertere la nuova audizione.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Lamenta il ricorrente che la Corte di Appello ha escluso la verosimiglianza del suo racconto senza approfondire ed analizzare la corrispondenza delle sue dichiarazioni.

Rileva, inoltre che la salute e l’accesso all’alimentazione sono considerati diritti inalienabili dell’individuo, avendo il richiedente diritto a che gli sia garantito un livello di vita adeguato per sè e per la propria famiglia laddove le condizioni sociali ed economiche del Pese di provenienza non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita.

4. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non è sufficiente la generica deduzione della violazione dei diritti fondamentali nel Paese d’origine.

Sul punto, questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini, Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad invocare genericamente la scarsa tutela del diritto alla salute ed alla alimentazione nel suo paese d’origine senza specificare quale fosse la sua condizione personale al momento della partenza, se non che la sua immigrazione fosse stata dettata anche da motivi economici.

Infine, il ricorrente ha lamentato il mancato approfondimento delle sue dichiarazioni senza confrontarsi minimamente con le argomentazioni con cui la Corte di merito ha ritenuto l’inattendibilità del suo racconto.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’interno costituito in giudizio.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

costa d'avorio: minori non accompagnati e protezione internazionale

11/03/2020 n. 6913 - Sezione I

Fatto

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, Omissis, cittadino della Costa d’Avorio, ha adito il Tribunale di Catanzaro impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva narrato di aver lasciato il proprio Paese perchè perseguitato dagli spiriti che lo avevano morso a un piede cagionandogli una emorragia inarrestabile, guarita solo allorchè si era recato in Burkina Faso e di non poter tornare al proprio Paese perchè altrimenti si sarebbe di nuovo scatenata l’emorragia.

Con ordinanza del 15/5/2017 il Tribunale ha accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo al richiedente asilo il diritto a un permesso di soggiorno motivi umanitari.

2. L’appello proposto dal Ministero dell’Interno è stato accolto dalla Corte di appello di Catanzaro, a spese compensate, con sentenza del 3/7/2018, a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso Omissis, con atto notificato il 4/2/2019, svolgendo un motivo.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita solo con memoria al fine di poter eventualmente partecipare alla discussione orale.

Diritto
1. Con il motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa il fatto decisivo della minore età del richiedente al momento dell’arrivo in Italia.

Secondo il ricorrente, la Corte era incorsa in contraddizione perchè aveva considerato la tenera età quale fattore di vulnerabilità (pag. 3, terzo capoverso, rigo 20) salvo poi contraddirsi nella valutazione in concreto di tale elemento.

La Corte di appello si era anche contraddetta laddove, dopo aver ricordato i presupposti della concessione della protezione umanitaria quale misura atipica e residuale di tutela di soggetti vulnerabili, non aventi titolo alla protezione internazionale, aveva ravvisato la genericità della motivazione della sentenza di primo grado e aveva dato rilievo ai fini del diniego ad elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Il ricorrente era minorenne non accompagnato quando era pervenuto in Italia il 16/7/2015 e al momento della sua audizione personale (2/4/2016), anche volendo considerare attendibile la data di nascita del 2/2/1998 in luogo di quella (1/1/2000) riportata nel provvedimento di diniego della Commissione.

Il caso non era stato trattato in via prioritaria, come imposto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 28, per i minori non accompagnati; d’altra parte, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, il ricorrente non era espellibile in quanto minore di anni 18.

Le varie circostanze rappresentate (aver lasciato il Paese di origine ed essere entrato in Italia da minorenne, aver ricevuto accoglienza quale minore non accompagnato; aver compiuto la maggiore età nelle more della domanda di asilo, aver allegato una situazione di forte indigenza e instabilità psicologica, aver svolto qualche lavoro con regolare assunzione) erano elementi che il Collegio non avrebbe dovuto trascurare e che sul presupposto di una particolare vulnerabilità del richiedente avrebbero dovuto giustificare il rigetto del gravame.

2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che avalla l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge.

Inoltre la stessa sentenza 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito aderisce al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

3. Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato il principio che la protezione umanitaria si configura come misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Sez. 6 – 1, n. 23604 del 09/10/2017, Rv. 646043 02); il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario che l’accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti (Sez. 1, n. 28990 del 12/11/2018,Rv. 651579 – 03); la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Sez. 6 – 1, n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700 – 01).

4. La Corte di appello ha escluso la situazione di vulnerabilità soggettiva del richiedente, riconosciuta invece dal Giudice di primo grado, negando rilievo alla minore età del B. al momento dell’arrivo in Italia, anche secondo la meno favorevole opzione (per vero motivata solo da uno sbrigativo “come è noto”) fra le due date di nascita alternativamente considerate (1/1/2000 e 2/2/1998).

Il ricorrente è arrivato, solo, in Italia il 16/7/2015; in data 22/12/2015 è stato accolto presso il Centro di Accoglienza di Petilia Policastro, come risulta dal decreto del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro del 5/1/2016; solo in data 12/4/2016 è stato sentito dalla Commissione territoriale, nonostante il disposto del D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 18, che imponeva la trattazione prioritaria della domanda di asilo del minore.

Il giovane è quindi arrivato in Italia, ha proposto domanda, è stato accolto e sentito dalla Commissione Territoriale quando ancora era minorenne, pur secondo il calcolo più sfavorevole adottato dalla Corte di Appello.

Il minore rappresenta una categoria di soggetto vulnerabile come risulta da numerosi indici normativi: D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1-bis, prevede che in nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati; il comma 2 della stessa lett. a), inoltre non consente l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’art. 13, comma 1, nei confronti degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; l’art. 19, comma 2-bis, include il minore fra le categorie dei soggetti vulnerabili, per i quali il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate, al pari delle persone affette da disabilità, degli anziani, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali.

D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, con espressa previsione di salvaguardia dei diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, impone di tener conto, sulla base di una valutazione individuale, della specifica situazione delle persone vulnerabili, quali i minori, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, i minori non accompagnati, le vittime della tratta di esseri umani, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

Il successivo comma 2-bis richiama l’attenzione sulla necessità di considerare con carattere di priorità il superiore interesse del minore.

D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 19, prevede che al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale sia fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda e sia garantita l’assistenza del tutore in ogni fase della procedura per l’esame della domanda, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 5.

Se sussistono dubbi in ordine all’età, il minore non accompagnato può, in ogni fase della procedura, essere sottoposto, previo consenso del minore stesso o del suo rappresentante legale, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi al fine di accertarne l’età. Se gli accertamenti effettuati non consentono l’esatta determinazione dell’età si applicano le disposizioni del presente articolo.

Il minore partecipa al colloquio personale secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 3, e gli deve essere garantita adeguata informazione sul significato e le eventuali conseguenze del colloquio personale.

5. La Corte catanzarese, in riforma della decisione di primo grado, ha attribuito valore decisivo alla sopraggiunta maggiore età del ricorrente, senza tener in alcun conto che anche secondo il conteggio più sfavorevole ciò era avvenuto ben dopo l’arrivo in Italia e la richiesta di protezione, in virtù di un automatismo matematico, del tutto indifferente ai tempi del procedimento che non possono essere imputati al richiedente asilo e al parametro di prioritaria trattazione sancito dalla legge.

In siffatto contesto la Corte ha anche ignorato la circostanza dell’assunzione del giovane a tempo determinato, rilevante ai fini del giudizio comparativo, documentata in secondo grado, per rimarcare la mancanza di qualsiasi allegazione di elementi di integrazione lavorativa.

5. In ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con il rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione civile, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020